Safari per Windows: era meglio evitare?

Che i prodotti Apple siano chic, ben disegnati e ambìti non è un’opinione: è un fatto condiviso. Poco da dire sull’hardware: molte innovazioni Apple, si sa, sono diventati standard di mercato. La novità degli ultimi anni, però, è il sempre maggiore impegno in ambito sviluppo software: anche in questo campo i designer hanno fatto per la maggior parte dei casi un buon lavoro ed i programmatori hanno lavorato bene nel rendere ampiamente funzionale quelli che non dovevano essere solo sterili esercizi di ergonomia. Basti pensare ad iTunes: un software discreto, che nel tempo si è affermato non solo come client per la piattaforma di commercio elettronico Apple, ma anche come ottimo player di file multimediali.

Persino i Linuxisti più smart, da quando la Apple ha ricostruito il suo sistema operativo grazie ad un ampio uso dei sistemi open source, hanno iniziato a propagandarne l’uso come alternativa linuxiana (ma decisamente user friendly) al “solito” Microsoft Windows. Inutile ricordare l’ampio uso che dei sistemi in questione si fa in ambito professionale: grafici, pubblicitari ed esperti di desktop publishing sembrano non conoscere altra piattaforma su cui far girare i loro impegnativi (in termini di risorse necessarie) strumenti di lavoro. Superfluo anche ricordare l’attesa spasmodica legata al lancio dell’iPhone di questi giorni, negli Stati Uniti: esiste gente che vuole investire 500 dollari ed impegnarsi in un contratto biennale pur di non farsi mancare il (presunto) gioiellino.

Tutto è bello e con l’effetto aqua, in casa Apple. Tranne un piccolo, apparentemente di secondo piano, software che Steve Jobs, alle prese con le attese dei mercati di nuovi prodotti a ritmo insistente, ha dovuto annunciare al mondo nel suo ultimo intervento pubblico. Si tratta di Safari, che dopo qualche anno di presenza nei sistemi operativi Apple, è stato lanciato come browser alternativo anche per Windows Vista ed i suoi antenati. Tutti, inutile negarlo, siamo corsi a scaricarlo: per quanto in beta, un software giunto alla versione 3.0 dovrebbe essere abbastanza stabile da essere utilizzabile anche nelle situazioni d’uso quotidiane. Ed invece no.

Safari per Windows funziona poco e male. Anzi, ad essere corretti, spesso non funziona affatto: la maggior parte dei tentativi di navigazione, infatti, si conclude con un laconico

«Safari is missing important resources and should be reinstalled»,

tipico messaggio stupidamente non risolutivo, della famiglia di quelli che i Macintosh-friends da sempre rinfacciano ai prodotti di casa Microsoft. C’è da dire che nel mercato dei browser, sin dai tempi della guerra Netscape Communicator 4 – Internet Explorer 4 (quanti ricordi), vince chi innova: non meraviglia perciò che Safari ed Internet Explorer 7 vengano scaricati a più non posso e siano perciò in ascesa rispetto allo stantio Firefox, da cui hanno preso e migliorato molte delle idee che negli scorsi anni ne avevano fatto un browser molto utilizzato soprattutto tra le fasce più raffinate di utenti.

Ciò che non si capisce della vicenda, però, è il perché la Apple si sia voluta far del male immettendo sul mercato un prodotto del tutto immaturo: che la guerra dei browser sia vitale per il futuro della comunicazione multimediale è un dato di fatto, ma è pur vero che proprio per questo non è il caso di fare figuracce. In casa Apple, ad esempio, hanno puntato molto su vantaggi del tipo “maggiore velocità di rendering delle pagine”: ma sono veramente questi i benefit attesi da chi utilizza normalmente il Web? Non era forse meglio puntare solo sullo sviluppo di browser solo per il mobile, settore in cui solo Opera, con la sua edizione Mini, è riuscita a creare uno standard? Per ora aspettiamo la prossima release ufficiale, prevista per l’autunno: a quel punto, però, speriamo che la strategia sullo sviluppo dei browser di casa Apple sia meno financial-markets-driven e più consumer-market-driven.

