Linux Day, il giorno del Pinguino

Il logo del Linux Day 2006Sì è tenuta oggi Linux Day 2006, la manifestazione che in 104 città italiane ha catalizzato l’attenzione di tecnofili e semplici curiosi del meraviglioso mondo dell’open source in generale e di quello del Pinguino in particolare. Manifestazione sicuramente interessante, come molte di quelle nate dal basso ed organizzate da appassionati: peccato che, almeno nelle grandi città, non siano state viste delle folle esattamente oceaniche. Colpa, forse, dei luoghi di ritrovo: sedi universitarie, associazioni specializzate e così via, luoghi sicuramente frequentati dagli aficionados ma molto meno dalle masse.

Quello che manca al mondo Linux, d’altra parte, sono proprio i grandi numeri: sebbene le grandi aziende (IBM in primis) ormai suggeriscano alle aziende clienti (costose) soluzioni basate su software open source al posto di (costose) soluzioni basate su software proprietario, al di fuori del mondo dei server la diffusione del sistema operativo del Pinguino è del tutto marginale. Da notare che, al contrario, applicazioni ben specifiche realizzate dalle comunità di sviluppatori e destinate al mondo Windows, sono ormai dei piccoli grandi successi: in primis Firefox, ma anche Gimp, CDex e decine di client P2P.

Per aumentare l’interesse verso Linux, non bastano posizioni forti come quella di Beppe Grillo, che puntano molto sul potenziale risparmio dei costi per le grandi organizzazioni, istituzioni pubbliche in primis. Basta scorrere i commenti che il comico ottiene e si trovano affermazioni sorprendenti anche da parte di chi potrebbe diventare alfiere di questo tipo di approccio al mondo del software, ad esempio gli adolescenti. Scrive ad esempio il diciannovenne Carlo Fogli:

«ok linus e’ gratis, e’ affidabile, e’ sicuro, ma chi sene? solo nel momento in cui sara’ supportata UNA sola distro, sulla quale verranno indirizzati tutti gli sforzi per effettuare conversioni di giochi e quant’altro valutero l’ipotesi di lasciare windows, altrimenti ciccia!

E se la penso io ed i miei coetanei cosi, figuriamoci un impiegato che usa windows solo con un applicativo e che non sente l’esigenza di cambiare os!

Cambiate linus! una sola distro! Semplice e funzionale! non tante UNA! e sviluppateci di tutto! ho provato ubuntu lts dapper drake, inutile dire che ad oggi e’ un problema capire come instalare il driver giusto per la mia scheda video! troppo un casino! dai»,

evidenziando quello che è un po’ l’atteggiamento diffuso presso il pubblico finale in tutta Europa (paesi nordici esclusi, probabilmente).

Sicuramente, i tanti eventi previsti per oggi, se organizzati in maniera meno tecnofila (basti guardare il pur ottimo programma di Teramo, del tutto incomprensibile ai novizi), potrebbero combattere questo tipo di pregiudizi. L’interesse è tanto, le brutte esperienze purtroppo pure: speriamo che presto anche nel campo dei sistemi operativi si possa avere alternative di qualità e, come nota Alessandro Ronchi, meno luoghi comuni a proposito di ricette magiche e software gratuiti. I soldi, a volte, non sono il problema principale.

Muji, il non marchio che fa marketing

Hai appena finito di salire le scale mobili dello strettissimo negozio Muji di Corso Buenos Aires a Milano e senti la signora dietro di te che ulula a squarciagola: «Che bello, sembra essere all’Ikea!». Le uniche spiegazioni possibili per queste grida di meraviglia sono:

  1. la signora è una fanatica cliente della catena svedese e vede così coronato il suo sogno di comprare scatole di plastica porta CD in pieno centro a Milano;
  2. la signora è del tutto disinteressata alla filosofia del marchio Muji ed ha come unico interesse nella vita comprare scatole di plastica porta CD;
  3. la signora non è particolarmente esperta di design e cerca solamente dei porta CD di plastica bianca a basso prezzo.

