Lo splog è fuori controllo

Abbiamo passato anni a discutere di spam, ad acquistare costose opzioni di protezione delle nostre caselle di posta elettronica, a scoraggiare manager e markettari tentati a non prendere nemmeno in considerazione l’ipotesi di mandare anche solo un’e-mail non autorizzata, “tanto basta aggiungere una riga con su scritto che basta rispondere per cancellare la propria e-mail dalla nostra lista, no?”. (La risposta, ovviamente, è “No”.) Risultato di tutto ciò è che ormai ci siamo arresi, riceviamo nettamente più spam che e-mail personali e toccando ferro cerchiamo riparo nei nostri indirizzi aziendali, solitamente meno attaccati.

All’inizio la paura era soprattutto legata alla diffusione di virus e spyware attraverso l’e-mail: ormai anche questo è entrato nella nostra quotidianità e solo un folle naviga senza un firewall ed un antivirus. Il passaggio successivo è stato aver paura dei dialer, anche questi spesso pubblicizzati dalle e-mail di spam: ora nuove forme di disturbo della quiete pubblica stanno prendendo il sopravvento. Non solo inquietanti sitarelli invadono i risultati dei motori di ricerca costringendo i meno attenti a pericolose manovre di pulizia: ciò che veramente sta distruggendo la qualità dei risultati deteriorando la qualità dell’informazione in Rete sono gli splog.

Il fenomeno, tanto per citare nuovamente Livraghi, non è affatto nuovo: se ne parla da diversi anni, prima in maniera tecnica ed ormai in modo così ampio da far emergere un diffuso disagio della maggior parte dei navigatori. Le stime parlano ormai di un finto blog ogni cinque attivi: un numero impressionante proprio perché cresce proporzionalmente al sempre maggiore successo della tecnologia sottostante. Il fondatore di Technorati sostiene che fino all’8% dei blog creati ogni giorno è un puro splog. Ancora una volta, tonnellate di contenuti recuperati da appositi software e pubblicati attraverso le più comuni piattaforme gratuite, a formare marmellate incomprensibili ma soprattutto letali per coloro che cercano informazioni in Rete.

Ciò che sfugge a chiunque in Rete lavora o naviga per puro diletto è come mai i motori di ricerca, Google e Yahoo! in primis, permettano ancora al malvagio ecosistema degli splog di continuare ad ammorbare la qualità del proprio prodotto principale. I maligni notano che questo tipo di siti sono ampiamente foraggiati dalla pubblicità contestuale e per di più, una volta scoperto il sito illegale, chiudere gli account garantisce un doppio ricavo rispetto a quello derivante dalla tradizionale spartizione con i siti regolari. Ci fidiamo dei motori e siamo sicuri che riusciranno a scoraggiare questa barbarie: non basterà di certo Splog spot coi suoi falsi positivi a restituire alla Rete la serenità che merita.

Giancarlo Livraghi, l’illuminato

Punto Informatico festeggia Gandalf.it, il portale di informazione fondato da Giancarlo Livraghi, attraverso una lunga intervista a questo personaggio che, in Europa, ha rappresentato un punto di riferimento storico prima nel mondo della pubblicità e poi della Rete. Non pago di essere stato un guru per un’intera generazione di comunicatori italiani, oggi il buon Livraghi viene visto da giornalisti e internettari della prima ora come un saggio fratello maggiore cui chiedere consiglio sul futuro del Web, dati sulla sua evoluzione, informazioni circa i suoi rigagnoli più preziosi. Le varie interviste rilasciate nel corso degli anni sono servite per lasciare andare il nostro a divagazioni che nei sobri articoli pubblicati su Gandalf non sempre si concede.

Rileggendo quella rilasciata un paio di anni fa come quella di oggi, rimangono impressi dei passaggi che dimostrano la vista di lungo periodo di Livraghi. Colpisce in particolare il suo approccio “umanistico” alla Rete, quella visione di Internet come «conversazione privata» che può piacere o meno, ma che è l’unica chiave di lettura di un fenomeno che troppe volte viene letto esclusivamente sotto il suo profilo tecnico, piuttosto che nel suo essenziale spirito di condivisione di idee e conoscenze. Livraghi parla di macchine come «schiavi» da utilizzare per semplificare il proprio vivere la Rete, ma da cui non farsi schiavizzare: una visione che suona quasi azzardata, in un periodo di folli innamoramenti per hardware e software d’uso comune.