TFR, la guerra inconcludente

Dopo mesi e mesi di assordante silenzio, la guerra per il TFR si è scatenata a poche settimane dal termine ufficiale per la scelta, previsto per questo fine settimana. Tutti sono passati alle grandi manovre: Enti pubblici, SGR, Governo, Banche, datori di lavoro, Assicurazioni, Sindacati, Fondi di categoria, hanno espresso la propria posizione. Ognuno ha alzato più o meno la voce per raggiungere l’obiettivo un po’ da tutti auspicato: convincere gli italiani a cambiare la propria percezione del tema dell’assistenza sociale, transitando dal classico modello europeo dello Stato tutto-fare ad un modello misto, in cui Financial institutions specializzate (Assicurazioni in primis), forniscano piani integrativi alle sempre più modeste risorse pubbliche.

Proprio in queste settimane, quasi come un controcanto, lo Stato sociale a noi così familiare viene promosso a sogno da parte di Michael Moore, che nel suo Sicko mette in risalto le pecche del sistema opposto: negli Stati Uniti il take-over sullo stato sociale da parte delle grandi assicurazioni ha portato, secondo il regista, soprattutto danni. Da notare che in Europa nessuno Stato vuole arrivare ad eccessi simili: il forte potere dei Sindacati sembra prevalere rispetto a questo tipo di intermediari finanziari. Anche le politiche che hanno determinato l’obbligo della scelta della destinazione del Tfr va decisamente in questa direzione: vengono sensibilmente premiati i fondi di settore, nati sulla base di accordi tra associazioni imprenditoriali ed appunto organizzazioni sindacali. I dipendenti che li scelgono ottengono addirittura un contributo obbligatorio supplementare da parte delle aziende.

In un contesto simile, ai “poveri” intermediari finanziari resta, oltre alla gestione tecnica dei fondi settoriali di cui sopra, la speranza di riuscire a convogliare le risorse di chi, sfiduciato dall’andamento mediocre dei fondi pensione negli scorsi anni, ha maggiori attese di crescita per la propria “retribuzione differita”. Il totale degli indecisi, d’altronde, è così alto da sembrare l’astensione ai referendum: a maggio, quando era partita la sgrammaticata campagna “Basta che vi decidete”, si era ancora sul 75% di indecisi. Non soprendono, perciò, le varie campagne che improvvisamente hanno invaso affissioni, quotidiani, canali televisivi e siti specializzati: non solo pubblicità pura da parte dei player, ma anche attività promozionali ed istituzionali da parte delle associazioni di categoria e degli enti pubblici.

Il video della campagna ArcaSe lo Stato ha scomodato Ozpetek con una campagna milionaria, i sindacati si sono buttati sul più economico YouTube; se Alleanza Assicurazioni ha avuto la brillante idea del gettone gigante che, come ha notato Valerio Macchia, diventa più piccolo invece di crescere, Arca ha punto tutto sugli omini dei segnali stradali che, in televisione ed in numerosi banner in giro per la Rete, corrono ad aderire ai fondi pensione dell’SGR di matrice popolare. Gradi diversi di creatività, ma che risultano di scarso impatto sui destinatari finali: la maggior parte dei dipendenti lascerà il TFR dove è sempre stato, in barba al silenzio-assenso. E tutta questa agitazione sembrerà ancora più inconcludente: alla fine a guadagnarci saranno stati solo i media che hanno ospitato gli annunci e le agenzie che li hanno prodotti.

Informazioni sparse in posti inaspettati in momenti improbabili

La storia del blogging secondo Mashable.comSi era già meditato, qualche settimana fa, sul fatto che strumenti come Twitter e Tumblelog riassumano passato remoto e futuro prossimo del blogging. Le ampie possibilità di alimentazione (Web, SMS, Wap, Instant messenger e così via) da un lato ed il minor “impegno” necessario per aggiornare questo tipo di strumenti rispetto ai blog più tradizionali o alle piattaforme multimediali, fanno sì che sia facile immaginare nuove mirabolanti spazi di crescita. Molto apprezzabile, in tal senso, la presentazione di Jyri Engeström sull’evoluzione di Jaiku e dei suoi fratelli.