In tutti i casi, probabilmente, la sciura rischia di rimanere profondamente delusa. I punti di contatto tra la catena svedese ed i concept store giapponesi sono rari e probabilmente limitati alla comune ricerca di un equilibrio tra costi di produzione, investimenti in design ed affidabilità delle materie prime. Se l’Ikea punta clamorosamente sulla quantità, sul “tutto a tutti a poco prezzo”, Muji fa del minimalismo il motivo stesso della propria esistenza, coniugando sicuramente estetica e funzionalità, ma di certo non puntando a prezzi particolarmente bassi che possano attirare un pubblico di massa.

Anche il nuovo catalogo di Muji, se paragonato a quelli in formato rivista dell’Ikea venduti anche in edicola, mette in risalto il differente approccio delle due aziende: l’Ikea è sapientemente specializzata in arredamento ed oggettistica per la casa, Muji invece investe di continuo in un ampliamento di gamma che permetta all’affezionatissima clientela di trovare sotto lo stesso non – marchio oggetti dalla natura più dissimile: dai lettori di DVD alle pinzette per le ciglia, dalle penne componibili ai maglioncini, dai tavoli ai giocattoli.

C’è da immaginare che se Muji si decidesse ad investire seriamente in Europa, potrebbe ottenere un significativo successo anche tra gli utenti finali, così come già avviene per gli addetti ai lavori: i suoi prodotti vengono sistematicamente premiati in Germania o in Francia, dove addirittura alcuni oggetti sono finiti nel fondo nazionale di arte contemporanea. Per ora, nell’ambito del lentissimo piano di espansione europeo, i due minuscoli negozi di Milano dovrebbero ottenere un fratellino a Roma: aspettiamo con ansia un piano di investimenti (almeno) nelle altre metropoli italiane.

Wal-Mart l’ha fatta grossa (ma non lo sapeva?)

I prodi soci di Edelman avranno passato mesi a convincere Wal-Mart, il gigante statunitense della grande distribuzione, del potere dei blog, dell’importanza della grande conversazione, della rilevanza di gestire in maniera professionale la presenza in Rete al di là del sito istituzionale. Sembra di immaginare le riunioni per condividere strategia e obiettivi: migliorare l’immagine aziendale attraverso uno strumento in più per combattere i detrattori dell’azienda attraverso un’azione specifica di relazioni pubbliche, curata dai professionisti di Edelman.

In questo modo sono stati partoriti siti come l’oggetto dello scandalo di questi giorni, cioè Wal-Marting Across America (finto reportage di un viaggio “da sogno” attraverso i mille punti vendita statunitensi), Exposing Wal-Mart’s Paid Critics (che mette ampiamente in dubbio le critiche di detrattori e sindacati) o l’ancora più complesso sito di Working Families for Wal-Mart, che appare essere una sorta di associazione spontanea degli amici del distributore. Siti gestiti in maniera apparentemente così indipendente dalla classica gestione aziendale da non far comprendere agli utenti dei siti chi li abbia finanziati.

Questo “peccato di trasparenza” ha dato avvio al peggiore incubo possibile per un’azienda e per la sua agenzia di relazioni pubbliche: i media (ed i “veri” bloggers) hanno iniziato a discutere dell’iniziativa come di una truffa, “smascherando” l’iniziativa e le sue finalità di comunicazione “subliminale”. Per di più, il silenzio iniziale, il banale post di scuse di Edelman stesso ed il tirarsi fuori del più noto blogger dell’azienda, Steve Rubel, hanno solo avuto l’effetto di far apparire l’azienda della GDO come un attore improvvisato trovato con le mani nella marmellata a sua insaputa. L’agenzia ha infatti cercato di tener fuori Wal-Mart dallo scandalo, assumendosi ogni responsabilità: ora siamo tutti curiosi di vedere il destino dei flogs.

In generale, sarà interessante vedere anche l’effetto della vicenda sul mondo del corporate blogging e sulla strategia per la Rete di agenzie come Edelman, che proprio la settimana scorsa si era resa protagonista dell’ennesima iniziativa con Technorati per convincere le aziende delle potenzialità dello strumento sul miglioramento dell’immagine pubblica. Si trattava di esperienze all’avanguardia ed ora si tratta di ricordi così brutti da mettere in dubbio l’intero operato dell’agenzia nei confronti del cliente interessato: per ora, come ha notato Nicola Mattina, sembra di vedere soprattutto «buone intenzioni e cattiva pratica».

