I disastri di immagine fanno male

Dopo le disavventure di Acer e OneMeet, dopo i rilasci affrettati di Google, stavolta è il turno di Timberland, protagonista principale, insieme a Puma, del bel dossier pubblicato negli scorsi giorni su Repubblica. Le parole trasmettono immagini strazianti, il rigurgito causato dalla lettura è forte: la risposta immediata è la solita, “Mai più”.

Neanche il fatto che, appena pochi giorni prima, Timberland avesse espresso il suo rispetto pubblico per le povere pecore merinos, oggetto di una campagna internazionale della Peta, ha potuto risollevarne l’immagine pubblica. Anzi: molti hanno visto nella dichiarazione pubblica un efficace lavaggio di immagine e nel dossier uno squarcio sulla realtà, rispetto alle “verità” da vetrina pubblicate sui siti ufficiali.

L’articolo è interessante perché non solo mette in luce la disumanità del lavoro dei poveri cinesi, ma offre anche cifre chiare: un paio di Puma costerebbero industrialmente 90 centesimi, più 6 euro di sponsorizzazioni sportive. Il dato è interessante perché dimostra che non è necessariamente la pubblicità il buco nero in cui finiscono i soldi degli acquirenti finali: è guadagno puro, del produttore e di tutta l’infinita catena distributiva.

I conti delle aziende coinvolte in questo tipo di torture, d’altra parte, sono chiari: meno di un mese fa la stessa Timberland, ad esempio, aveva rivelato un primo trimestre con risultati da sogno. Con l’utile in crescita del 36%, tanto per citare un dato, c’è proprio bisogno di far stramazzare gli operai dei propri fornitori? Se anche non lo si volesse fare per motivazioni etiche, da un punto di vista strettamente di business, che senso ha farsi del male, distruggere così il proprio marchio?

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