Persino aziende come Apple (più formale) o Technorati (più sbracati), utilizzano Twitter come strumento per comunicare informazioni e notizie utili ai propri clienti. La febbre, ormai, è esplosa anche in Italia. Ciò fa sì che si stia riproducendo anche nei nostri lidi quanto già visto all’estero: informazioni interessanti che prima venivano pubblicate nei blog ora vengono disseminate nei “pensierini” pubblicati come “status”, a qualsiasi ora, da cinguettatori italiani di varia natura. Qualche esempio?

Riflessioni

«Pensa che in italia i nuovi media hanno più esperti che utenti» [10 giugno 2007, 10.49, da Gianluca Diegoli]

«dopo attenta analisi, posso dividere i twitterers in “emuli di confuso” e “neo-omosessuali”. almeno col blog qualcuna da limonare si trovava» [20 giugno, 13.14, da Sapo]

«si discute delle metriche per il web 2.0, page view is dead, what’s next? nobody’s knows.» [4 giugno 2007, 16.23, da Mafe]

«gli verrebbe da dire che la stagione dei convegni 2.0 ha un po’ rotto l’anima» [15 giugno 2007, 23.12, da Massimo Mantellini]

Citazioni

«”Il vero spettacolo di qs mondo è la gente e per di più non si paga il biglietto” (Bukowsky)» [17 maggio 2007, 23.32, da Lele Dainesi]

«”Internet is good because mankind is good” Esther Dyson, verbatim» [5 giugno 2007, 11.56, da Vanz]

Segnalazioni di propri contributi

«My two cents about feeds and spam: http://www.kurai.eu/262/feed-feed-feed/» [12 giugno 2007, 11.12, da Federico Fasce]

«Lo segnalerei sul blog, ma è morto: “Da Gutemberg ad aNobii“» [14 giugno 2007, 11.37, da Giuseppe Granieri]

«pubblica la sua wish list dei 35 anni http://www.wishlistr.com/axell» [13 giugno 2007, 12.09, da Axell]

Links

«http://tv-links.co.uk/ è una figata pazzesca» [19 giugno 2007, 22.16, da Gaspar Torriero]

«partecipate al prossimo BarCamp: http://www.barcamp.org/CampSant» [14 giugno 2007, 12.45, Andrea Beggi]

«http://www.teenager.somedia.it serviva davvero?» [11 giugno 2007, 16.24, da dottorgioia]

Notizie

«Ikea aprirà 21 pdv in Italia in sette anni» [12 giugno 2007, 21.36, da Alberico Tremigliozzi]

Ricky Records, la televisione senza televisore

Il logo di Ricky RecordsDopo un po’ di mesi di rodaggio, si può dire che Ricky Records, la piattaforma italiana di Digital Video Recording remoto che ha rappresentato l’avanguardia di questo tipi di servizi nel nostro Paese, è oggi stabile ed affidabile. L’idea è semplice e già vista all’estero, ma quest’applicazione italiana ha dei punti di merito che possono essere apprezzati ed esportati in tutta Europa: lo standard tecnologico sottostante è quello del digitale terrestre, che garantisce una buona qualità delle registrazioni ed una discreta compatibilità con i più diffusi sistemi casalinghi, vista l’esportabilità dei filmati prodotti direttamente su DVD.

La semplicità tecnologica, d’altra parte, è uno dei vantaggi di questo sistema: la scelta tra i formati disponibili viene guidata e spiegata in termini di qualità percepita. Accanto al formato digitale di alta qualità, infatti, vengono offerte due alternative che garantiscono risultati più modesti, ma sufficienti per essere viste via PC. Questa flessibilità garantisce ai clienti anche la possibilità di evitare download da 2 GigaByte, in favore di file compressi della metà o addirittura di due terzi. La possibilità di utilizzare download manager come il “solito”, grandioso, GetRight, evita di dover cestinare file che si scoprono rovinati o incompleti a causa dei tradizionali problemi di gestione dei grossi download da parte dei browser.