È (sempre) tempo di (buoni) eventi

Passata l’apatia estiva, il mondo degli affari europeo ha ricominciato a macinare tempo e denaro: eventi grandi e piccoli si susseguono per scandire i tempi di questa lentissima ripresa economica. Siamo nella stessa situazione di dieci anni fa, al guado tra una bruttissima congiuntura e una rinnovata speranza di riequilibrio economico – sociale. Fiere, convegni ed incontri sono l’occasione non solo per il consueto business – struscio, ma anche per confrontarsi su quale possa essere il driver che ci porterà fuori dal burrone (tasse permettendo). Chi vuole pensare al futuro guarda alla Rete, chi guarda al presente alla tecnologia: in entrambi i casi, lo Smau sembra lo spazio più adatto per discutere.

Anche dieci anni fa, inutile ricordarlo, il volano dell’economia fu Internet: tuttavia, se lo Smau di dieci anni fa era la vetrina di un rutilante mondo fatto di ISP e operatori telefonici, oggi è tornato ad essere, per la gioia dei professionisti dell’IT, una manifestazione del tutto business oriented. Dopo anni di massima attenzione agli aspetti più soft, l’accento è stato posto soprattutto su (nuovi) hardware e (potenti) software: tutto il resto, in questa mini – edizione (visti i numeri dei partecipanti), è finito in convegni e seminari, più che essere vissuto negli stand.

Eventi come il convegno organizzato da Marco Montemagno hanno così attirato l’interesse di chi, internettaro professionale o amatoriale, negli scorsi anni erano al centro dell’attenzione ed ora sembra far parte di una setta di vaticinatori delle meraviglie del mondo che verrà. Il pubblico è stato simile (ma probabilmente più annoiato) a quello che ha reso un evento “storico” il BzaarCamp di Milano, che al contrario dello Smau è un evento nato dal basso. L’Espresso ha capito che aria tira e si è prodigato in tonnellate di elogi a quest’ultima manifestazione, relegando la copertura dello Smau su un piano del tutto marginale.

Passato qualche giorno e forse insoddisfatti dell’andazzo dello Smau, i “curiosi” delle cose future si sono precipitati al terzo tipo di evento: la presentazione Edelman della ricerca Technorati. In molti ne hanno ridicolizzato i ridicoli risultati ed hanno velocemente orientato la propria attenzione al prossimo BarCamp di Torino: in fin dei conti, sui tre tipi di eventi citati sino ad ora, quest’ultimo appartiene alla categoria più semplice da organizzare ma anche, sostengono molti, di maggiore qualità per capire i trend del futuro. Su [mini]marketing se ne è già parlato la scorsa settimana: se ci sarà un modello di evento che prenderà il sopravvento, non sarà certo quello dello Smau.

Dada acquisisce Splinder (ed i suoi utenti?)

Si prevedono giorni di faville in Borsa per Dada: dopo svariate acquisizioni internazionali di service provider per il mercato mobile (yawn…), finalmente l’azienda fiorentina, sempre più parte integrante del mondo RCS, ha messo a punto un colpo importante assumendo il controllo di Tipic, l’azienda (finto-)statunitense che produce un ottimo sistema di messaggistica istantanea, ma soprattutto gestisce da diversi anni le comunità Motime e Splinder. Un affare da 4,5 milioni di Euro che implica una valutazione pari a 50 volte (…) il fatturato 2005 della piccola società: qualcuno dice un po’ troppo, ma il potenziale c’è.

Il problemino principale di questo business “in potenza” è che l’unico vero asset della società sono gli utenti: circa 220.000 blog vengono definiti attivi, ma chiunque in questi anni ha frequentato le terre di Splinder sa che la mortalità dei blog è altissima e tolti alcuni utenti storici (vedi Personalità confusa, ad esempio), la maggior parte di chi è riuscito a mantenere il proprio blog vivo per un periodo abbastanza lungo prima o poi ha fatto il grande salto verso piattaforme magari pubbliche, ma ospitate su un proprio dominio. Per di più, il fatto che uno dei primi gruppi editoriali italiani abbia comprato la principale piattaforma blog nazionale sembra puzzare di infanticidio nella culla di un nuovo modo di fare informazione.

