Considerazioni di fine 2005

Come già avvenuto lo scorso anno, è il momento di tirare i fili di quanto avvenuto nel 2005 e di abbandonarsi a vaghe previsioni sull’anno incipiente. Obiettivamente, Capodanno è il momento dei bilanci e delle previsioni: per fortuna, quest’anno non ci sono fenomeni impressionanti in corso come lo Tsunami di fine 2005 a sfalsare auguri e riflessioni. I mezzi di comunicazione fanno a gara a fare rassegne dei “grandi avvenimenti” visti in questi mesi, ma hanno scarsa preveggenza sul futuro.

L’occhio al passato porta senza dubbio a Roma: la grande scoperta del 2005 è stato vedere quanto anche nella secolarizzata Europa la morte di un Pontefice sia l’Evento per eccellenza, quello che non lascia indifferente nessuno e trascina con sé tutti gli altri, concerti o eventi sportivi essi siano. La Chiesa Cattolica ha colto al balzo la palla dell’emotività collettiva dei suoi seguaci per proporre una rifocalizzazione sui core values del suo mondo, imponendo un nuovo leader che, pur peccando in termini di carisma, ha il potere di saper comunicare con precisione ai suoi adepti. Si aspettano le prossime mosse…

Da un punto di vista strettamente aziendale, la previsione sui successi di Trenitalia e keyword advertising si è in grande parte avverata: la Rete ha visto progressivamente affermarsi il suo potere commerciale, sebbene in molti Stati di Europa la diffidenza dell’utente medio sia ancora troppo alta. La consapevolezza collettiva delle potenzialità del mezzo è comunque cresciuta: ad esempio, l’atavica diffidenza per le transazioni con carta di credito via Web è stata superata da italiani e non attraverso espedienti artigianali come le ricariche delle carte di credito ricaricabili dei venditori all’asta.

Gran parte del successo di PostePay e prodotti simili deriva proprio da questo alto livello di fiducia nel mezzo frammisto ai bassi costi commissionali, imparagonabili a quelli di servizi più tradizionali come il bonifico bancario. Appare una lezione per i product manager di tutto il Mondo: attenzione all’uso che i clienti fanno dei vostri prodotti. In questo caso, Poste Italiane si sfrega le mani e PayPal piange: in altri, l’abbiamo visto nel 2005, aziende e clienti possono avere interessi troppo divergenti per consentire un sereno confronto. Alcuni settori, come appunto quello bancario, dovranno imparare nel 2006 ad assecondare maggiormente i desiderata dei propri clienti: il caso Genius One insegna che ormai siano finiti i tempi delle vacche grasse.

Il miglior articolo su Rete e dintorni visto nel 2005 è stato quello di Shirky sulle ontologie: in tempi di acquisti milionari di siti e sitarelli che hanno visto nel “Web 2.0” il nuovo campo di battaglia commerciale ed a causa della perdurante assenza di business model sensati, sarà importante tenerlo a mente alle prossime notizie sulle mosse di Yahoo! e Google. Il più grande augurio per il 2006, d’altra parte, riguarda proprio questo tema: che i prossimi mesi non presentino una versione rivista (e poco corretta) di quanto avvenuto poco meno di 10 anni prima, che non si crei una nuova bolla speculativa. Il Web non è più un germoglio come allora: è una piantina che ha messo radici. Speriamo non si abbassi terribilmente la temperatura.

Buone feste con Lorenzo e Serena

Un bel regalo per queste feste potrebbe essere Lorenzo e la Maturità, Come secernere agli esami, il cofanetto uscito qualche mese fa per ricordare ai maturandi di oggi com’erano i loro fratelli maggiori nella prima metà degli anni Novanta. Il DVD contiene morceaux di quel piccolo gioiello comico che fu la striscia quotidiana di Dandini e Guzzanti; il libro una volta tanto non è solo la scusa per far pagare l’IVA al 4%, visto che contiene anche una bella intervista agli autori.

