Todo Mondo, il first minute va in linea

Forse non c’era bisogno di un altro portale – vendi – vacanze, ma di una ventata di freschezza nel settore sì. La fortuna di Todo Mondo sta nel nascere in un momento in cui finalmente l’Internet italiana è matura: lo si vede nell’usabilità del sito, nella selezione commerciale, nella coerenza dell’offerta. Carina anche la campagna stampa, che è riuscita a colpire, a quanto si sente in giro, soprattutto un target femminile.

On line come off line, d’altra parte, i feedback positivi sulle vacanze effettuate con Todo Mondo prendono il sopravvento e c’è da immaginare che lo facciano allo stesso modo i profitti. L’idea del “prima prenoti, meno spendi” non è nuova: TeoremaTour ne declama la paternità già nel 1988. Todo Mondo aggiunge al concetto anche il criterio del numero di richiedenti: man mano che ci si avvicina al sold out, i prezzi crescono.

Tra i tanti aspetti positivi di questa bella esperienza di e-commerce, tuttavia, c’è anche qualche lato oscuro: nella contrattualistica, ad esempio, i dati societari (e non solo) sono incompleti e sostituiti da xxxx temporanei mai riempiti. L’assenza completa di Avitour Srl da InfoImprese non aiuta a dare credibilità. Altra pecca, la scelta di un call center a pagamento: nessuno chiede un numero verde, ma un 899 è veramente troppo, anche perché ormai classicamente filtrato sia dai centralini aziendali, sia dai privati.

In ogni caso, è bene andare avanti su questa strada: ogni esperienza felice aggiunge un granello di credibilità all’e-commerce italiano e questo è molto, molto importante. Che si aggiunga una briciola in più di trasparenza alle belle interfacce e si avranno migliaia di consumatori soddisfatti e milioni di profitti in più…

Update: è doveroso segnalare che, successivamente a questo post, Todo Mondo (anzi, TodoMondo come è scritto nel loro sito) ha compilato i dati mancanti nelle condizioni generali di contratto. Non ci si può che augurare un altro piccolo sforzo con l’abolizione dell’899 e poi si potrà etichettare il sito come una delle migliori piattaforme europee di brokering turistico.

Troppa fiducia verso le e-mail o verso le Banche?

Da tempo immemore le Banche si pongono come interlocutore privilegiato per le esigenze di tutela (del patrimonio, del futuro proprio e della famiglia, degli affari, etc.) di individui ed aziende: la comunicazione a volte eccessivamente fredda (non è un caso che si ricorra oggi a “Più Susanna, meno Banca” e similari) è stata spesso intesa come garanzia di “freddezza professionale”, di capacità di astrarsi dalle contingenze per poter svolgere meglio il proprio compito.

Agli estremi, questo approccio di “terza parte fidata” (traduzione alla meno peggio dall’inglese) è stata la motivazione per cui, ad esempio, in molti paesi Europei (Italia in primis) gli Istituti Bancari sono stati incaricati di garantire i flussi di comunicazione tramite firma digitale, potendo svolgere un ruolo “istituzionale” ma al tempo stesso “indipendente” in situazioni quali le controversie tra pubblico e privato.

C’è poco da meravigliarsi, dunque, che una persona apra un’e-mail inviata da un indirizzo riconducibile alla propria Banca: proprio perché magari rarissima, potrebbe essere una comunicazione interessante o importante. Tuttavia, quando si leggono messaggi del genere:

«Siamo spiacenti di annunciare che negli ultimi giorni hackers hanno trasmesso fraudolenti e-mail chiedono le parole di accesso dei nostri clienti. D’ora in poi una nuova misura di sicurezza sarà attivata. Tutti i clienti sono sospesi. Per riattivare il vostro cliente dovete seguire il collegamento e fornirci nuove informazioni di sicurezza per verifica soltanto»

forse dovrebbe sorgere qualche dubbio sulla legittimità della provenienza e della destinazione linkata, per quanto il messaggio ed il sito possano presentare template riconducibili alla grafica ufficiale dell’Istituto.