Nell’immediato, comunque, la paura maggiore dei cittadini della Rete è che Dada trasformi anche Splinder in un ricettacolo di banner pro-suonerie, come già avvenuto con quel gioiellino un tempo famoso come Clarence, oppure ne snaturi le modalità di erogazione, come già visto per le molte acquisizioni degli scorsi anni, al solo fine di accaparrarsi gli utenti e poi smobilitare il servizio stesso (gli “archeologi” ricorderanno Freemail.it e Freeweb.org, ad esempio). Per il mondo “reale”, però, l’acquisizione di Tipic dovrebbe destare un’altra preoccupazione: che si sia tornati ai tempi “dorati”, ma amarissimi, a cavallo del cambio di secolo.

Il tono del comunicato stampa o i commenti sulle valutazioni del tipo “20 Euro per ogni blog attivo” non possono che ricordare i discorsi simili che si ascoltavano ai tempi della quotazione di Tiscali: sembra che la storia non abbia insegnato nulla agli investitori, che oggi hanno premiato il titolo. Ora sarà interessante leggere dell’evoluzione di Tipic nel blog promesso dagli attuali gestori o in quello del fondatore Marco Palombi: speriamo diventi la prima acquisizione di una nuova era di sano equilibrio e non l’ultima di una folle corsa all’oro immateriale.

La coda lunga sbarca in tipografia

In questi giorni di sciopero dei giornalisti, una delle notizie che sta ottenendo maggiore eco sui quotidiani in Rete è lo sbarco in Italia di Lulu.com, la nuova iniziativa di quel volpone di Bob Young, che ormai parecchi anni fa ci aveva stupito con l’idea di un’azienda software concorrente alla strabordante Microsoft: si trattava di RedHat ed era la prima realtà che riusciva a proporre sistemi di qualità basati sul lavoro delle comunità open source, poi venduta al migliore offerente.

Stavolta l’idea non è troppo innovativa, ma sembra ben ideata in termini di time to market e soprattutto di promozione internazionale: è stata predisposta una piattaforma di compravendita di contenuti multimediali indipendente dal supporto di distribuzione ed è stata lanciata in diverse zone del Mondo inseguendo di volta in volta i contenuti e gli strumenti più interessanti per ogni Paese. Che si tratti di voler vendere le proprie creazioni lettearie o quelle musicali, che si voglia consentire il download o predisporne la stampa in tipografia, la scelta è ampia e soprattutto la produzione ha prezzi stracciati.

Esistono anche in Europa piattaforme simili, persino italiane come LampiDiStampa, che consentono iniziative auto-editoriali, ma hanno due vincoli forti: i costi fissi che l’autore deve sostenere e la necessità di dover ricorrere a distributori che tradizionalmente si occupano di distribuire libri tradizionali. Nel caso di Lulu, invece, la focalizzazione totale sul modello on line consente agli autori di usufruire di una piattaforma specializzata e del tutto multimediale.

Rimane da capire chi, in Europa, acquisterà in Rete ed a scatola semi-chiusa libri e musica prodotti da semi-sconosciuti come invece avviene con successo nel resto del Mondo: in Italia è da poco rinata Vitaminic dopo la dissoluzione di qualche anno fa dovuta allo scarso giro d’affari ed è difficile immaginare che tornerà ad essere una potenziale concorrente di Lulu. Probabilmente sarà importante richiamare l’attenzione di nicchie solitamente vessate dagli editori tradizionali, come gli autori di manualistica universitaria: in ogni caso, è il trionfo della coda lunga e della possibilità per ognuno di offrire al mondo il frutto della propria settorialissima passione. Sperando che interessi a qualcuno.

Sara Tommasi, la soubrette “all’europea”

Fa bella mostra di sé su Corriere.it Sara Tommasi, la giovane stellina televisiva che presenta il calendario realizzato per Max con un’intervista realizzata prima della sua partenza per L’Isola dei famosi, il sonnolento reality show condotto con scarso successo da Simona Ventura. C’è poco da dire sulle foto, visto che la percezione della bellezza femminile è più soggettiva di quanto si possa pensare: sono interessanti piuttosto le parole pronunciate da questo strano personaggio che è solo relativamente famoso (non che gli altri partecipanti al reality lo siano molto di più), ma è senza dubbio abbastanza complesso da suscitare interesse.