I prezzi del servizio variano in base a queste differenziazioni di qualità e dipendono dalle modalità di pagamento scelte: si va da 3 Euro per l’acquisto di un programma in alta qualità pagato via telefonata all’899, fino ai 40 centesimi per ognuno dei programmi low-fi acquistabili con una “ricarica” da 50 Euro pagabile via PayPal. La scelta è per ora limitata ai principali canali televisivi nazionali: le tre reti Rai, le tre reti Mediaset, La 7. Su questo punto, effettivamente, si potrebbe osare di più: proprio perché il segnale di origine è quello del digitale terrestre, si potrebbe inizialmente ampliare il bouquet almeno ad altri canali disponibili su quelle frequenze.

Riassumendo, il progetto è ad un buono stadio di sviluppo e può continuare a crescere bene, come e più dei siti che offrono servizi analoghi, ma in streaming. Accanto a punte di eccellenza come l’assistenza puntuale tramite il forum pubblico (un ottimo esempio di trasparenza), ci sono aree di miglioramento come la promozione del servizio stesso: più che la campagna in giro per i siti RCS/Dada, forse sarebbe stato più utile concentrare i fondi sull’avvio di un programma pay-per-action. Tuttavia, è opportuno dare fiducia al servizio ed a chi l’ha fondato, sperando che i crediti saggiamente distribuiti gratuitamente all’atto dell’iscrizione, non spingano troppi Furbetti del Webbetino a sottoscrivere troppi fake account con e-mail fantasma.

.commEurope 2.0, in versione 2.0

Dopo diversi mesi di lavori (part-time, ovviamente), finalmente è on line la nuova versione di .commEurope. Al termine delle ultime integrazioni, previste per i prossimi giorni, finalmente l’intero archivio dei post e dei commenti sarà disponibile all’indirizzo ufficiale di .commEurope, https://www.commeurope.com/. Un piccolo traguardo dopo la triste storia del furto di commeurope.it e soprattutto un grande passo verso una gestione più semplice, ma allo stesso tempo paradossalmente più potente, della piattaforma di pubblicazione. In questo, WordPress rimane un ottimo strumento di insuperabile flessibilità: professionale ma semplice, è geniale nel suo adattarsi alle esigenze di ogni blogger.

Queste sono le principali novità di questa “release” di .commEurope:

  • feed RSS completi disponibili in diversi formati, grazie al supporto di FeedBurner;
  • possibilità di segnalare i post interessanti via e-mail, cliccando le apposite opzioni disponibili sia via Web, sia via feed;
  • possibilità di bookmarkare su del.icio.us e Digg i post ritenuti meritevoli di segnalazione, direttamente dal feed;
  • categorie (finalmente);
  • motore di ricerca fornito da Google, che permette di ricercare sia sul blog, sia sulla Rete, ma con risultati condizionati dai contenuti del blog stesso;
  • tag a fondo articolo, con link ai tag stessi presenti su Technorati, Flickr e del.icio.us e possibilità di navigare tutti i contenuti di .commEurope attinenti ai tag in questione, indipendentemente dalla categoria e dalla data;
  • classifica degli autori di commenti, dal 2004 ad oggi.

Quest’ultimo punto è un po’ un divertissement, ma è soprattutto un piccolo ringraziamento agli amici di .commEurope, che negli anni sono cresciuti ed hanno fatto crescere questo blog grazie ai propri interventi. Per ovvi motivi di salvaguardia dallo spam, i commenti saranno sempre moderati; tuttavia, una volta approvati, incrementeranno automaticamente il conteggio degli autori, che potranno indicare il blog/sito da far apparire come link nella classifica stessa.

Ed ora si torna al lavoro: tutti i post dell’archivio verranno progressivamente taggati ed i link contenuti saranno verificati, uno per uno…

Che brutto spot. Punto.