Nell’ultima intervista, Livraghi parla diffusamente anche della sua visione della pubblicità on line: la ritiene in crescita proporzionalmente ad Internet nel suo complesso, ma non pensa sia destinata a particolari evoluzioni quantitative / qualitative. Ci spiega che per lui rappresenta «un dettaglio marginale rispetto alle tante cose, sostanzialmente più utili, che le imprese possono fare» attraverso Internet e le sue applicazioni. Visione dura ma probabilmente corretta, che serve a ridimensionare la pubblicità come uno dei tanti modi di comunicare in Rete, ma non la mitizza come avviene su altri media più classici.

Livraghi non è una divinità da venerare, ma un uomo di affari illuminato. Come a tutte le persone che si espongono gridando al mondo la propria visione del futuro, anche nei suoi confronti si possono muovere tante critiche, ma è giusto riconoscere il suo impegno civile con Alcei e l’apporto sostanziale al dibattito culturale sulla Rete con Gandalf. C’è da sperare che Dio gli conservi ancora per molto salute e senno: quando non avremo più le sue parole a guidarci nella vita quotidiana in Rete, ci sentiremo decisamente più soli in una piazza virtuale che, c’è da scommetterci, nel frattempo sarà diventata paurosamente immensa.

Scienze della Comunicazione a Padova, dieci anni dopo

Si festeggia in questi giorni, con un convegno e la presentazione di un’indagine sul destino dei laureati, il decennale del Corso di Laurea in Scienze della Comunicazione presso l’Università di Padova. Un traguardo interessante, per un corso che negli ultimi anni è guadagnato l’etichetta di «buona idea finita male», ma che nella città veneta è cresciuto come un fiore prezioso: rispetto ad altri atenei in cui era stato istituito sull’onda della richiesta degli studenti bramosi, a Padova l’esperimento di riunire docenti iper-specializzati dalle numerose facoltà dell’Ateneo, chiamati ad insegnare ad un risicatissimo numero di allievi (100 all’anno nelle prime edizioni), sembra decisamente riuscito.

La sensazione, al di là dell’esperienza empirica, deriva dalla lettura dei dati della ricerca: il 63% dei laureati tornerebbe a frequentare lo stesso corso, probabilmente grazie al fatto che, a 6 mesi dalla laurea in scienze della comunicazione, il 64% degli ex studenti è occupato ed a 3 anni dal fatidico giorno, lo sono in 96 su 100. Merito del buon livello di occupazione, forse, il fatto che gli studenti patavini affiancavano studio e lavoro nel 92% dei casi: al di là della qualità dei corsi, insomma, anche tanta ambizione individuale.

Sfogliando i curriculum dei laureati, si trova un po’ di tutto: c’è chi sta facendo carriera nel mondo della moda e chi, da videomaker freelance, è diventato un paladino della lotta ai CPT; c’è chi lavora a Gardaland e chi fa carriera universitaria; qualcuno ormai lavora da giornalista all’estero o fa la spola per l’Europa come junior product manager; in tanti ricoprono ruoli “classici” del settore, come il copywriter, il marketing manager o lo sceneggiatore cinematografico. Altri hanno seguito strade diverse, dedicandosi alla selezione delle risorse umane o seguendo da vicino il lavoro dei top manager. Inutile nascondersi che c’è anche chi non ce l’ha fatta ed a diversi anni dalla laurea dichiara di svolgere otto lavori part time, molti non retribuiti.

Al di là dell’oasi patavina, la situazione dei corsi di laurea, nelle molte ramificazioni derivanti dalla riforma universitaria, merita ancora molti sforzi per migliorare l’offerta didattica e gli sbocchi professionali. Se la più svampita partecipante ai reality della stagione studia Comunicazione e gestione dei mercati dell’arte e della cultura, o è un’inguaribile ottimista, o segue un corso troppo facile per portare ad una laurea. Ci si aspetta molto dalla Comferenza organizzata dai presidi dei corsi di laurea italiani: se è vero che il problema sono i numeri, la diminuizione delle iscrizioni e le prima chiusure dei corsi fa ben sperare. Anche se 12 corsi di laurea in Sicilia sono troppi: si attendono (improbabili) smentite.

