Aziende (auto)certificate ed etichette furbette

Marcatura CEEsiste dal 1993 e la incontriamo spesso: la marcatura CE di solito fa bella mostra di sé sui prodotti tecnologici, sui giocattoli, sugli occhiali da sole. Ad ognuno comunica qualcosa in maniera diversa, ma tutti sono sicuri che è un simbolo di sicurezza che le istituzioni europee affidano solo ai prodotti che rispondono agli standard. Sbagliato: la marcatura è frutto di autocertificazione da parte dei produttori: una volta apposta, la marcatura non ha scadenza e diventa un vero e proprio lasciapassare per tutto il mercato europeo, visto che nessuno Stato può rifiutare l’entrata sul proprio territorio di un prodotto che reca le due letterine magiche.

Ricicla (qualcosa)Quest’altro simbolo invece deriva addirittura dall’ISO, notoriamente fonte di rigide regolamentazioni. Anche in questo caso si tratta di autocertificazione, ma qui il dubbio è ancora maggiore del precedente: sebbene in tutti noi ormai susciti l’idea del riciclo, è ufficialmente permesso che la sua presenza su una conferzione possa significare sia che il prodotto ivi contenuto è riciclabile, sia che solo il contenitore stesso è riciclabile, sia che il prodotto è fatto di materiale riciclato, sia che è solo il contenitore ad essere di materiale riciclato. Chiaro esempio di comunicazione, no?

Isolamento elettrico di Classe IIIl doppio quadrato a sinistra è misterioso ma presente selettivamente su alcuni prodotti elettrici ed elettronici: come per tanti altri il consumatore spesso lo ignorerà totalmente. In realtà, dovrebbe servire a comunicare ai Clienti, quali sono i prodotti con isolamento elettrico di Classe II. Diffusa a livello europeo, sarebbe un’indicazione interessante poiché indicante una serie di prodotti le cui caratteristiche permettono di supporre una maggiore sicurezza anche in impianti elettrici senza collegamento a terra, situazione purtroppo non così rara in molte abitazioni del Vecchio Continente.

Decente entro 24 mesiIl barattolino a destra è invece presente sui prodotti igienici e cosmetici: basta guardare i propri e sicuramente lo si troverà, sebbene microscopico, visto che è obbligatorio. Sta ad indicare il Period after Opening, cioè il valore di mesi in cui il prodotto conserva uno stato di affidabilità e sicurezza. Forse in pochi pensano al fatto che prodotti delicati come le creme o i dentifrici stessi, quotidianamente a contatto con il nostro corpo, possano perdere poteri o addirittura diventare dannosi, dopo un certo periodo di contatto con l’aria. La tipica comunicazione pubblicitaria legata all’efficienza di questi prodotti effettivamente lascia supporre poteri magici insiti per natura stessa dei prodotti.

Magari, un giorno, ogni volta che si acquisterà un dentifricio per la casa al mare si penserà a guardare i mesi di validità, oppure si sceglierà un oggetto elettronico anche in base alle certificazioni di sicurezza segnalate. Per ora, guardiamo distrattamente ai simbolini che campeggiano sui prodotti che utilizziamo quotidianamente o li ignoriamo del tutto, visto lo scarso potere comunicativo con cui sono stati realizzati. A volte sono graziosi, in altri contesti magari rovinano il look di un oggetto a causa della loro stessa esistenza.

Non abbiamo grossa sensibilità su questi temi e probabilmente pensiamo che siano stati messi lì da qualche ente supremo per stupidi motivi burocratici, quali dazi assolti ed astruse verifiche di sicurezza in laboratorio. Per fortuna, la Banca Dati Marchi di Altroconsumo riesce a spiegare ai consumatori tutta la strana simbologia di matrice europea ed internazionale, distinguendo quelli veramente importanti da quelli che addirittura sono stati creati da alcuni produttori: sono avvertite le aziende furbastre.

Tutti abbiamo bisogno di un Brek (economico)

Gli 8 milioni di clienti che annualmente utilizzano i ristoranti Brek sparsi per l’Italia sono spesso aficionados clienti che, scoperta la catena durante una pausa pranzo, finiscono per tornarvi nel dopo-cinema del week-end o durante le vacanze. I Brek d’altronde sono posizionati in luoghi strategici (nei centri commerciali, nei centri storici, nelle vicinanze delle stazioni) ed offrono qualcosa che i concorrenti, Ciao in primis, non offrono: cucinare in real time cibi freschi (o quantomeno non congelati), dal sapore artigianale e non plasticoso.