Una cosa è essere vittima di un attacco keylogging via trojan: un’altra è convincersi che UniCredit o Banca Intesa possano scrivere messaggi in lingua straniera e poi tradurli con il traduttore automatico… Più che mala o buona fede, il phishing si basa sulla stupidità di fondo: non si può nemmeno invocare il fattore emozionale, trattandosi di comunicazioni commerciali da parte di Banche!

Servizi o contenuti?

Onorevole l’iniziativa di Gianluca Neri di riprendere l’aggiornamento di “Banca Dati della Memoria”, iniziativa un tempo avviata su Clarence con partner illustri dell’intellighenzia di sinistra italiana ed oggi planata, come molti altri contenuti (cfr. gli articoli di Genna od Orioles) su Macchianera.

Onorevole, soprattutto, perché parte da uno spunto di vita quotidiana che, però, lo ha spinto a ragionare sui massimi sistemi: un “ad maiora” della ragionevolezza in Rete che, tuttavia, deve far riflettere sugli spunti di fondo. Gianluca ha deciso, infatti, di metter su di nuovo il teatrino in considerazione dell’abbandono – anzi, della conversione forzata – del suo (ex) Clarence, da portale cool e “saggio” allo stesso tempo ad abominevole servizio di hosting (?) da una parte ed in portalino porta box pubblicitari dall’altra.

“Servizi, non contenuti”, pare sia stata la giustificazione dell’evoluzione. Si torna, come al solito, al vecchio dilemma per cui, dopo anni in cui si è cercato, in tutta Europa, di fabbricare contenuti su cui appioppare pubblicità, ci si è resi conto che l’unica attività che continua a produrre reddito è quella della connettività. Inquietante, ma vero: non c’è Excite che tenga, persino i “portali” (che certo non brillavano per l’originalità dei contenuti) ormai vengono svenduti dalla Tiscali di turno, riconcentrata come i concorrenti sul core business.

Le suonerie e le altre cavolate pseudo – VAS (in cosa starebbe, il valore aggiunto?) sono solo un (piccolo) step più avanti rispetto alla vendita di connessioni ed hosting: di fatto, basta vedere il billing, che di solito avviene tramite addebiti sui conti telefonici, per rendersi conto che chi ottiene i veri guadagni sono le compagnie telefoniche, non gli operatori del mondo della comunicazione o gli editori.

“Contenuti, non servizi”, rimane la chimera di chi vuole costruire un’Internet basata sulla compravendita di beni immateriali non legati, appunto, al mondo TLC. Ma la storia, si sa, sta andando in maniera diversa: Creative Commons e P2P sono ormai realtà consolidate e, per grazia di Dio, conosciute al largo pubblico. Certo, un giusto equilibrio tra contenuti “a valore aggiunto” e contenuti “di pubblico interesse” potrebbe essere il perno su cui far avanzare il traballante sviluppo economico della Rete europea…

Il rumoroso silenzio di uno sciopero

A volte anche ai blogger più esagitati capita ancora di leggere i quotidiani on line. Perché magari li ritrovano linkati nei post del vicino di piattaforma o, è l’ultima moda del momento, ne hanno voluto premiare la sete di innovazione inserendo qualche timido RSS nel proprio aggregatore. Senza voler entrare nell’infinita polemica scaturita da un intervento di Zambardino proprio sul rapporto tra blogger, giornalisti e link che li collegano (o meno), ogni tanto qualche riflessioncina sulla visibilità della stampa tradizionale in Rete (e di quella “alternativa”) la si può anche fare.

Restando al caso italiano, colpiscono oggi i disclaimer in cima alle home page di Repubblica.it e Corriere.it: colpiscono magari non a prima vista, ma attirano sicuramente l’attenzione di coloro che, per caso o per scelta, transitano da quelle pagine più di una volta al giorno e trovano il proprio sito preferito sempre immobile ed uguale a sé stesso. Dando un’occhiata al comunicato del Corriere della Sera, si scopre che i quotidiani free non sono usciti ieri, l’intero sito rimane senza aggiornamenti per tutta la giornata di oggi, mentre il quotidiano non esce nelle edicole domani. Il 20, invece, è il turno dei radiotelevisivi. Insomma, in un sol colpo si spegne il flusso informativo per un’infinità di giorni.