Le scelte strategiche di Telecom Italia ed il bene del Mercato

In questo periodo l’affaire Telecom Italia è all’ordine del giorno di qualsiasi discussione privata, pubblica ed istituzionale. Chiunque è (o quantomeno si sente) legittimato ad esprimere un parere: il Gruppo non solo è leader di mercato nel wireline, nella telefonia mobile e nella connettività, ma è anche una delle società più importanti del capitalismo nostrano. Un Gruppo che interessa milioni di stakeholders, siano essi azionisti, clienti o dipendenti (o magari sono tutto ciò contemporaneamente). Un Gruppo che a quanto pare vuole diventare una minuscola media company in un mondo internazionale di giganti che comprano prede preziose.

Passi per la discussione sui massimi sistemi e sulle pur legittime riflessioni sugli impatti macroeconomici delle scelte: ciò che è sempre importante tenere in mente, però, è che si sta parlando di un’azienda privata e delle scelte strategiche dei suoi manager. Per quanto discutibili, le possibili exit strategy dal campo della telefonia cellulare e dal controllo dell’infrastruttura di rete nazionale, rappresentano le risposte a problemi finanziari notevoli, ma anche ad un quadro competitivo in continua evoluzione. Qualche tempo fa tutti guardavano alla telefonia cellulare come unico business del futuro: oggi, i primi risultati concreti di un’economia basata sulla Rete, fanno osservare con nuova attenzione le reti fisse.

Rottamare una gallina dalle uova d’oro come Tim è una scelta coraggiosa ed è prematuro dire se sbagliato o corretto: forse è ancora presto per il successo di massa delle offerte convergenti che la stessa Telecom Italia sta lanciando, ma è un’incognita immaginare quale sarà il modello dominante per l’utilizzo dei sistemi di telecomunicazione da parte degli Europei nel giro di qualche anno. In un mondo che tende al wireless, certo, suona bizzarro immaginare un’improvvisa riconversione al fisso: è pur vero, però, che il potenziale di cavi e fibre ottiche, trascinante negli altri continenti, nel nostro è pressoché sconosciuto. Situazione che, in Italia, dipende soprattutto dal ruolo dominante di Telecom Italia, che è comunque l’unica azienda che può permettersi investimenti importanti nel settore.

Dispiace quasi sentimentalmente, in ogni caso, per la probabile scomparsa dell’ultimo operatore mobile italiano, dopo la cessione degli altri gioielli avvenuta negli ultimi anni. Sembra molto più interessante, almeno per il Mercato (se non per Telecom Italia), la nazionalizzazione della rete fissa, al pari di quanto avvenuto con le reti che trasportano gas ed elettricità: è bello immaginare, almeno per un istante, una public company, partecipata dallo Stato, che concentri le attività di Terna, GRTN, Snam Rete Gas e rete telefonica, in modo da riuscire a creare economie di scala e di scopo, ma che soprattutto riesca ad offrire pari opportunità a tutti gli attori di mercato. A quel punto, nazionali od internazionali essi siano, poco importa: a giovarne sarà il cittadino e Telecom Italia potrà dilettarsi a vendere contenuti in un Paese in cui tutti i concorrenti vendono sempre le stesse cose.

Pubblicità vs. Passaparola vs. Blog vs. The next thing

Massimo Mantellini decide di inserire una sezione pubblicitaria sul suo blog e come prevedibile lo fa a suo modo: pubblicando un manifesto della sua iniziativa, che consisterà nel recensire prodotti e servizi sul proprio blog. Ogni commento inserito apparirà non nelle classiche pagine del blog, ma appunto in una sezione ad hoc che sia immediatamente riconoscibile e leggibile solo via Web e non attraverso i feed. Blogosfera e comunità virtuali si sono sbizzarrite a commentare l’iniziativa, a partire dai commenti dei lettori di Punto Informatico, il primo quotidiano a dare risalto al progetto del suo collaboratore.

I commenti, a dire il vero, non sono sempre positivi: la paura di molti è che il diffondersi dell’iniziativa, nei termini auspicati da Mantellini, possa portare a trasformare in mercenari prezzolati i blogger più famosi. Siamo tutti sicuri della buona fede di Mantellini, ma obbiettivamente i casi più noti d’Oltreoceano non lasciano presagire nulla di buono per i suoi colleghi europei. Quelli che si possono definire “blogger professionisti” non vanno per la leggera: sanno di avere seguito e non rinunciano a trascinare i propri lettori più fedeli nelle proprie passioni, ma anche nei propri interessi, anche di tipo economico.

