Il flusso del cubo open source

Un anno fa di questi tempi ci si interrogava sul misterioso segnale televisivo, dall’aspetto quasi piratesco, che occupava il segnale dell’ex Elefante TV, specializzata in televendite. Un vero e proprio flusso ininterrotto di videoclip alternativi e surreali corti, etichettato col nome YOS, acronimo sciolto sul relativo sito in “Your Open Source”. Il carattere sperimentale era evidente: sito e canale televisivo condividevano una grafica stile Commodore 64, il loop dei video era ripetitivo (sebbene di qualità) ed il sito, consultabile via Web e Wap, volutamente scarno di contenuti. Le campagne pubblicitarie su Mtv Italia, comunque, portavano al canale un flusso sensibile di spettatori.

Qualche mese dopo, il segnale di Yos era stato occupato da Flux, un progetto più maturo ma anche meno caratterizzato dal punto di vista musicale: meno video musicali alternativi e più filmati inviati dagli utenti tramite il sito. Proprio su questo punto, però, Flux ereditava i punti deboli del progetto precedente: in primis, una gestione decisamente restrittiva del copyright, lontanissima dall’etichetta “open source”, ma anche dall’aurea P2P che la nuova piattaforma voleva trasmettere, soprattutto sul sito. Atteggiamento (auto)protettivo peraltro condiviso anche dagli esperimenti televisivi italiani, come TuaTV del Gruppo L’Espresso.

Vista la sua evoluzione, i gestori del nuovo sito Qoob si troveranno ancora più in difficoltà nel gestire la massa di informazioni che gli utenti stanno uploadando sulla piattaforma, una sorta di MySpace mixato con YouTube che, rispetto ai progetti statunitensi (sui quali è comunque possibile trovarne traccia), offre anche un canale televisivo digitale per offrire uno sbocco in più ai lavori dei creativi spettatori del cubo. Questa è d’altra parte la vera novità rispetto agli stadi precedenti del progetto: Qoob non è più visibile sulle ex frequenze del pachiderma, ma è diventato un canale “a valore aggiunto” della piattaforma digitale di Telecom Italia Media, che finanzia il progetto e presta appunto ospitalità nei suoi Mux.

Finire sul pericolante digitale terrestre non è probabilmente un sogno per tutti i giovani creativi italiani che fanno parte dell’originale comunità di Flux: basti guardare le keyword maggiormente utilizzate al momento («poroppoppò, gatte, senza senso, mirò, sebastian, dirty san prod, gruppi, dinamite, competition, unraveling, rivisitazioni, flusso, sibilla, pregio, come») per comprendere che non si tratta di uno spazio sociale come gli altri. Può essere vero che il digitale terrestre risulterà una vetrina prestigiosa per chi magari è abituato ai circoli underground, ma il numero di potenziali spettatori è sensibilmente ridotto rispetto a quelli intercettabili sulla TV analogica, dove in alcune città il segnale analogico di Yos – Flux è stato addirittura meglio visibile del fratello maggiore Mtv. È probabile che i fattori legali già emersi un anno fa abbiano avuto la meglio: per ora, comunque, gli spettatori più fedeli l’hanno presa proprio male.

Spettacolarizzare fa male (ma a volte è utile)

Fa cadere definitivamente le braccia la notizia che le forze dell’ordine abbiano assaltato gli uffici di Google Italia per una perquisizione che è solo il primo passo di una più ampia offensiva verso il Gruppo di origine statunitense. Lo step successivo, cioè l’aver messo sotto accusa due responsabili statunitensi delle attività italiane, è una conseguenza nefasta quanto surreale: è come se un uomo salisse sul ponte di una nave e si vantasse di aver stuprato un’impiegata del porto ed i poliziotti rincorressero i padroni della compagnia di navigazione (straniera) perché hanno permesso all’uomo di vantarsi pubblicamente del turpe gesto.