Un’intervista che fa riflettere, perché raccoglie i pareri di illuminati professionisti sul panorama dei media italiani. Eccone un estratto…

«Tira una brutta aria in TV: oltre alla censura evidente e conclamata, gli autori sono vittime di una miope censura preventiva. Chi detiene le piccole leve del comando ha talmente il terrore di riuscire sgradito al re che opera tagli alla rinfusa e soffoca ogni spiritello di creatività, anche il più innocuo. Un detestabile atteggiamento servile che sta determinando un danno culturale per il Paese. È vero che non è facile “resistere” e trasformarsi in eroe quando si “tiene famiglia”, specialmente quando perdere il posto vuol dire perdere contemporaneamente varie possibilità di lavoro. Quando si risulta sgraditi in un sistema come questo è come se ti venisse apposto un marchio permanente. Purtroppo tutto questo è impalpabile, se ne parla nei corridoi ma è difficile denunciarlo apertamente.

Il risultato è comunque una televisione mediocre, un abbassamento generale di creatività.»

Purtroppo, la Dandini coglie nel segno nel descrivere i preoccupanti intrecci che condizionano l’attuale cultura attuale e che erano quasi del tutto assenti ai tempi della sua trasmissione: si parla di un’era lontana in cui l’eroe nazionale era Di Pietro, Berlusconi era un imprenditore e né Destra né Sinistra erano mai state al potere in Italia. Un’epoca in cui direttori coraggiosi come Angelo Guglielmi davano voce ad una satira che prima di essere politica, era divertente. Cosa affatto scontata, oggi.

Alta velocità, alto time to market

I tecnofili di tutto il mondo ricordano (con tenerezza o con ironia?) la parabola di Ginger, la grande innovazione che doveva cambiare il mondo. Un passaparola creato ad hoc aveva fatto lievitare l’entusiasmo degli investitori e la curiosità della stampa: quel misterioso prodotto rivoluzionario che poi sarebbe diventato commercialmente noto come Segway sarebbe potuto essere qualsiasi cosa, in termini di dimensione, forma e finalità. Ciò che era stata ben alimentata era la curiosità e l’attesa fini a sé stesse.

Allo stesso modo, a cavallo del cambio di secolo c’erano altre tecnologie, leggermente più definite in termini di etichette (“alta velocità”, “larga banda”, “cellulari di terza generazione”, etc.), che facevano immaginare ulteriori anni di floridità economica. Vista la fine ingloriosa di quelle speranze, forse legata proprio alla lentezza con cui queste immaginifiche rivoluzioni venivano pianificata, oggi rimane da valutare se le attese erano legittime o meno.

Pensiamo all’UMTS: dopo anni di discussioni sulle miliardarie vendite delle licenze da parte degli Stati europei, l’introduzione commerciale è avvenuta di soppiatto, prima da parte di H3G e solo dopo molti anni da parte dei suoi concorrenti europei. Ancora oggi in tutta Europa H3G fa clamoroso dumping, Vodafone spinge principalmente sulla vendita di contenuti multimediali ed operatori alternativi quali Bouygues Telecom o Wind, che l’hanno importata dal Giappone, spingono sull’I-Mode, tecnologia mediocre di seconda generazione.

Non cambia granché ad osservare la progressione della banda larga: qualche anno fa l’esempio era quello statunitense e la speranza era la cablatura di tutta l’Europa con fibre ottiche. La liberalizzazione delle telecomunicazioni sembrava spianare la strada: apparivano operatori alternativi come Fastweb o Hansenet ed i monopolisti apparivano impegnati a sperimentare una tecnologia apparentemente marginale, la Dsl. Oggi, dobbiamo ringraziare le divinità che proteggono il Continente per il fatto che, sebbene ormai gli investimenti sulla Rete fisica sono stati abbandonati, i monopolisti siano riusciti ad imporre la versione più povera, l’Adsl, come standard di mercato. Gli operatori alternativi, come al solito, vagano indecisi rimembrando i tempi che furono.

Si badi che la parossistica lentezza nell’introduzione delle tecnologie non ha riguardato solo l’hi-tech: l’alta velocità ferroviaria prevede progetti di lunghissimo termine, misurabili in decenni. Proteste ecologiche a parte, i consumatori sembrano gradire molto questo tipo di innovazione: tuttavia, rimarranno a bocca asciutta ancora per molto, in panorami come quello italiano, in cui l’alta velocità tanto attesa da decenni è stata introdotta come l’UMTS, di sottecchi. Magari, un giorno l’alta velocità permetterà collegamenti fisici efficienti tra tutte le città europee, nel frattempo coperte alla perfezione dalla Rete via cavo e da un’eccellente copertura UMTS. Magari, un giorno.