Sara Tommasi, infatti, sfida gli stereotipi che perseguitano modelle e donne di spettacolo in generale in giro per l’Europa: se spesso le loro colleghe d’oltreoceano vengono catalogate a priori come oche bellissime ma senza cervello, per qualche strano motivo qui ci si aspetta che non solo le soubette del vecchio Continente siano assolutamente belle e sensuali, ma anche colte e preparatissime. Sara Tommasi colpisce proprio per questo: perché ha capito come incarnare alla perfezione queste nostre attese, perché sa cosa vuole e lo sa anche perché ha studiato per saperlo.

Conseguire una laurea in Economia delle istituzioni e dei mercati finanziari alla Bocconi con 105/110, in effetti, non è esattamente una passeggiata: perciò, quando la Tommasi spiega all’intervistatrice che sta seguendo una strategia di self marketing per vendere alla meglio la sua mercanzia finché regge (silicone permettendo), magari non è del tutto scientifica, ma è abbastanza convincente. Persino l’ammissione del taroccamento del suo fisico, spiegata con candore e dettagli tecnici sul dolore provato, serve ad aumentare l’attrattività del personaggio.

C’è poco da meravigliarsi che la Tommasi abbia già orde di fan, capitanate dalle sue amiche / conoscenti dei tempi dell’Università milanese: la prossima mossa sarà probabilmente consolidare in Rete questo enorme interesse nei suoi confronti, ovviamente amplificato dalle sue comparsate televisive, sull’esempio di quanto fatto a suo tempo da Selvaggia Lucarelli. Nel frattempo sarà curioso vedere se davvero il destino la costringerà al piano B: diventare giornalista. I giovani pubblicisti italiani, al solo pensiero, battono i denti per il terrore.

C’è grossa crisi (in TV)…

Se ne parla animatamente in Rete, gli appassionati ne discutono nei bar o negli autobus: tutti sottolineano che nell’anno italiano dei reality show (o quantomeno quello in cui ne vengono trasmessi di più contemporaneamente), proprio questo genere televisivo sembra subire maggiormente il disinteresse degli spettatori. Se le puntate di esordio sono state seguite da platee tutto sommato interessanti rispetto alle medie di rete, le puntate successive hanno segnato drastici cali nell’audience, tanto da fare di volta in volta fare i calcoli ai responsabili a proposito dei rapporti costi / risultati.

Il problema di questo tipo di conteggi è che i costi sono per la maggior parte fissi e soprattutto risultano molto alti soprattutto per quanto riguarda le luuuunghe serate in prime time. I risultati, al contrario, sono molto variabili e la scarsa prevedibilità degli ascolti, anche rispetto alle edizioni precedenti, rende molto ballerino il conto economico. Attenzione, però, al fatto che non sono i soli spettacoli del genere a subire drastici ridimensionamenti: Aldo Grasso ha notato che anche alcuni programmi italiani di successo negli scorsi anni crollano una volta ripropostone il sequel in versione 2006.

Gli unici ad incrementare gli ascolti sembrano essere i canali satellitari: che siano quelli ormai classici del bouquet di Sky o i sempre più specialistici canali dedicati a fiction e programmi per bambini, per la prima volta ottengono ascolti paragonabili a quelli delle reti maggiori. Il loro valore aggiunto rispetto ai canali generalisti sta proprio nella quantità e nella qualità dell’offerta: in confronto, si somigliano tutte tra loro le prime serate che iniziano sempre più tardi a causa dell’espansione continua di Striscia la notizia e compagnia andante e finiscono a notte fonda dopo le noiose nottate dei reality.

Le proposte per far resuscitare l’interesse per la TV generalista fioccano, da parte di appassionati ed addetti ai lavori: c’è chi scrive ricette per salvare i reality, chi punta ad accorciarne la durata e chi, sulla scorta dell’esperienza statunitense, propone di puntare sulla qualità piuttosto che sulla quantità. La speranza è che questa crisi sia benefica per tutti, per poter riprendere fiato e ricominciare a ripensare a programmi che non necessariamente contengano lo spionaggio del dietro le quinte e della vita quotidiana dei protagonisti. Anche perché, ad essere sinceri, chi se ne frega?