Da questa logica, è evidente, non se ne esce più: si confondono cause ed effetti, si mescolano protagonisti e responsabili. Se lo stupratore ha voluto pavoneggiarsi, il poliziotto furbo ne deve approfittare per fermarlo, verificare lo svolgimento dei fatti e permettere ai giudici di punirlo. Se il poliziotto preferisce far abbattere la nave, ha distrutto Sansone con tutti i filistei: nessuno potrà più utilizzarla per attraversare il mare e tutti dovranno soffrire per colpa di chi ha commesso un reato al porto. Quale sarà il vantaggio per la comunità nel bloccare la nave? Come avrebbero potuto i suoi proprietari bloccare a priori la salita a bordo del malvivente?

Sempre in termini di metafore, Beppe Caravita ha commentato l’accanimento contro Google sottolineando come l’attenzione deve essere posta alla “febbre” della società civile, piuttosto che agli strumenti di comunicazione che permettono di testarla. Se i ragazzini italiani sono in preda ad un delirio collettivo di onnipotenza, sarebbe meglio prestare loro attenzione piuttosto che indignarsi a posteriori del fatto che si vantino delle proprie malefatte. Internet è utile e lo sarà sempre più in futuro proprio perché sarà il luogo di elezione per “incontrare” persone di tutte le età, giovani in primis, ma ciò che serve è comprenderne il linguaggio, non lo strumento utilizzato.

Da notare infatti che lo spettacolarizzare gli eventi drammatici è una tendenza che va al di là della Rete: recentemente Le Iene su Italia Uno hanno denunciato il notevole spaccio di droga tra i ragazzi ospiti di Arezzo Wave e rapidamente la ventennale manifestazione ha cambiato sede, nome e dimensioni per le prossime edizioni. Gridare cose sgradevoli in maniera spettacolare insomma a volte serve alla società, anche se chi lo fa magari ha altri intenti. Si ottengono con questo metodo più risultati che attraverso il lavoro giornalistico tradizionale: nel bene e nel male, un servizio de Le Iene riceve più attenzione di un dossier di Report proprio per il suo linguaggio giovanilistico. In fin dei conti è meglio spettacolarizzare un po’ piuttosto che lasciare crimini impuniti.

C’è qualcosa che non funziona alla Registration Authority

Che fine ha fatto commeurope.it? Come mai al posto di questo noiosissimo blog appare una pagina verdastra vuota di contenuti ma piena di pubblicità? Pur ammettendo che si sia fatto un salto di qualità tra il nulla pneumatico di questi post e quello fisico dello splog, dispiace un po’ vedere tanti link sparsi sui blog di amici e lettori diretti ad un dominio accaparrato dalla “mala dei domini”, quella specie di mafia diffusa che lucra sui problemi burocratici altrui. Problemi che, si noti, vengono per la stragrande maggioranza dei casi causati dalle Registration Authority di tutto il mondo, con la connivenza dei mantainer. La storia è sempre uguale a qualsiasi latitudine:

  • il legittimo proprietario del dominio richiede il rinnovo o il trasferimento del dominio;
  • la Registration Authority rifiuta la richiesta adducendo futili imprecisioni;
  • gli avvoltoi che tenevano d’occhio il dominio presentano una richiesta di registrazione;
  • la Registration Authority concede la registrazione a questi cybersquatters ed ignora le proteste del proprietario storico ed i nuovi tentativi di registrazione.

Alle lamentele del malcapitato, la Registration Authority di turno risponde con “Non c’è problema, se ce lo dice il giudice le restituiamo il dominio”. In questo, il Nic italiano è maestro: l’abbiamo visto con casi celebri come Cellulari.it, storica rivista digitale che ha perso il proprio dominio (e quindi la ragione stessa del proprio essere on line) a causa di un presunto fax illeggibile e lo ha riottenuto solo dopo una lotta presso il Tribunale, che ne ha riconosciuto la dignità di testata registrata.

Nessuna remora da parte dell’ente toscano né dei mantainer: basta pagare i pochi spicci della registrazione annua e loro si chiudono le narici e registrano tutto a tutti. Da notare che è il nuovo tenutario a decidere se si accetta o meno la procedura di arbitrato irrituale: ovviamente nessuno spammer lo fa e pertanto è implicito che qualsiasi splog dovrebbe essere impugnato davanti al giudice. Chi ha voglia di assumersi le spese, quando il dominio ufficiale https://www.commeurope.com è (toccando ferro) attivo?