Con le loro bizzarre e sofisticate architetture interne, i Brek sono tutti diversi tra loro, persino nel pricing: basti confrontare i tre punti a Milano per vedere significative differenze di prezzo, a parità di piatto. Questa è la vera variabile che lega il Brek ai suoi clienti più fedeli: non si va al Brek perché è chic, ma perché è drasticamente più economico di qualsiasi altro ristorante “vero”. Nonostante il top management si lanci in dichiarazioni alla stampa di settore di un riposizionamento a favore del concetto di “destination” piuttosto che di “convenience”, sarà difficile togliere dalla mente degli abituali clienti il concetto di “un buon pasto caldo a prezzo contenuto”.

Il rinnovamento nel marketing, comunque, è ormai consolidato: rottamato un orripilante sito che vagava sulla Rete da diversi anni, la Cibis ha creato un nuovo spazio (forse esageratamente Flash) che ben sottolinea la nuova differenziazione tra il marchio storico Brek ristorante e quello sempre più spinto Brek focacceria, relegando quest’ultimo ad un posizionamento più economico e promuovendo il primo a luogo di culto per tasche più capienti.

Peccato che basti scorrere il sito per intuire come tutte le promozioni utilizzino come unica vera leva il prezzo, più alto almeno del 40% rispetto alle promozioni di pochi mesi fa. Da notare anche che il sito include anche una sezione “Fresh Card”, il programma storico di fidelizzazione che tuttavia, con la scusa di un nuovo sistemo informativo (…), verrà messo in pensione nei prossimi giorni per poi essere rilanciato (nel 2006?), con nuove modalità che non privilegino solo l’aspetto puramente discount della carta.

Massima coerenza con la nuova strategia che dimentica il fattore prezzo, dunque: eppure, come si diceva, il motivo principale per cui il Brek viene scelto da circa il 34% dei clienti abituali, è proprio la convenienza, fattore addirittura maggiore di quello percepito nei Ciao (circa 30%) e da PastaRito (circa 20%). C’è da essere sicuro che la famiglia Bastianello e le sue alleate avranno seguito consigli fidati: ma sarebbe un peccato che la catena, ormai lanciata persino all’estero, smarrisse la sua clientela più fedele alla ricerca di una più di élite che, ovviamente, non raggiungerà mai.

A proposito di sodio, kilocalorie ed altri misteri alimentari

Tra le mille acque minerali in vendita nei supermercati italiani, spicca la Vitasnella, storico marchio ex Danone da anni protagonista di numerose campagne pubblicitarie. Il tono enfatico rispetto alla scarsa presenza di sodio nell’acqua viene ripreso anche dall’etichetta, che sul fronte grida «<0,002% Sodio» e sul retro offre poche informazioni sull’Analisi Chimica, come da Legge, oltre ad un interessante ovale promozionale, che recita (grassetti originali):

«Gli italiani consumano in media 5000 mg di sodio al giorno. La Soc. Italiana di Nutrizione Umana raccomanda di assumere al massimo 3500 mg. L’Acqua Minerale Vitas Vitasnella nasce dal cuore delle Alpi naturalmente con meno dello 0,002% di sodio per litro. Per questo è indicata nelle diete povere di sodio

C’è qualcosa di clamorosamente insensato, in questa etichetta. Infatti, analizzando il testo emerge che:

  1. Gli italiani consumano troppo sodio;
  2. Il sodio consumato giornalmente è addirittura oltre il 40% della razione giornaliera;
  3. Un litro di Acqua Vitas contiene una cifra infinitesimale di questa razione giornaliera;
  4. Si potrebbe intuire che quindi Acqua Vitas è buona per la generalità degli italiani, che soffrono del problema 1, poiché il suo consumo permetterebbe di non aggiungere ulteriore sodio alla propria dieta persino bevendo acqua;
  5. Al contrario, dal secondo grassetto sull’etichetta sembrerebbe essere indicata per quella sparuta percentuale di italiani che non si strafoga di sodio come da problema 1, ma al contrario è carente di sodio;
  6. Essendo indicata per chi ha carenza di sodio e contenendo una cifra marginale del consumo giornaliero come da punto 3, quante decine di litri dovrà consumare il povero italiano la cui dieta è povera di sodio per integrare il suo livello su standard opportuni?