Facciamoci un caffé per non pensarci

Ovunque si vedono i tentacoli della campagna pubblicitaria delle cialde caffé Kimbo e della relativa macchina da caffé prodotta da Amstrad: accanto al solito protagonista Gigi Proietti, stavolta la protagonista è Consuelo, alias Natalia Estrada. Ipermercati, supermercati e grandi magazzini sono infatti invasi dalle maravigliose macchine nere: prezzo fisso 59,90 Euro, dal negozio di periferia al grande ipermercato. Prezzo tutto sommato limitato, se confrontato con quelli dei concorrenti.

I vari produttori di home appliances che in Italia vendono i loro prodotti a prezzi ben più alti hanno d’altra parte una spesa in più rispetto ad Amstrad: quella della ricerca e sviluppo prodotti che, secondo De Longhi, Imetec ed altri, Amstrad semplicemente ignora. L’azienda si limiterebbe, infatti, a fare grandi investimenti di marketing per vendere prodotti – copia di quelli originali, producendoli con costi così limitati in Cina da poter agevolmente abbandonarsi a politiche di dumping.

Questo è il motivo per cui Amstrad non è più (solo) il marchio dei PC venduti da Postalmarket negli anni Ottanta: vende tanti prodotti low cost, soprattutto decoder per la televisione digitale terrestre. D’altra parte i cittadini italiani sono piuttosto incentivati a comprare i videoregistratori senza nastro che il Governo continua a supportare con grandi elargizioni. In fin dei conti, sebbene la maggior parte della produzione di questo tipo di prodotti venga svolta all’estero, i proprietari spesso sono europei: è sempre un modo di far girare l’economia.

Anche Amstrad è posseduta da un pool di soci europei ed anche il distributore italiano, Solari.com, ha un padrone italiano. Si tratta di Paolo Berlusconi, che non è solo il compagno della suddetta Consuelo, ma anche il fratello del Presidente del Consiglio che ha stanziato i fondi per il decoder e lo zio del manager che gestisce Mediaset e le sue controllate, Media Shopping e Mediaset Premium in primis. L’economia gira, ma sembra segua sempre lo stesso verso.

“Comunicare fa male” (col cellulare)

Comunicare fa male” è il nome di un’interessante manifestazione che si svolge annualmente in Toscana, citata più volte da Lindo Ferretti nell’ambito delle sue vulcaniche idee cultural – spettacolari, canzoni comprese. Da oggi può divenire anche lo slogan riassuntivo di una ricerca pubblicata negli Stati Uniti sugli effetti sociali della comunicazione via cellulare, vero atto d’accusa verso il diabolico (?) elettrodomestico ed i suoi proseliti.

In tutta Europa, dalla Finlandia all’Italia, dalla Gran Bretagna alla Spagna, si potrebbero sviluppare analoghi filoni di ricerca: non mancherebbero i soggetti patologici buoni per suffragare le tesi più nere. Dagli episodi da operetta di rapporti di coppia terminati a causa di qualche SMS letto da fidanzate gelose delle amanti alle storie più serie di persone che a causa dell’abuso da cellulare hanno avuto problemi di salute, non sarebbe difficile trovare europei vittime del mezzo.

Peccato che, in realtà, è il libero arbitrio più che la tecnologia a fare la differenza tra utilizzo saggio di un mezzo e patologia. Il cellulare non è più uno status symbol da almeno 7 – 8 anni e l’utilizzo spasmodico ormai denota cafonaggine più che vita impegnata. Non fanno eccezione i professionisti con l’auricolare caliente: l’esperienza insegna che e-mail da una parte e comunicazione visiva dall’altra sono mezzi decisamente più efficienti di gestire il rapporto con colleghi e clienti di qualche telefonata fatta di fretta tra un avviso di chiamata ed una mancanza di campo.

La voglia di comunicare a tutti i costi diventa mania soprattutto quando si ha paura di spegnere il cellulare, di staccare il proprio cordone ombelicale col Mondo: non solo quello professionale, ma anche quello di parenti ed amici. A volte sarebbe bello dedicare un po’ di tempo a scoprire o riscoprire modalità diverse di comunicare con i nostri interlocutori. Riflessione che potrebbero fare anche gli uomini politici, invece di progettare faraonici programmi di SMS elettorali

Scatta la promozione, scatta la rissa

La promozione iPod sul sito di MediaWorldSi mormorava della promozione Sottocosto di MediaWorld da qualche giorno, in particolare di quella relativa agli iPod Mini, svenduto a 99 Euro nella sessantina di punti vendita sparsi sul territorio italiano ed attraverso il Remote Shopping, alias i canali telefonico e Web. Un prezzo interessante, per un prodotto fuori produzione ma comunque notevolmente meno costoso di quello di pari capacità in vendita attualmente.