Basta scorrere gli innumerevoli tentativi di registrare il dominio commeurope.it da parte di non meglio identificati richiedenti stranieri per comprendere che si è trattato di una guerra per occupare un dominio con un posizionamento decente sui motori di ricerca. A nulla sono valse le lettere di protesta quando la guerra era in corso e le telefonate all’eternamente occupato centralino della Registration Authority: quando finalmente qualcuno ha risposto, lo ha fatto solo per far notare, con molto disprezzo, che il dominio sarebbe stato registrato ad altri. Tanto, come al solito, basta andare dal giudice.

La maledizione di Google Video (e YouTube)

Ci siamo riempiti la bocca, per superare gli anni post-esplosione della bolla speculativa, di riflessioni sulla riscoperta della parola scritta o sul successo di blog e wiki come sinonimo di una nuova circolazione di idee e notizie che rifuggisse dagli schemi canonici dell’informazione radiotelevisiva. Poi ci si è resi conto che le vere novità di questi anni non stanno tanto in questi nostri pensierini da scolaretti formato deluxe, quanto nell’ampia condivisione di foto e video resa possibile dalla cresita della banda larga in tutto il mondo.

Di multimediale, negli scorsi anni, circolavano solo i file audio sulle reti P2P: poi qualcuno ha saputo creare un mercato musicale digitale e le produzioni dei grandi artisti internazionali ora ricevono nuovamente l’attenzione che meritano, stavolta sui dispositivi portatili e non su quelli più classici in vinile. Oggi il focus della Rete non è più verso suoni e parole scritte: sono le immagini a trionfare. Google, con Google Video prima e poi soprattutto con l’acquisizione di YouTube, si è posta ancora una volta sulla breccia dell’onda ed ha saputo, proprio lei che delle parole scritte ha sempre fatto il suo core business, riciclarsi come leader del nuovo mercato.

Mercato che, si badi bene, è profondamente diverso da quello musicale: qui i video, così come avviene per le immagini di Flickr (non a caso acquisita dalla rivale Yahoo!), sono prioritariamente geenrati dagli utenti stessi che li condividono. Anche quando il contenuto non è di propria produzione, sicuramente lo è la scelta “editoriale” di decidere come tagliare e montare gli spezzoni provenienti dai media principali, ma soprattutto di cosa pubblicare. Non siamo più ai tempi del P2P musicale: non si mette più a disposizione tutto l’archivio musicale “perché così fan tutti”. Si scelgono contenuti e li si promuove su altri mezzi, blog in primis.

È evidente che cotanta autonomia sia un bene per la libertà di diffusione delle infomazioni: non a caso, la maggior parte degli articoli di Corriere.it ormai include una citazione o un link a video diffusi sulle piattaforme di casa Google. Tutto ciò si trasforma in un’enorme maledizione per la Grande G, protagonista involontaria delle attenzioni spasmodiche dei media. La disinterpretazione delle parole del buon Stefano Hesse riguardo alla storiaccia del ragazzo down maltrattato è il sinonimo più evidente della nostra scarsa sensibilità nel comprendere la difficoltà di contenere e regolare un traffico così intenso ed importante. Dobbiamo tutti fare autocritica per la leggerezza con cui pubblichiamo contenuti, ma soprattutto avvisare i giornalisti che i tempi non sono affatto maturi, per sferrare attacchi così grevi a chi sta costruendo il futuro con più responsabilità di ciò che si voglia far credere.

Le Banche italiane e la gestione del naming

Non sembra ricevere grande eco la notizia, pubblicata ufficialmente stasera ma già nell’aria da qualche giorno, della fusione tra il Gruppo Banche Popolari Unite e il Gruppo Banca Lombarda e Piemontese. Risulta strano, visto che il Gruppo finanziario che ne verrà fuori sarà sicuramente tra i più rilevanti del Paese, in termini di numeri di sportelli e volume di affari gestito. Eppure c’è da scommettere che se investitori istituzionali e trader dedicheranno attenzione alle mosse dei due titoli da qui sino al momento della fusione, al contrario i giornalisti non economici e i clienti finali terranno in scarsa considerazione l’annuncio.