Tralasciamo, per non infierire oltre, che da ormai anni ed anni la percentuale di sodio nell’acqua non è inferiore allo 0,002% per litro (meno di 2 mg/l) come gridato sull’etichetta ma, come recita l’Analisi Chimica dell’Università di Pavia, è di 3 milligrammi per litro. I neo produttori di Vitasnella hanno ereditato questo prodotto di successo dalla Danone e non hanno fatto il minimo sforzo per comunicare correttamente, oltre al togliere il logo del produttore francese dal fronte dell’etichetta e qualsiasi riferimento societario dal retro: tuttavia, non sono gli unici a sparare numeri ed informazioni a casaccio.

Lo fa anche McDonald’s, tanto per fare un esempio. Per comunicare fiducia ai suoi consumatori, ad esempio, ha adottato la buona abitudine di riportare i dati nutrizionali dei suoi prodotti sul retro dei fogli “NON PER ALIMENTI” (sigh…) che separano i viscidi vassoi dal cibo. Ad esempio, si apprende che la Coca Cola da 400 ml contiene 425 volte le calorie della sua alter ego Light (!) mentre quella da 250 ml solo 353 volte. Potere degli arrotondamenti?

Ma è facile fare scoperte più interessanti, anche solo rimanendo nel campo delle calorie: si scopre che a parità di peso (100 g), salse escluse, il prodotto che ha più kilocalorie sono i dolci Mandise, con 463 kcal. Se guardiamo la colonna dei kilojoule, però, la pole position è conquistata dal Pain au Chocolat, con 1.915 kjoule. Com’è possibile, visto che il parametro di conversione tra le due unità di misura è fisso? Mistero presto svelato: 100 g di Mandise dovrebbero valere circa 1.937 kjoule e non 1.637 come riportato nell’apposita colonna e quindi conquistare la (preoccupante) palma.

Morale della favola? I consumatori attenti passano persino il tempo a leggere le etichette dello shampoo, magari mossi da interessi professionali. Quelli meno sensibili si accontentano di messaggi e metamessaggi che gli uffici comunicazione delle aziende di FMCG passano loro: l’acqua “è buona” perché un giusto livello di sodio sostiene la lotta alla ritenzione idrica (leggi: addio cellulite), McDonald’s “è buono” perché inserisce complicatissime tabelle piene di numerelli (leggi: sono trasparenti). Altro che impegnarsi in grandiosi programmi di responsabilità sociale, qui basterebbe prendere in mano la calcolatrice prima di comunicare al grande pubblico.

DigiTalk, ottimo e abbondante

Fioccano commenti esultanti su DigiTalk, il talk show che il poliedrico Marco Camisani Calzolari conduce da inizio ottobre su E-TV, The Tech Channel, una delle centinaia di canali satellitari disponibili sulla piattaforma di Sky, facile da invididuare grazie alla sua peculiare programmazione, molto specializzata e di buon livello. Totalmente incentrato sulla tecnologia, il canale è un buon esempio di come si possa creare prodotti per nicchie che, come nel caso dei tecnofili, non necessariamente sono limitate in termini numerici.

DigiTalk è il programma vessillo dell’emittente, nella sua doppia versione talk show e “1 to 1”, alias una serie di interviste con l’eternamente spaurito Ministro Stanca. Soprattutto nella sua versione “collettiva”, è una buona occasione di discussione su tematiche molto settoriali che, tuttavia, hanno un ovvio impatto sulla nostra vita quotidiana: a metà strada tra informatica e telematica, è evidente che gli incontri potrebbero interessare un pubblico molto maggiore, qualora fossero trasmessi su una rete televisiva del servizio pubblico.

Il taglio del programma, infatti, riesce ad essere divulgativo ma allo stesso tempo attraente per un pubblico più esigente: il contrario, insomma, di quanto accade solitamente con le stucchevoli trasmissioni trasmesse sulle reti maggiori. Con i dovuti paragoni dimensionali, sembra di essere tornati alla magnificenza di MediaMente. Da quell’esperienza forse la redazione, guidata dal sempre ottimo Luca Conti, potrebbe trarre qualche spunto, nell’ambito della sua ricerca di tematiche interessanti che, rispetto all’esperienza ormai lontana nel tempo della storia trasmissione, meriterebbero di essere riviste ed aggiornate.