Le ricerche di mercato, ha notato De Biase, fanno persino fatica a classificare i blog come fenomeno di passaparola, piuttosto che come “banali” siti Internet: se c’è davvero qualcosa che li differenzia dagli altri tipi di contenuti disponibili sulla Rete, questo è nella personalità che l’autore regala loro, piuttosto che nei testi, recensioni o pensieri sparsi essi siano. I markettari più prolifici puntano sui podcast come mezzo pubblicitario: allo stesso modo, c’è la sensazione che si confonda il mezzo con i contenuti, le potenzialità tecniche con l’effettivo uso che gli utenti (lettori di blog o ascoltatori di podcast è uguale) ne fanno.

Anche i blogger europei con maggiore esperienza cadranno nelle spire dei pubblicitari che tanto criticano: nel momento in cui iniziano a parlare di prodotti sui propri spazi personali, comunque favoriscono un’azienda o, criticandola, offrono un vantaggio ai concorrenti. Può essere che la tesi che la pubblicità tradizionale sa superata abbia un fondo di leggittimità: ma The next thing, il nuovo modo di comunicare al pubblico le novità e le qualità dei propri prodotti, deve ancora arrivare. Nel frattempo, in fin dei conti, siamo ancora fermi ai metodi di un secolo fa.

Lavori di massa e marketing low cost

Forse non è stata esattamente un’idea brillante, per Google, seminare qualche notizia a proposito del sistema di analisi dei suoni: per quanto possano fare piacere ai tecnofili, le informazioni diffuse rischiano di allarmare il mercato di massa, che ormai guarda con sempre più diffidenza al Gigante (ex?) buono. Il progetto è affascinante, ed è evidente che da un lato contribuirà ad aumentare in maniera inverosimile le informazioni trasmesse sulla Rete (per la gioia di chi si occupa di Net Neutrality), dall’altro potrebbe segnare uno step importante nel marketing interattivo. Sarebbe interessante, soprattutto, comprenderne le implicazioni sui programmi user – centrici stile AdWords.

Dal punto di vista tecnico, in ogni caso, si tratta di trattare una mole di dati, per di più multimediali, in maniera il più possibile efficiente: vista l’alta capacità degli ingegneri di Google, c’è da essere sicuri che nuovi algoritmi vedranno la luce e si integreranno alla perfezione col resto delle utilities Googliane. Tuttavia, come unico neo, è possibile un rischio – qualità: se i servizi eternamente in Beta riescono a migliorarsi di continuo grazie all’utilizzo dei Clienti finali, è difficile immaginare un beta – testing volontario di un simile data mining a scopi pubblicitari. Ecco un caso in cui, forse, il tipico crowdsourcing di Google rischia di non funzionare.

Il modello, a ben vedere, è ben lungi dall’essere abbandonato: l’ultima iniziativa lanciata, non a caso, è uno dei casi più espliciti di utilizzo dell’intelligenza diffusa per migliorare la qualità dei prodotti di Google. Si tratta di Google Image Labeler, edizione riveduta e corretta dell’ormai storico ESP Game, sistema dalle origini universitarie nato per matchare in maniera qualitativamente elevata immagini e tag. L’idea geniale probabilmente non sta solo nell’utilizzare il tempo degli aficionados di Google, ma soprattutto di giustificare il tempo speso on line trasformando l’etichettatura in un “avvincente” (…) gioco a tempo, uno – contro – uno.

Unica critica che si può muovere di fronte ad Image Labeler, forse, è l’essere nata come iniziativa per i soli utenti di lingua inglese: infatti, proprio perché c’è da scommettere che gli algoritmi di Google basati sulla sua linguamadre siano più raffinati, sarebbe stato importante utilizzare tempo e skills dei navigatori di tutto il mondo per migliorare le ricerche nelle proprie lingue. Non a caso, una delle iniziative più raffinate di Google è stata proprio Google Translations, che spesso è riuscita a localizzare in tempi record i prodotti di Google, grazie al lavoro di gente nativa dei mercati di destinazione, ancora una volta gratuito. Chi vuole guadagnare qualche centesimo, al massimo, si rivolga ad Amazon