Il motivo sta nel fatto che, contrariamente ai recenti casi di SanPaolo – Banca Intesa e del takeover sulla Banca Popolare Italiana, i soggetti interessati questa volta sono meno conosciuti come gruppi, mentre sono molto note a livello locale le loro banche reti: i lombardi conoscono bene realtà come la Banca Popolare di Bergamo, il Banco di Brescia o la Banca Popolare Commercio Industria, così come calabresi e pugliesi vedono in Carime la loro principale banca. In tutti i casi citati, al contrario, l’appartenenza ai gruppi viene tenuta in scarsa considerazione o ignorata.

Non è che gli altri attori del mondo popolare siano molto più conosciuti. Pochi si interessavano di Banca Popolare di Lodi o di Banca Antoniana Popolare Veneta, prima che vivessero la stagione degli scandali; solo gli addetti ai lavori ancora oggi comprendono la rilevanza del Banco Popolare di Verona e Novara, al di là della fusione con BPI. Il modello federativo scelto dai principali gruppi popolari, da quello veronese a quello bergamasco a quello bresciano, premia l’identità locale delle banche, ma fa fatica a far comprendere ai clienti la rilevanza dei relativi gruppi, ormai di gran lunga superiore a quella di nomi più noti come Capitalia, BNL, Montepaschi.

Bisognerebbe capire perché, sebbene nell’ultimo quindicennio le fusioni non siano mancate, ci sia stata così scarsa attenzione a valorizzare i nomi delle Banche rete e dei gruppi risultanti. L’unico caso realmente vincente è stato quello di UniCredit: intorno allo storico Credito Italiano le Banche reti fuse, seppure rilevanti (basti pensare a CRT o CariVerona), si sono amalgamate in un progetto dall’identità chiara e condivisa dalla clientela. Si potrebbe dire altrettanto di Banca Intesa: tuttavia le due banche di partenza erano poco note a livello nazionale ed è difficile perdonare a Passera & C. l’uccisione del marchio Banca Commerciale Italiana, che sarebbe stato ottimo per una rete Private o Corporate.

Recentemente è stato annunciato che il nome del nuovo gruppo torinese-milanese sarà Banca Intesa San Paolo. Tanta perplessità sulla scelta, ma soprattutto apprensione verso il destino del marchio di Piazza San Carlo: tutti hanno visto Banca Intesa BCI (chissà perché pronunciata da tutti bi-si-ài) diventare nuovamente Banca Intesa. Anche AntonVeneta ha perso lo sua identità, perdendo lo status di Popolare nel nome e vedendo apparire sulle sue insegne vistosi loghi di ABN Amro. Ora rimane da rendere nota la strategia di branding dei gruppi risultati dalla fusione BPVN – BPI e da quella BPU – BPLP.

Si intravvede già, se è possibile dirlo, un vizio di egoismo: un nome come Banca Popolare Italiana va benissimo per un’aggregazione di Banche Popolari, ma è evidente che BPVN non accetterà mai di prendere il nome della sua preda. Analogamente, Banche Popolari Unite è un altro bel nome per unire sotto lo stesso cappello le 10 Banche Rete del Gruppo nato stasera, ma i manager del Gruppo bresciano si opporranno strenuamente ad accettare il nome della controparte. Così, altri due bei nomi sinonimi di coesione finiranno nel dimenticatoio, i timidi processi di aggregazione andranno persi e i nomi delle banche locali trionferanno ancora una volta. In attesa della fusione successiva.

Il Parmigiano Reggiano è splendido splendente?

Da tempo non si percepivano così tanti commenti, on line ed off line, verso una campagna pubblicitaria: l’idea di rilanciare il marchio del Parmigiano Reggiano con un approccio decisamente umoristico ha fatto strike. Nel bene e nel male, tutti ne parlano e tutti hanno almeno una volta ascoltato la colonna sonora dello spot, in radio o in televisione. Merito della non grandissima agenzia Max Information, che ha un sito orripilante, ma clienti di buon livello, da Beghelli a Computer Discount, da Valleverde a Roncato, da Clementoni al Consorzio Nazionale che, appunto, si occupa del destino del Parmigiano Reggiano.