Le puntate previste, comunque, sono tante: ma si tratta di quel raro tipo di contenuti fruibili via Web per cui, scaricato il primo, viene subito voglia di dedicare un po’ di tempo ai successivi. Imperdibile, d’altra parte, è la visione del buon UnoPuntoZero che, smessi i panni del punk con cui l’abbiamo conosciuto una decina d’anni fa, ora è molto bravo a fare l’impeccabile intervistatore in giacca e cravatta. Peccato solo per la povera stagista seduta sul trespolo a navigare a casaccio: molto simpatica, ma del tutto fuori fase coi suoi commenti.

Il trade off dei media commerciali è vecchio ma molto attuale

Sgomitando tra i mille film che affollano le sale cinematografiche in autunno, Good Night, and Good Luck si distingue per un’ottima gestione della fotografia e del montaggio. Peccato per la sceneggiatura poco curata, che tuttavia riesce a comunicare bene al pubblico europeo, che di questo film tanto ha sentito parlare a Venezia, l’importanza di rileggere il passato come insegnamento per il futuro dei media.

L’affascinante mondo delle redazioni CBS degli anni Sessanta diviene, infatti, metafora efficace per rappresentare quell’inquietante trade off che nell’ultimo secolo ha accompagnato il progressivo sviluppo commerciale della stampa, della radio, della televisione ed infine del Web. Quanto possono essere liberi gli editori, i giornalisti, i produttori, i registi la cui busta paga dipende dal produrre contenuti interessanti da vendere agli sponsor invece che ai lettori / spettatori / ascoltatori? Quanto possono spingersi nello schierarsi, nel denunziare, nel gridare la verità, consci che gli investitori preferiranno dei tranquillizzanti contenuti di intrattenimento a dei pedanti programmi di approfondimento?

L’Europa dei giorni nostri è lontana anni luce dagli anni del Maccartismo, ma vive quotidianamente i drammatici dubbi di Edward Murrow e dei suoi compagni: lo fa non solo nel panorama televisivo, in cui i player maggiori sono legati a poche famiglie onnivore e spesso invischiate col potere politico, ma anche sui mezzi più moderni. Il Web europeo in particolare, vive nella consueta mancanza di business model vincenti, che garantiscano a siti anche di grande rilevanza un futuro indipendente. E su un mezzo in cui pubblicità e contenuti sono ancora più miscelati rispetto a tutti gli altri, ciò può destare più di qualche preoccupazione.

Saranno sempre più notti insonni, quelle che i giornalisti più professionali ed i loro “clienti” più sensibili vivranno nei prossimi mesi di ormai consueta crisi economica, politica e sociale. Il pericolo di una nuova caccia alle streghe è sempre valido ed alcuni proclami guerrafondai degli ultimi anni sembrano essere andati in questo senso. C’è bisogno di tanta deontologia da una parte e di tanta disponibilità all’ascolto dall’altra. Good Night, and Good Luck.

Qual è la lingua dei bimbi europei?

La copertina del libro edito da La RepubblicaIn edicola in questi giorni con La Repubblica c’è Titeuf, l’ennesimo volume della serie oro dei fumetti che negli ultimi mesi ha raschiato il fondo. Titeuf, invece, è effettivamente un prodotto di punta del mondo fumettistico francese, che è uno dei principali nel mondo.

Edite da Glénat, le (dis)avventure di Titeuf sono diventate lo specchio fedele della preadolescenza di metà Europa: fotografando in modo ironico le mille difficoltà di chi cresce e scopre il mondo, recuperano la tradizione d’autore francofona innovandola con un linguaggio crudo ma iper – realistico.

Titeuf ed i suoi amici, in effetti, hanno pochi peli sulla lingua: ascoltando dagli adulti espressioni gergali e volgarità e le rielaborano per comunicare tra loro, con ovvi esiti esilaranti che però, ad un lettore attento, offrono molti spunti di riflessione. Ci sarebbe da chiedersi cosa può cogliere un bambino dell’ironia di Titeuf: un adulto, al contrario, coglie tutte le allusioni (spesso di carattere sessuale) che il mondo del personaggio ci rappresenta.

Che dopo molti milioni di album venduti i bambini francesi ora parlino come Titeuf è abbastanza scontato: ma sfugge forse il fatto che è il personaggio stesso ad aver mutuato dalla realtà metropolitana in cui le sue storie sono ambientate lessico e modalità di espressione. Che siano arrabbiati o felici, i bambini europei sono molto più espliciti dei loro genitori: media o non media, la realtà è cambiata.