Un fotogramma della campagna per la Fiat Grande PuntoMichael Buble è un discreto cantante. Piace agli amanti del pop, strizza l’occhio a quelli del jazz, ammicca ai fanatici del soul. Sentire la sua Oh Marie orribilmente remixata ed inserita come spot dell’ultimo spot di casa Fiat, però, fa venire i brividi. E non di piacere. La brutta versione della canzone, unita al delirio delle immagini delle tre Punto verde rospo – bianco sporco – rosso fuoco che vagano per Torino scimmiottando lo storico Italian Job di Michael Caine e soci, fa invece venire le convulsioni: sorprende che le migliaia di viaggiatori in transito dalla Stazione Centrale di Milano non abbiano attacchi di epilessia al decimo passaggio dello spot in dieci minuti sui mega-schermi LG.

Com’era prevedibile, in Rete gli appassionati di motori si sono lanciati in lunghe discussioni in cui confrontano la propria (eventuale) simpatia per lo spot e le connotazioni dello stesso: è evidente che il 90% degli spettatori televisivi non colgano il senso dello spot ed al massimo hanno un vago ricordo del film The Italian Job con Charlize Teron, di pochi anni fa, piuttosto che di quello originale. Da notare che il film è rimasto poco nella memoria comune e quel poco è legato quasi esclusivamente all’esasperato accento posto sul ruolo delle BMW Mini come protagoniste del film stesso. Un motivo in più per non comprendere il perché la Fiat sia voluta a tutti i costi ricorrere ad una campagna il cui portato è quasi del tutto legato ad un’auto concorente.

Da notare che già un anno e mezzo fa, quando la Grande Punto venne lanciata, era stata utilizzata l’idea del rilancio dell’economia nazionale attraverso l’acquisto dell’utilitaria parzialmente prodotta in Italia. Ciò che si cerca di aggiungere ora, è un tocco glamour: in tal senso può essere letta anche la notizia che Daniel Radcliffe (per gli amici Harry Potter in versione celluloide) non aspetta altro che diventare maggiorenne per acquistare l’Italian scàtolett. La quale sicuramente è più comoda della Mini ma, con buona pace del Punto Racing Club che vi vede un mezzo per fare dello sport amatoriale, ha lo stile di un rospo che non diventerà mai principe. Soprattutto quella di colore verde rospo, appunto.

E alla fine vinse il Web 1.5

Quando l’hype sul Web (presunto) 2.0 ha iniziato a montare, molti in Europa si illudevano che questa nuova ondata di entusiasmo ed opportunità avrebbe potuto vedere il vecchio continente tra i protagonisti. Sogno realistico: markettari, sviluppatori e manager europei non sono meno “creativi” di quelli di Oltreoceano. Lo scoppio della grande bolla aveva già mietuto vittime illustri: chi non ricorda belle favole come quella di Tiscali? Un tempo il Gruppo era presente in decine di paesi, ora è limitato a pochissime realtà, a causa delle vendite che si sono rese necessarie per sostenere i debiti contratti nei tempi (anch’essi presunti) d’oro.

Il fantasmagorico mondo del Web 2.0 sembrava inizialmente connotato da un diffuso uso del crowdsourcing: un ottimo modo per abbattere la necessità di impiegare decine di persone anche solo per lo startup. La rivincita del garage: una bella idea, un team di sviluppatori ambiziosi, una connessione capiente. Poi ci si è resi conto che la connessione, visto il tipo di applicazioni (spesso audio, video, foto), doveva essere ben più che capiente; allo stesso modo si è capito che la capacità dei server che ospita le ambiziose applicazioni di nuova generazione dovesse essere misurato in Terabyte (e non solo di spazio su disco). Ciò che non si è speso in risorse umane, insomma, si è iniziato a spenderlo in tecnologia.

Era evidente che i grandi player internazionali, quelli nati o rinati dalle ceneri della prima bolla e progressivamente affermatisi come leader della nuova ondata, si facessero avanti con poderose stampelle: Google è il caso più evidente, ma è solo la base dell’iceberg. Pochi sono sopravvissuti alla prima bolla così com’erano; molti sono i soggetti che si sono evoluti (vedi Yahoo!) e molti sono gli attori nati nell’interludio che hanno creato le basi per la nuova ondata di start-up ed ora come tanti Conti Ugolino divorano queste creature che tanto hanno dato al buzz intorno al Web 2.0. Come dire, il Web 1.5, quello nato post-bolla, sta ormai inglobando le vere punte di diamante di ciò che è innovativo e vincente sul mercato.