L’argomento principale di discussione, oltre alle svariate posizioni sulla professionalità delle verdurine danzanti che appaiono nella versione televisiva, è la colonna sonora, ampiamente ripresa anche nello spot radiofonico. Si tratta di una versione rivista e corretta di Mamma Maria dei Ricchi e Poveri: un successo nazional-popolare dei primi anni Ottanta, che tutti gli italiani hanno posseduto, se non altro come inciso sulle musicassette in regalo col Dash di quei tempi. L’utilizzo di questa canzone ha rilanciato un vero e proprio culto della band: sul Web molti cercano le suonerie dei pezzi del terzetto o ne scaricano la musica. Chi si esalta per il testo della canzone, a dire il vero, non sa nemmeno chi siano gli artefici del successo originale: ma a 16 anni è normale non conoscere la musica che i propri genitori fingono di rinnegare.

Rispetto alla brutta citazione precedente del “Voulez-vous paté avec moi?” utilizzato da una crema spalmabile a base di tonno, la componente musicale stavolta sembra decisamente più riuscita anche del brutto riarrangiamento di Splendido Splendente utilizzato per i Mon Cheri: dello spot con Serena Autieri sono contenti solo i fan della Rettore, che sperano in un ritorno sulle scene della propria diva del cuore supportato dall’utilizzo di questi adattamenti per campagne con budget notevoli. Non manca chi si scaglia in generale contro la cannibalizzazione della musica pop italiana: posizione leggittima, ma che forse trascura gli scempi che tutte le sere estive avvengono nelle piazze di tutta Italia ad opera di sedicenti cover band italofile.

La critica più grave che si può muovere alla campagna, comunque, va al di là degli spot. Non solo è troppo orientata al pubblico italiano, ma soprattutto, contrariamente a quanto detto nei comunicati stampa, la comunicazione sugli altri mezzi è di fatto inesistente: quella sul Web è a dir poco imbalsamata e tutto sommato sembra essere destinata ad un target diverso da quello che si desidera raggiungere con i pomodorini danzanti. Target che, come già avviene per il Grana Padano, è giovane e cool: il prodotto non è destinato a chi ruba nei supermercati né a chi si abbuffa di Parmesan. Vallo a spiegare agli stranieri, il senso delle verdurine danzanti e la citazione dei Ricchi e Poveri.

Jay-Z, il genio del marketing che viene dal ghetto

I telespettatori italiani vedranno spesso, nelle prossime settimane, il nuovo spot dei notebook HP. Un signore dalle spalle ampie ed in abito elegante passa in rassegna le sue mille attività, dalla produzione di abbigliamento agli investimenti finanziari, mischiati con i suoi interessi chic, come gli scacchi. Il suo nome è Shawn, ma ci informa che nel mondo è conosciuto come Jay-Z; HP conclude lo spot etichettandolo come “Mr. Hip hop”. Bella fotografia, belle animazioni, ma scarso mordente: di fatto, alla maggior parte italiani, di Mr. Hip Hop interessa ben poco. Anzi, non lo conosce affatto.

Ancora per poco probabilmente, perché Jay-Z, oltre a svolgere bene le succitate attività, è notissimo nel mondo come rapper e produttore di alta qualità: un personaggio sensazionale, che negli Stati Uniti ha raggiunto una notorietà tale da essere protagonista di uno spot senza nemmeno mostrare il proprio viso. La differenza principale tra l’effetto della campagna negli Stati Uniti ed in Europa è che nel primo caso tutti gli statunitensi conoscono il carattere cool del personaggio e strizzano l’occhio all’auto-ironia dello spot; nel nostro continente, solo i ragazzi più attenti capiscono il messaggio di Jay-Z, ma probabilmente fanno fatica a capire il perché venga presentato come uomo d’affari.

Meriterebbe una lettura approfondita, perciò, il bell’articolo apparso oggi nelle prime due pagine dell’inserto Weekend del Financial Times. Il lungo dossier è soprendente: si scopre un personaggio unico, che ha saputo reinterpretare lo spirito imprenditoriale da spacciatore nel ghetto in un approccio di marketing assolutamente esemplare. Ha costruito un mondo di significati su sé stesso ed ha iniziato a fare brand extension passando alla produzione di abbigliamento trendy ed ovviamente ad una casa discografica che sforna successi. Il segreto è nel cross marketing: Jay-Z ad esempio sposorizza la propria linea di abbigliamento durante i propri concerti ed addirittura durante lo spot per l’HP.