Ciò che è avvenuto, tuttavia, rasenta l’incredibile da un lato ed il dejà vu dall’altro: scene di panico collettivo in tutta Italia e vendite sui canali virtuali terminate in pochi secondi. L’effetto più evidente? Uno sciame infinito di commenti negativi sulla perdurante indisponibilità dei prodotto sottocosto e dell’intero sito per maggior parte della giornata.

In realtà, bastava essere in un MediaWorld qualsiasi ieri pomeriggio per capire che, una volta passato il momento critico dell’articolo – civetta per eccellenza, i successivi scivolavano via, con maggiore sobrietà, nelle mani delle orde di persone corse a comprare i regali di Natale con qualche Euro di sconto. MediaWorld, effettivamente, ha da sempre scelto un posizionamento molto forte in termini di prezzo e dimostra di conoscere bene i punti deboli dei suoi clienti.

Per quante critiche on line possa aver ricevuto la catena tedesca, non si può che osservare il successo dell’operazione nel creare traffico sul punto vendita, aumentare il chiacchiericcio sulle proprie iniziative e confermarsi come luogo d’elezione per i tecnofili sensibili al prezzo. Ancora più brillante, in ogni caso, l’idea di regalare buoni regalo da 5, 10, 20 Euro in base all’entità degli acquisti: un ritorno sicuro, in quel punto vendita, nei giorni prefissati di gennaio. Ed è evidente che la redditività di un solo cliente fidelizzato, in questo caso, è un valore da merita (quasi) qualsiasi prezzo.

Sky diventa grande

Sulla strada dell’ormai “istituzionale” cugina inglese, le varie realtà Sky europee e quella italiana in particolare stanno raggiungendo la maturità: da una parte le progressive innovazioni tecnologiche, dall’altra la qualità della programmazione fanno sì che oggi i canali satellitari siano finalmente un’alternativa reale di qualità alle sempre più banali televisioni tradizionali europee.

Il processo è frutto di una progressiva convergenza a partire da situazioni molto diverse: se gli spettatori francesi, ad esempio, erano abituati da anni a Canal Plus e quindi al principio stesso che la qualità televisiva fosse a pagamento, in Italia la pay TV ha impiegato oltre dieci anni a guadagnare una reale massa critica. Per quanto la fusione di Tele+ e Stream abbia segnato l’inizio di un preoccupante monopolio, l’ampio bouquet di canali disponibili è riuscito a centrare l’obiettivo di raccogliere progressivamente interessi a dir poco eterogenei, soddisfacendo tutti in termini di qualità e quantità dell’offerta.

Non più solo campionato di calcio e qualche prima visione cinematografica, insomma: oggi i vari canali di Sky offrono decine di eventi sportivi e film ogni giorno, segmentati per genere, target ed orari. L’introduzione di MySky, negli ultimi mesi, ha fatto sì che questo gigantesco caleidoscopio possa anche essere razionalizzato secondo i propri interessi, attraverso la registrazione digitale delle trasmissioni più interessanti. I continui accordi con partner qualificati hanno prima creato ottime motivazioni per la sottoscrizione dei bouquet, per poi arrivare a connotare un vero e proprio “Sky lifestyle” per i sottoscrittori.

Come recita lo slogan, “Sky – Ti sorprende sempre”: lo fa anche introducendo, per prima in Europa, l’alta definizione. Succederà anche in Italia, sebbene i particolari dell’operazione non sono ancora ufficiali. Gli appassionati fremono all’idea, anche se probabilmente l’HD rimarrà per molti anni un fenomeno di nicchia. Ciò che è veramente importante, è che l’Europa continui ad avere soggetti economici decisi ad investire su contenuti e tecnologie nel settore dei media: altro che partite pay per view sul digitale terrestre.

Masochismo aziendale

Da queste parti qualche settimana fa si era accennato alla surreale vicenda di Sony BMG alle prese con i clienti inferociti dei suoi dischi più popolari; Enrico Bianchessi ha parlato di Nestlé e del suo bizzarro modo di reagire alle paure dei consumatori; Stefano Hesse della festa XBox 360 a confronto con quella di PSP; grazie a [mini]marketing andiamo in Autogrill ad assistere ad un preoccupante reality show che ha per oggetto baristi sudati e clienti (poco) remissivi.