Le motivazioni della FNSI, ovviamente, sono più che giuste. Tuttavia, a guardare Google News Italia dello sciopero non sembra esserci traccia: centinaia di collegamenti, come ogni giorno, vengono catalogati e segnalati in base alla loro importanza. Non è un caso che a prima vista risaltino segnalazioni di articoli tratti da siti come Ragionpolitica.it (?). Continuano a persistere i collegamenti alle testate giornalistiche di articoli di ieri, ma col passare delle ore scendono implacabilmente nella gerarchia automatica del servizio. A scorrere la pagina, invece, si trovano numerosi link ad articoli tratti da RaiNews24 o da La Padania On line.

Morale della favola, anche se l’informazione ufficiale si ferma, c’è sempre qualcuno che mette in linea contenuti aggiornati e no, non si sta parlando dei blog o dei newsgroup. C’è tutta una selva di siti a metà strada tra l’amatoriale ed il semiufficiale che iniziative come Google News premiano e portano allo stesso livello dei siti informativi ufficiali. Visto che sono secoli che nel Web Italiano si parla di mancanza di contenuti, forse è il caso di iniziare a “mappare” meglio il mondo.

Illudersi fa male (ed innervosisce)

Una volta calmati gli animi per i risultati (prevedibilissimi) dei referendum dello scorso week-end, viene voglia di riflettere sull’ondata di malcontento che, molto più di quanto sia avvenuto nel mondo “reale”, ha attraversato i blog italiani. Gli stessi che, fino al giorno del voto, ostentavano banner e altri ammenicoli promozionali in favore del Sì.

La campagna di sensibilizzazione era legittima e, nessuno può negarlo, apprezzabile nei toni e nei modi: i radicali avevano saputo cavalcare non tanto l’onda del viral marketing classico sul Web, quanto quello assai più moderno (ed efficace) del “Tam tam blog“; meno convincente la campagna dell’altra campana, quella che invitava all’astensionismo, ruotante quasi del tutto intorno al sito di Scienza e Vita. In entrambi i casi, comunque, il meccanismo di fondo era quello di una campagna a costo zero che mettesse in gioco la credibilità personale di ognuno in favore di una causa o dell’altra. Con episodi bizzarri come la marea di link al sito Grazie alla Vita: predisposto per convincere i cattolici a dire Sì, conteneva affermazioni talmente drastiche da convincerli forse ad andare a votare, ma con sonoro No al cambiamento.

Ma la mappa non è il territorio, scrivevano gli analisti più attenti il giorno dopo: le campagne, si è scoperto, erano più autoreferenziali del previsto. Plausibilmente, si era riusciti a convincere soprattutto i sostenitori del Sì, già ampiamente motivati dal proprio humus culturale, ad andare a votare a favore dell’abrogazione: peccato che, se sostenitori e neoconvertiti rimanevano personalità illustri del Web, ma illustri sconosciuti fuori dalla Rete. La credibilità delle starlette è stata ben spesa in favore di altri navigatori indecisi, ma il passaparola si è fermato a qualche bit di bannerini, piuttosto che a qualche parolina in più alla portinaia.

Notava Gianluca Neri che molti si sono risvegliati come da un sogno, scoprendo che non sempre essere “elite” premia: si finisce banalmente ghettizzati non tanto per la caparbietà della propria posizione “politica”, quanto per il volerla perorare a tutti i costi esclusivamente nel proprio luogo favorito, il non – luogo di blog e similari. Stefano Hesse estendeva il discorso in maniera molto profonda: se c’è un malessere culturale (ignoranza iper diffusa?), poco possono fare (ed hanno fatto) coloro che si chiudono davanti allo schermo del PC a ragionare brillantemente da soli invece che davanti allo schermo della TV a rincretinirsi in lieta compagnia.