Come un Re Mida del marketing, ciò che Jay-Z tocca diventa cool agli occhi degli statunitensi: tutto può essere oggetto della sua attenzione, sia prodotti economici come la “birra nazionale” Budweiser, sia prodotti che rappresentino il suo elevatissimo livello di vita, come lo champagne, prodotto di cui ormai segna le sorti del mercato nord-americano. Il reddito dell’Hip Hop CEO (e già quest’etichetta originale è più comprensibile di quella italiana) è ormai misurabile in centinaia di milioni di dollari. Niente male per un ex ragazzino del ghetto che ora ha 36 anni e li ha accumulati in soli 10 anni di carriera.

Quaranta anni di pubblicità (forzatamente) censurate

Merita sicuramente una visita, da parte degli appassionati di pubblicità così come dei tanti viaggiatori di passaggio dalla confusionaria Stazione Centrale di Milano, la mostra “Pubblicità con Giudizio – 40 anni di pubblicità giudicate dal Giurì dell’Istituto di Autodisciplina Pubblicitaria“. Tra un’impalcatura ed un martello pneumatico, sperando che prima o poi i lavori di ristrutturazione finiscano, i visitatori possono assistere ad un percorso tra condanne e lasciapassare da parte del Giurì, potendo di volta in volta consultare le posizioni a favore e contro le singole campagne, oltre ad un estratto delle motivazioni della sentenza.

Tra qualche decina di riproduzioni di annunci a stampa ed affissioni ed un loop di filmati (e relativi giudizi) di circa un quarto d’ora, è possibile comprendere qualcosa di più del lavoro di questo importante Organo di (auto)controllo del mondo pubblicitario, che trova corrispettivi nei maggiori stati di Europa. Unica critica che si può muovere all’iniziativa è la presenza di troppi sponsor privati: passi per la comprensibile partnership con attori dei media (Sipra, Donna Moderna etc.), quella con aziende coinvolte nei giudizi del Giurì (o di loro concorrenti, che è peggio) non sembra del tutto opportuna.

Dal punto di vista dei contenuti, la mostra rientra in un lungo dibattito tra uso costruttivo del mezzo pubblicitario e provocazione gratuita, tra beneficio al business aziendale e semplice cattivo gusto. Osservando il materiale esposto, ci si rende conto che in realtà il confronto tra la comunicazione attraverso i diversi mezzi evidenzia utilizzi diversi della provocazione e forse anche gradi diversi di sensibilità da parte dell’Istituto. Se i manifesti attraggono l’attenzione e gli spot incriminati sono più che altro ripetitivi dei cliché più beceri, gli annunci sulla stampa, sin da quelli in bianco e nero, sono decisamente più suscettibili di critiche.

I tentativi di pubblicare sulle riviste annunci aggressivi, furbetti, trasgressivi, sessuofili sono tanti ed a volte incomprensibili: si fa fatica a comprendere come le aziende pensino davvero di poter pubblicare annunci scabrosi o pseudo-comparazioni taroccate, ma soprattutto non si capisce quale dovrebbe essere il ritorno atteso da pubblicitari ed aziende stesse. Non a caso, i minori tentativi di presentare al Giurì spot aggressivi potrebbero dipendere proprio dai maggiori costi di produzione per degli annunci che potrebbero non andare mai in onda.

A pensarci bene, proprio questa potrebbe essere la speranza di alleviare il lavoro del Giurì (che scarta l’80% dei lavori analizzati) e concentrarsi su campagne assolutamente creative, ma business-oriented. Quando le aziende capiranno che a volte non basta “far parlare” per dare un senso a delle campagne, forse smetteranno anche di investire su campagne non-sense, premiando le agenzie brillanti, ma non forzatamente provocatorie. Anche per questo la Mostra è una bella iniziativa, che meriterebbe probabilmente uno spazio espositivo maggiore e più tranquillo. Speriamo che l’arrivo a Roma Termini verrà vissuto in un ambiente più idoneo.