Mulino Bianco all’attacco, disordinatamente

Sui banchi dei supermercati, come al solito con qualche sconto promozionale legato alle Carte Fedeltà, i Pani del Mulino Bianco riportano uno sticker che incuriosisce: “Ad ottobre in una nuova confezione”. Peccato che ormai sia ottobre inoltrato e la scadenza a fine novembre degli stock lascia supporre che queste novità non arriveranno così presto. D’altra parte, il packaging era cambiato poco più di un anno fa. Per ora, l’unica cosa che sembra di vedere rinnovato nello sticker è il colore del lettering in marrone.Impressione confermata anche dalle orripilanti gigantografie di persone strabiche che degustano i nuovi Raggianti del Mulino Bianco sui muri delle metropolitane ed in superficie. Una campagna che in base alla qualità grafica si direbbe realizzata con Microsoft Paintbrush (quello di Windows 3.1) e che non brilla certo per fascino dei protagonisti. Abbiamo capito che è uscito l’ennesimo tipo di grissini, stavolta con le righine: yawn.

In giro per le maggiori città italiane hostess e steward con «megapack di prodotto posizionati sulle spalle» distribuiscono 400.000 confezioni di Pan Goccioli alle mamme under 45 ed ai loro bambini: c’è dentro anche un buono sconto, non si sa mai che ogni tanto si riesca a vendere anche qualche pacchetto di questi brillanti nuovi prodotti. Il presidio di fronte alle scuole elementari sa un po’ di adescamento di minori, ma la causa è buona, anzi dolce.

Sulle televisioni e nei cinema italiani, nel frattempo, un antipaticissimo manager in carriera rinuncia alla moglie – sexy – casalinga ed alla voluttuosa colazione prospettatagli a causa dell’orologio che corre, nonostante dalla luce si direbbe sia l’alba. Una fetta biscottata dall’altissimo peso specifico riesce a trattenerlo e ad invogliarlo per ingozzarsene ulteriormente. La compagna preferisce godersi le sue Armonie da sola ed ingaggia una sorta di gioiosissimo match di sumo che dovrebbe comunicare al pubblico sintonia di coppia. Il pubblico, nel frattempo, spera che uno dei 17 cereali strozzi definitivamente il manager.

Mentre la comunicazione off line del Mulino Bianco imperversa come consuetudine nelle vite degli italiani, in Rete si susseguono preoccupa(n)ti commenti alle campagne ed inviti impliciti al boicottaggio, molto più convincenti di qualsiasi tentativo di comunicare sul Web da parte dell’Azienda: non esiste un sito ufficiale e sia quello dedicato ai Pani sia le pagine istituzionali di Barilla hanno un sapore a dir poco stantìo. C’è da dubitare che a Barilla manchino le risorse: ma che abbondi la distrazione forse sì.

Un addio analogico al mondo digitale

La notizia che Tim manderà in pensione il Teledrin colpisce quasi più del contestuale pensionamento della rete Tacs: muore infatti un servizio che, per quanto non sia mai entrato nell’uso comune, è stato un must have di migliaia di professionisti. Molto più diffuso in Giappone e Stati Uniti che in Europa, il cercapersone ha salvato migliaia di vite umane: tipico target del servizio, infatti, erano le persone “in reperibilità” (medici e chirurgi, ad esempio), che dovevano essere sempre raggiungibili.

L’avvento del cellulare, ovviamente, ha notevolmente diminuito la rilevanza del cercapersone: eppure, per anni ed anni è rimasto un oggetto molto più discreto degli ingombranti Tacs. La pervasiva diffusione del Gsm è stato il passo successivo e necessario al fine di spazzare entrambi: niente più numeri clonati, niente più radioamatori troppo svegli (?), niente più truffe per le compagnie telefoniche. Entrambi gli oggetti analogici, d’altra parte, provenivano da evoluzioni decennali, ma con origini diverse: il telefono portatile (quello con la valigetta) era riservato a pochi illustri, il cercapersone era la panacea per chi non poteva permetterselo. Il digitale, come al solito, ha spazzato via queste distinzioni classiste.

Il comunicato stampa di Tim sul tema è quasi laconico: ci si sente obbligati a rendere tributo all’oggettiva importanza storica di questi oggetti e si invitano i consumatori a fare il grande passo in avanti per rottamare i loro terminali. Da notare che ancora in questi giorni vengono lanciate campagne promozionali dedicate a clienti Tacs: segno evidente che, per quanto marginale, un mercato di comunicatori “analogici” esiste ancora.