Cosa resterà, una volta finito il processo di consolidamento ed esplosa la bolla 2.0? Ad esempio, tanto per riprendere il link proposto ieri da dot-coma, la gioia e la sorpresa di leggere il blog di Marc Andreessen (sì, proprio QUEL Marc Andreessen) che si presenta come un navigatore qualsiasi… Oppure piccole chicche come il Brilliant Button Maker di Luca Zappa, un programmatore di Reply che con la sua idea, in pochi mesi, ha regalato oltre 4 milioni di immaginette ai suoi utenti. Tutto ciò che di bello vi viene in mente e che abitualmente collegate all’idea di Web 2.0, invece, presto finirà nelle mani di aziende più grosse e bisognose di innovazione: d’altra parte molti progetti sono ancora in Beta, si troveranno bene nel mondo dei perpetual beta di Google e soci.

Anche i blogger leggono (e molto)

Qualche anno fa, durante uno dei mille incontri che fanno da cornice e sostanza della Fiera del Libro di Torino, un relatore sostenne che i blogger fossero “una cozzaglia di aspiranti gionalisti e mancati scrittori”. Visto l’esiguo numero di bloggari presenti in Italia in quel momento, nessuno volle ribattere: sorgeva il dubbio che in quel momento storico avesse persino ragione. Ora che invece i blog in lingua italiana sono centinaia di migliaia, sarebbe possibile controbattere: accanto alla suddetta cozzaglia c’è anche una grossa parte di autori “normali”, che utilizzano questo mezzo d’espressione, al pari di altri offerti dall’avanzamento tecnologico, con la semplicità un tempo riscontrabile solo nella posta elettronica.

Ciò che accomuna questa maggioranza e la “cozzaglia” è un’evidente affinità con la parola scritta: mantenere vivo un blog implica non solo un discreto numero di ore necessarie per garantire l’aggiornamento costante, ma anche una capacità di scrittura che renda l’aggiornamento stesso un piacere, non una via crucis. Tale capacità, va da sé, era quella che le professoresse di Lettere del Liceo ti invitavano a sviluppare leggendo, leggendo, leggendo. L’approccio era sensato: chi ha mantenuto quella passione nonostante il limitato tempo derivante dai troppi impegni lavorativi (sigh), sicuramente oggi ha una marcia in più anche nello scrivere con passione sul proprio blog sui quattrosaltinpadella o sull’anticoegittodeifaraoni.

Per la proprietà transitiva, se mantenere vivo un blog implica amare scrivere e ciò implica amare leggere, i blogger ameranno alla follia aNobii, il social network di origine giapponese che, grazie alla sponsorship illuminata di Giuseppe Granieri, ha permesso di dimostrare che i bibliofili italiani che vagano in Rete sono tanti e fieri di esserlo. La comunità internazionale cresce di giorno in giorno e quella europea sembra essere in forte ascesa: i filtri geografici applicabili in diverse zone del sito permettono d’altronde di calibrare i risultati delle proprie ricerche anche al fine di confrontarsi con altre culture ed altri interessi, magari distanti dai propri.

Il logo del Gruppo 'Comunicazione' su aNobii

Pur con tutti i problemi tecnici e concettuali ancora presenti, aNobii cresce ad una velocità incredibile: in una sola settimana sono stati aggiunti circa 100.000 libri, anche grazie agli sforzi della comunità di iscritti, che segnala gli eventuali libri non ancora censiti. Cresce allo stesso modo la coesione sociale, attraverso la nascita di Gruppi di interesse, che accomunano appassionati ed esperti di discipline specifiche, movimenti letterari, stili di scrittura. Giusto per non farsi mancare niente, è stato creato un Gruppo chiamato “Comunicazione”, con la finalità di condividere letture interessanti attinenti le discipline e le esperienze che attengono a questo campo. Tutti gli amici ed i lettori di .commEurope sono caldamente invitati a partecipare: l’ingresso è gratuito e non c’è nemmeno la consumazione obbligatoria…