Quaranta anni di pubblicità (forzatamente) censurate

Merita sicuramente una visita, da parte degli appassionati di pubblicità così come dei tanti viaggiatori di passaggio dalla confusionaria Stazione Centrale di Milano, la mostra “Pubblicità con Giudizio – 40 anni di pubblicità giudicate dal Giurì dell’Istituto di Autodisciplina Pubblicitaria“. Tra un’impalcatura ed un martello pneumatico, sperando che prima o poi i lavori di ristrutturazione finiscano, i visitatori possono assistere ad un percorso tra condanne e lasciapassare da parte del Giurì, potendo di volta in volta consultare le posizioni a favore e contro le singole campagne, oltre ad un estratto delle motivazioni della sentenza.

Tra qualche decina di riproduzioni di annunci a stampa ed affissioni ed un loop di filmati (e relativi giudizi) di circa un quarto d’ora, è possibile comprendere qualcosa di più del lavoro di questo importante Organo di (auto)controllo del mondo pubblicitario, che trova corrispettivi nei maggiori stati di Europa. Unica critica che si può muovere all’iniziativa è la presenza di troppi sponsor privati: passi per la comprensibile partnership con attori dei media (Sipra, Donna Moderna etc.), quella con aziende coinvolte nei giudizi del Giurì (o di loro concorrenti, che è peggio) non sembra del tutto opportuna.

Dal punto di vista dei contenuti, la mostra rientra in un lungo dibattito tra uso costruttivo del mezzo pubblicitario e provocazione gratuita, tra beneficio al business aziendale e semplice cattivo gusto. Osservando il materiale esposto, ci si rende conto che in realtà il confronto tra la comunicazione attraverso i diversi mezzi evidenzia utilizzi diversi della provocazione e forse anche gradi diversi di sensibilità da parte dell’Istituto. Se i manifesti attraggono l’attenzione e gli spot incriminati sono più che altro ripetitivi dei cliché più beceri, gli annunci sulla stampa, sin da quelli in bianco e nero, sono decisamente più suscettibili di critiche.

I tentativi di pubblicare sulle riviste annunci aggressivi, furbetti, trasgressivi, sessuofili sono tanti ed a volte incomprensibili: si fa fatica a comprendere come le aziende pensino davvero di poter pubblicare annunci scabrosi o pseudo-comparazioni taroccate, ma soprattutto non si capisce quale dovrebbe essere il ritorno atteso da pubblicitari ed aziende stesse. Non a caso, i minori tentativi di presentare al Giurì spot aggressivi potrebbero dipendere proprio dai maggiori costi di produzione per degli annunci che potrebbero non andare mai in onda.

A pensarci bene, proprio questa potrebbe essere la speranza di alleviare il lavoro del Giurì (che scarta l’80% dei lavori analizzati) e concentrarsi su campagne assolutamente creative, ma business-oriented. Quando le aziende capiranno che a volte non basta “far parlare” per dare un senso a delle campagne, forse smetteranno anche di investire su campagne non-sense, premiando le agenzie brillanti, ma non forzatamente provocatorie. Anche per questo la Mostra è una bella iniziativa, che meriterebbe probabilmente uno spazio espositivo maggiore e più tranquillo. Speriamo che l’arrivo a Roma Termini verrà vissuto in un ambiente più idoneo.

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