Vicende che in apparenza hanno poco in comune ed in profondità sono frutto dello stesso perverso approccio al rapporto con i clienti: ignorarli. Sony BMG li vede come provetti ladri: se comprano un CD originale invece di una copia tarocca, è sicuramente per riprodurlo in molteplici copie destinate a metà popolazione mondiale. Nestlé non se ne cura affatto: come nota Enrico, l’unica preoccupazione del management è rassicurare gli investitori. Autogrill li considera scimmiette ammaestrate che trincano qualsiasi brodaglia purché gratis. Microsoft non sa nemmeno chi sono, visto che alle proprie feste invita solo modelline e PR manager.

Eppure, stiamo parlando di quattro grandi aziende, di società che vivono grazie al largo consumo: ci vuole una sana dose di masochismo per maltrattare così coloro che, in fin dei conti, sostengono il proprio business. C’è una miopia di fondo che dimentica la più grande delle ovvietà: non sono gli investitori, i PR manager o gli avvocati coloro che acquistano i prodotti, ma quei “banalissimi” personaggi chiamati consumatori, clienti, utenti. Persone che hanno razionalità limitata e portafogli limitati: siamo noi che ci lasciamo trasportare dalla passione persino acquistando uno yogurt e ci fidiamo inconsciamente della maggior parte delle leggende metropolitane che ci raccontano i nostri vicini.

Il masochismo ha effetti inintelligibili sul lungo termine e coinvolge tutta la catena del valore, se non addirittura interi settori: la gente ricomincerà ad acquistare il latte in Tetrapak con la stessa certezza di sempre? Le major discografiche riusciranno a creare sistemi di DRM senza essere tacciate a pié sospinto di essere più illegali dei nemici che tentano di combattere? Ogni azienda, così come ogni persona fisica e giuridica presente in Europa, è libera di farsi del male da sola: quando la sua imperizia però porta via nel tornado anche il resto dei suoi stakeholders, farebbe bene a fare un passo indietro e rifletterci meglio.

Fieri delle fiere

Le aziende B2B italiane utilizzano due modi originali di promuovere i propri prodotti: riempire le riviste del proprio settore con sonnolenti pubbliredazionali e partecipare a micro o macro fiere organizzate in giro per l’Europa. Difficile che utilizzino altri mezzi: sanno che i loro interlocutori si aspettano esclusivamente questo tipo di promozione e non alzano un dito per cambiare le carte in tavola. Lo sforzo per stupire, d’altronde, potrebbe rischiare di diventare controproducente.

Le fiere sono ovviamente rivolte anche ai privati: questo può implicare decadimento della qualità, come è avvenuto per SMAU, oppure far sì che diventino enormi bazar di cianfrusaglie, com’era uso soprattutto negli scorsi decenni. In realtà le fiere generaliste stanno ormai scomparendo: le oltre 1.000 manifestazioni annuali sono ormai iperspecializzate e segmentate. Un lavoro che premia gli espositori ma soprattutto chi le fiere le ospita, le organizza o ne cura i singoli stand. Affari da capogiro, per tutti gli attori coinvolti.

L’iperspecializzazione porta a strane derive: basti guardare i curiosi manifesti della Prima Fiera della Poltiica che ci comunicano una curiosa “Mostra fotografica sulla Prima Repubblica”. Chissà qual è il business model sotteso: certo è che gli ospiti non brillano per fama; chi saranno gli espositori? Ma soprattutto, chi saranno i clienti? Può esistere una fiera senza visitatori? Chi sostiene i costi? Quali sono i ricavi? Per chi?

Domande che, tra l’altro, dovrebbe porsi qualsiasi azienda coinvolta nella catena fieristica del valore, soprattutto quelle che stanno a valle in veste di espositore: quanto “rende” davvero investire in eventi di risonanza magari nazionale e quindi costosissimi? Il rendimento atteso è “solo” un ritorno di immagine o ha senso puntare sulla vendita diretta? Un vero e proprio mondo con tante domande e poche risposte: una opportunità di marketing che comunque non deve essere trascurata. Anche perché probabilmente il proprio concorrente non lo farà.