La triade fornitori-prodotto-clienti perde colpi

Esiste un modo sintetico (per quanto semplicistico) di riassumere secoli di produzione industriale: si tratta di descrivere le aziende come agenti di trasformazione di materie prime, acquisite da fornitori, in prodotti, destinati ai clienti finali, con l’intermediazione di eventuali agenti terzi. La quasi totalità delle attività si può sintetizzare in questo modo: è pur vero che in alcuni casi nei decenni sono nati paradigmi leggermente modificati (ad esempio da parte delle istituzioni finanziarie, i cui prodotti si sono sin da subito presentati come immateriali), ma i tre soggetti principali del paradigma (fornitori, clienti, prodotto) sono sempre stati i protagonisti indiscussi delle attività economiche di stampo capitalistico.

Persino la manodopera, punto di attenzione per eccellenza dei critici più feroci di questo modello economico, è stata per anni vista come un fattore di produzione, riconducibile perciò ad una materia prima messa in circolo da fornitori (fino all’estremo delle società interinali, che trattano i dipendenti come fornitori e li rivendono come prodotti ai propri clienti). A valle, invece, raramente si sono visti cambi nella natura dei clienti: al massimo, col tempo è variata l’importanza degli intermediari, crescendo notevolmente nel B2C (pensiamo alla crescita esponenziale del potere della GDO) e diminuendo drasticamente nel B2B (ormai molti agenti di commercio fanno la fame).

Esiste un mercato che, tuttavia, ha nel tempo scardinato questo modello tradizionale: si tratta di quello pubblicitario. Gli italiani lo hanno scoperto con la nascita delle televisioni commerciali: abituati ad essere clienti della elefantiaca Rai, negli ultimi anni hanno scoperto di essere il prodotto che le reti private (ma ormai anche la stessa TV di Stato) vendono ai propri inserzionisti pubblicitari. Non è un caso che anche il mondo dell’editoria cartacea abbia progressivamente sposato questo modello: le revenue da prezzo di copertina ormai sono risibili rispetto agli introiti pubblicitari. La frequente trasformazione dei concessionari in editori è la riprova più evidente in tutta Europa: Urbano Cairo non è stato il solo a verticalizzare la propria attività.

Lo sboom delle attività econimiche legate alla Rete al cambio di millennio è in parte derivato dal non essere riusciti ad applicare in pieno né il modello industriale tradizionale, né quello ormai preminente in ambito pubblicitario. Solo l’ampia avanzata del Web 1.5 e dell’ampio ricorso al crowdsourcing ha permesso di creare un modello economico almeno parzialmente sostenibile: le folle sono diventate fornitori di contenuti per i gestori dei siti, che li veicolano ad aziende clienti interessate ad apporvi la propria pubblicità. Qualcosa di molto simile al modello pubblicitario, ma con una differenza fondamentale: la materia prima, stavolta, sono le idee, non le eyeballs. Non è un particolare insignificante: è su questa distinzione che si fonda il futuro della pubblicità in Rete, ma soprattutto della sostenibilità economica della stragrande maggioranza delle piattaforme di cui ci serviamo quotidianamente…

Il mito intramontabile delle PMI miete vittime

Fa una certa impressione vedere il Web pieno dei faccioni dei (presunti) manager di piccole e medie imprese chiamati a testimoniare che non sia «un caso che più del 65% dei clienti SAP sono piccole e medie imprese». Fa impressione non solo per la bruttezza estetica della campagna (ampiamente ricompensata dall’alta qualità dei prodotti SAP), quanto per il fatto che, oltre che sui banner, i faccioni in questione si incontrino anche negli aeroporti o in altri “luoghi” in cui si parla di aziende, business, sviluppo. SAP sta investendo pesantemente per raggiungere un target effettivamente lontano da quella che è la percezione comune dei suoi clienti: non solo le “solite” grandi imprese, dunque, ma anche quelle dai budget più limitati.

Bisogna anche dire che la campagna prevede casi di studio di aziende che SAP ritiene PMI, ma i cui fatturati partono da meno di 20 milioni di Euro ed arrivano ad oltre 500. Il che vuol dire escludere le aziende dell’S&P Mib, ma includere molte aziende quotate sulla Borsa Italiana. L’idea di fondo della campagna SAP è comunque corretta: si punta alle imprese che vogliono crescere, partendo appunto da posizioni di retrovia. Sicuramente è indubbio che soluzioni come quelle della casa tedesca possano dare una mano a sviluppare i business più disparati, soprattutto quelli di matrice industriale; ciò che colpisce, tuttavia, è che non è la prima volta (ma soprattutto non sarà l’ultima) che si vede una grande azienda ricorre al mito intramontabile delle piccole e medie imprese come cliente ideale dei propri prodotti e servizi.

Il problema, d’altronde, è che le grandi aziende che operano in Italia (e ancor meno quelle di origine italiana) sono veramente poche. Quando le grandi aziende hanno smesso di vendersi servizi l’un l’altra, iniziano a rincorrere le PMI come se fosser il serbatoio perfetto: sperano di riciclare i propri metodi e le proprie offerte, consce che ripetere lo stesso mantra (quello derivato dall’esperienza con le sorelle maggiori) a qualche decina di imprese sarà un po’ uno sbattimento, ma si preannuncia decisamente redditizio. Ci provano tutti: banche, società di consulenza, agenzie di pubblicità, assicurazioni, società di leasing e fornitori di tutti i tipi, tutti in fila davanti alle porte delle piccole aziende. Hunter addestrati per attrarre clienti dai fatturati minimi, se non altro per toglierli alla concorrenza; account manager con la schiuma alla bocca che lottano per avere budget ridicoli, pur di poter inserire referenze nel portfolio.