La campagna astensionistica ha vinto, in ogni caso, proprio per questa (in)abilità generale a perdere di vista il contenuto della materia in discussione a favore dello schieramento politico: un’enorme semplificazione del gioco in chiave “siamo i buoni – siete i cattivi” che è valsa più di mille ore di comunicazione televisiva scientificamente corretta (inevitabilmente ritenute noiosissime sulla fiducia, va da sé). I blogger si erano già illusi con Howard Dean: succederà altrettanto nelle Elezioni Politiche 2006?

Io compro qui (o forse no)

Si discute animatamente, su dot-coma, dell’onnipresente campagna pubblicitaria di Monclick, il nuovo megastore virtuale di Esprinet. Campagna onnipresente solo a Milano, a dire il vero: città come Bologna o Roma, si scopre confrontando le esperienze, non sono state toccate dai manifesti. Si sa che gli acquirenti dell’e-commerce stanno in Lombardia e si rimane lì: anche gli analisti finanziari, altrettanto residenti a Milano e dintorni, rimarranno soddisfatti da una tale campagna vecchio stampo.

Nulla da eccepire sulla scelta di Linus come testimonial, visto che è un personaggio mitologico che, attraverso i secoli, riesce sempre a conquistare le fasce cool della popolazione. E si sa, che gli acquirenti dei siti italiani sono personcine cool.

Si sa, inoltre, che ormai il settore ICT offre margini così marginali (!) da rendere micidiale la lotta per il profitto: i vendor à la Apple ormai vendono tantissimo on line persino in Italia, senza arrivare a player puri come Dell. Esprinet rischia la fine dei vari Opengate e Tecnodiffusione, se non trova nuove forme di guadagno attraverso la conquista di nuovi clienti: se si sa come trattare i buyer delle aziende della GDO si sa anche vendere direttamente ai consumatori, no? No.

Per non farsi mancare nulla, si sa anche che, per lanciare un sito di e-commerce, è necessario spendere 2 milioni di Euro tra affissioni, stampa e TV e 500mila Euro sul Web. Un po’ come se si volesse aprire un centro commerciale a Lambrate e si facesse pubblicità sulle reti televisive nazionali: fa branding. Si sa che bisogna educare gli italiani a comprare on line. Basta sponsorizzare la metropolitana milanese ed automaticamente si convincerà i passanti a: 1) iniziare a navigare sulla Rete; 2) cominciare ad acquistare sulla Rete; 3) spendere il proprio budget ICT su Monclick.

Non c’è speranza di orientarsi verso la gente – quella sì veramente cool – che vive serenamente il rapporto con la Rete e capisce in base alla propria esperienza dove andare a comprare. Gli analisti li ritengono nerd con pochi soldi in tasca, non vale la pena di inseguirli.

Le inquietanti aberrazioni della dialettica politica

Berlusconi alza il dito medio...Possiamo immaginare l’enorme gioco della comunicazione politica come l’insieme dei flussi comunicativi che vagano da un vertice di un triangolo ad un altro. Alla base del triangolo, banalmente, possiamo mettere da una parte i cittadini, dall’altro i politici (democraticamente) eletti. Sul vertice opposto, i giornalisti, nella doppia veste di opinion leader e di “filtro” tra le istanze dei cittadini e quelle dei governanti.

Un filtro attivo, importante, perché riesce a tradurre gli incomprensibili algoritmi della politica a tutto favore dei cittadini, ma che allo stesso tempo (attraverso inchieste, interviste ai lettori, sondaggi di opinione, lettere alla redazione, etc.), dovrebbe poter portare “verso l’alto” la voce del “popolo”, a sua volta poco comprensibile perché accompagnata da un enorme rumore di fondo.