Fino a qualche anno fa, questi “forzati dell’analogico” erano soprattutto i titolari delle prime linee 0337: legati fino alla morte al loro terminale, ormai vecchio di (almeno) dieci anni, terrorizzati dal dover comunicare il cambio di numero a colleghi, clienti ed amici. La number portability, ovviamente, ha cercato di dar loro una mano: eppure, non è infrequente nemmeno oggi nel mondo Gsm, che ci si leghi alla rubrica memorizzata sul terminale più che ad ogni altra cosa. Digitale od analogica, poco conta: per molti, quel piccolo o grande mucchio di numeri e persone è la cosa più importante di tutto questo rumoroso mondo cellulare.

Comunicare la sicurezza: difficoltà e prospettive delle Banche on line

Sabato scorso, nei saloni del WebDays, delle professionali bancarie del SanPaolo cercavano di illustrare al pubblico presente (età variabile dai 20 agli 80 anni) i vantaggi dell’Internet banking all’italiana: bonifici a costo ridotto rispetto alla filiale, accessiblità al saldo 24*7, possibilità di ricaricare il cellulare e pagare le bollette postali degli enti e delle società convenzionati. Il pubblico come al solito era diviso tra banconlinescettici e banconlinentusiasti: peccato che, rispetto agli altri incontri in cui venivano esaltate le virtù del Web 2.0, in questo prevalevano i primi.Insospettabilmente, la gente più giovane presente in sala aveva un solo chiodo fisso: non il prezzo dei servizi sbandierato dalle signorine, ma la sicurezza. Quali informazioni in tempo reale, quale Phone banking: l’unico tormentone che permeava la sala era una richiesta forte, pressante, di sicurezza. Con caratteri ovviamente populistici e poco tecnici, il pubblico si riempiva la bocca di termini magari sentiti solo una volta ed usati a sproposito (“hacker” è il più noto, si sa) al fine di placare le proprie ansie.Il rapporto degli Italiani con la propria Banca, d’altronde, è tipicamente conflittuale. Rispetto al resto degli Europei, la diffidenza è padrona assoluta: le comunicazioni in arrivo dalla Banca sono solitamente astruse ed incomprensibili, le richieste di contatto nei salottini dei Gestori vengono intese esclusivamente come occasioni di vendita del prodotto da spingere al momento. Nulla da aggiungere alla percezione che i bancari hanno della Rete: la campagna di IngDirect con l’impiegato che disegnava la zucca di nascosto al Cliente coglieva a pieno nel segno.

Nel deserto della comunicazione bancaria, giunge così come acqua preziosa l’aggiornamento di DigitalFinance, la ricerca che CommStrategy (in collaborazione con Nielsen NetRatings) pubblica periodicamente al fine di confrontare il mercato bancario europeo della Multicanalità con i desiderata dei Clienti. Una lettura che i manager bancari dovrebbero leggere con attenzione e soprattutto assiduità nelle sue evoluzioni: riesce a fotografare con precisione qual è il loro posizionamento di mercato più dei loro stessi uffici marketing.

Di insight la ricerca ne offre tanti, sottolineando la micro-dimensione del canale Web per le Banche italiane, se paragonata a quelle del resto d’Europa. I manager bancari che hanno commentato la ricerca sembrano preoccuparsene poco: spicca la voce di Edoardo Giorgietti di Fineco, che sostiene di sentire la sua banca nata on line sempre più come concorrente di quelle tradizionali, quindi con ampi margini di crescita. Osservazione giusta, ma fa raggelare quella successiva: “bisogna smettere di pensare che i costi di una banca on line debbano essere necessariamente inferiori a quelli delle banche tradizionali”.

Ci risiamo: il mercato chiede sicurezza, le ricerche di mercato spiegano ai manager cosa fare, i manager pensano ad altro. Continuano a giocare con le uniche variabili che conoscono, il prezzo e l’advertising, addirittura rischiando di perdere quel target originario che aveva fatto la fortuna delle banche on line, i Clienti delusi del caro-banca. Poco redditizi, evidentemente, da meritare di essere ascoltati: ma se spariscono loro e non ne arrivano di nuovi a causa delle paure sulla sicurezza, con cosa cresceranno le Banche italiane in Rete?