In Italia il gioco (un gioco serio, tuttavia, non puerile), si sta rompendo. Al di là del proprio schieramento politico, il cittadino fa fatica a capire le dinamiche politiche ma (e la cosa potrebbe diventare molto più grave) anche quelle che legano i politici al mondo dei media. Si è già detto delle incomprensibili evoluzioni del centrosinistra italiano: qui, invece, si vuole richiamare l’attenzione sulla comunicazione quotidiana, su quell’insieme di piccoli gesti che, fatti da “grandi” (…) personaggi, assumono un alone del tutto diverso e che i giornalisti provano a raccontare nelle loro cronache.

Di diti medi se ne vedono tanti, in giro. Il gesto è volgare di per sé, ma più che un modo di scandalizzare, a volte è un (efficiente) modo di comunicare il proprio disagio. Usato da un primo ministro con un sorriso sornione in viso, tuttavia, comunica molto più di quanto possa avvenire in qualsiasi altro contesto. L’altro lato del triangolo può solo rimanere sconvolto, incredulo: le implicazioni di quel gesto sono di tale complessità da generare reazioni diverse, ma che inevitabilmente portano alla memoria episodi similari accaduti in passato.

Sembra inevitabile, a quel punto, che il terzo vertice scenda in campo per “filtrare”, con la sua autorità, lo sdegno pubblico per il gesto in sé e per le sue connotazioni: quando Biagi ha tentato di farlo, ha a sua volta innescato un attacco di rabbia non dalla parte lesa (el pueblo incredulo), ma da chi doveva quantomeno sminuire quel momento di pubblica debolezza, invece di utilizzarlo come trampolino per nuovi attacchi. Più che ad un triangolo, a questo punto, stiamo assistendo ad uan (pessima) spirale.

Scienze della Comunicazione: una buona idea finita male

Erano i primi anni Novanta, quando Umberto Eco tirò fuori dal suo cappello un’altra idea rivoluzionaria per il sonnolento mondo accademico italiano: una Laurea in Scienze della Comunicazione. Non un “laboratorio creativo” come il DAMS, ma una laurea che, specie nell’accezione di Eco, aveva i connotati di uno studio (quinquennale) di qualcosa di “scientifico”, con un forte taglio semiologico.

A quella felice creazione a numero limitato (la selezione di un centinaio di posti prevedeva almeno un numero pari a 20 volte tanto di candidati) sono seguiti altri corsi in giro per l’Italia, in un crescendo di specializzazioni e di iscritti. La riforma universitaria ha fatto nascere ulteriori “figli” di quel corso originale, sia di tipo triennale che biennale. Gli Atenei privati come la Lumsa e lo Iulm non hanno perso il treno e progressivamente hanno ampliato la loro offerta in maniera sempre più sofisticata. Molte facoltà di sociologia hanno partorito dei mostri che, a loro volta, sono diventati più grandi dei genitori accademici (l’esempio de La Sapienza è il più noto).

Col successo, però, è cresciuta anche la perplessità di fondo di chi quella Laurea la inseguiva, di chi l’aveva già conquistata, di chi la prendeva in considerazione per il suo futuro: per quanto si viva nel mondo della Comunicazione etc. etc., tutte le migliaia di laureati sfornati annualmente, avrebbero avuto accesso al mondo del lavoro? In che termini? Con quali qualifiche e quali professionalità, vista l’accusa ricorrente di essere una “Laurea in Tuttologia”?

L’immagine si è incrinata definitivamente negli ultimi mesi, quando si è iniziato a regalare, in via meramente promozionale, le lauree ad honorem: quella a Vasco Rossi e quella a Valentino Rossi sono state l’apogeo di questo fenomeno di spettacolarizzazione di un Corso di Laurea (nelle sue varie ramificazioni, come quella Urbinate) che ormai viene paragonato a (poco più del) nulla. Ironicamente, Mantellini propone una laurea alla starlette di turno, mentre De Biase cerca di trovare un senso alla Laurea stessa ed a quelle ad honorem in particolare. Che Lucio Dalla sia un docente universitario, passi: ma ci sono modi più decenti di far pubblicità ad un Corso di Laurea che, più di ulteriore promozione, avrebbe bisogno di una campagna di razionalizzazione (in tutti i sensi).