Puntare così ciecamente alle PMI è un errore di marketing da manuale. È come cucinare un infuocato piatto di spaghetti all’arrabbiata e darlo in pasto ad un neonato, dicendo “ma tanto sono solo due fili”; è sbagliare la propria strategia, dare porci alle perle mentre si è convinti di distribuire ostriche, ma soprattutto sbagliare tutto nell’interpretare i desiderata dei propri (potenziali) clienti. I quali, dal canto loro, hanno tutti i problemi (anzi, molti di più) di quelli delle grandi imprese: chiederebbero solo di poterli raccontare a qualcuno, invece di vedersi ogni volta rovesciati addosso tonnellate di slide “buone per tutte le occasioni”. Il mito intramontabile delle PMI continuerà ad uccidere le grandi aziende che su di loro hanno puntato tutto: peccato, perché basterebbe ascoltare la loro voce invece che alzare la propria.

La Repubblica & R2: voglia di cambiamento, tentativi di modernità

Dopo tanta enfasi sui (presunti) cambiamenti a stile e formato del TG1, anche La Repubblica ha dato una rinfrescata al proprio aspetto: titoli più leggeri, interlinea più ampia, box di approfondimento, persino qualche spazio bianco. Un look leggero che, verrebbe da dire, sembra quello di un sito Web, sebbene l’assenza di link non sia un problema da poco, per un quotidiano cartaceo letto con i nostri occhi ormai abituati a cercare le sottolineature. Un buon lavoro, che sarebbe carino fosse imitato anche dall’elefantiaca versione digitale del quotidiano, Repubblica.it, altrimenti destinata a morire sotto il novecentesimo box pubblicitario consecutivo delle iniziative editoriali del Gruppo L’Espresso.

La vera novità di questi giorni, in realtà, l’aveva segnalata Mr. Wittgenstein la scorsa settimana: si tratta di R2, il nuovo dorso nazionale che non brilla per originalità nel nome (Luca indica The Guardian e il suo G2 come fonte autorevole, ma a noi plebei viene in mente anche l’affaire Virgin Music vs. V2), ma sicuramente rappresenta un’iniziativa originale nel sonnolento mondo dei quotidiani italiani. L’idea, ci spiega l’editoriale di Ezio Mauro, è quella di uno spazio editoriale

«che raccoglierà ogni giorno i servizi speciali di Repubblica con le sue grandi firme. Un giornale di inchieste, storie, dossier, reportage e racconti per approfondire fatti e protagonisti della grande cronaca italiana e internazionale, della cultura, degli spettacoli. Con questa offerta informativa originale e autonoma, non si potrà più dire che i giornali sono tutti uguali. E anche la politica dovrà guadagnarsi il suo spazio nella nuova sezione, con questo semplice criterio: no alla politica che parla di se stessa, sì alla politica che parla delle persone e del mondo.»

Si tratta di un programma ambizioso, soprattutto nel voler instaurare un nuovo rapporto col mondo politico (anche se questo passaggio suona piuttosto simile al proclama di Riotta in occasione della presentazione del “nuovo” telegiornale). Si tratta di un tentativo apprezzabile di mettere su carta ciò che si pensava da tempo, cioè che esiste uno shift tra le funzioni d’uso dei vari media: in un certo senso, La Repubblica implicitamente attenta all’esistenza del giornale gemello, L’Espresso. Infatti, in un mondo in cui le notizie si leggono massivamente via Web e vengono sorbite belle farcite via TV, la funzione dei quotidiani è quella che una volta svolgevano i periodici: l’approfondimento di qualità.

Il problema principale di R2 (ma è un po’ quello dei quotidiani contemporanei in generale), però, è proprio il tempo che il lettore medio (alias tutti noi) può dedicare a tale attività di approfondimento: viene sicuramente voglia di leggere l’articolo di Roberto Saviano pubblicato oggi, sul binomio Sarkozy e architettura forse si può impiegare un po’ di tempo, ma l’approfondimento su Madeleine McCann è fuori portata. Col tempo, c’è da sperare, la selezione dei contenuti sarà più omogenea: apprezziamo comunque la voglia di cambiamento di Mauro e dei suoi, ma soprattutto i tentativi per risvegliare un quotidiano che ha solo una trentina di anni, ma in questi anni è invecchiato rapidamente, proprio come la popolazione italiana che cerca di rappresentante e cui tenta di parlare.

Marketing Agorà: provare per credere

Questo sarà un post un po’ atipico per la storia di .commEurope: decisamente più corto del solito (e qui partono i cori da stadio), ma non per questo meno importante, anzi. La peculiarità sta nella motivazione di fondo per cui non sempre bisogna blaterare a più non posso, specie se qualcuno ha già scritto ciò che si pensa, in maniera chiara ed esplicita. E dell’argomento in questione, cioè di Marketing Agorà, è decisamente meglio far parlare colui che ne è promotore ed ideatore primario, cioè Pierluca Santoro.

L’idea di fondo è ambiziosa e sicuramente stimolante: in un momento difficile in cui il termine “marketing” diviene da un lato ubiquo, dall’altro sinonimo di turpi attività, Pierluca e i suoi sodali hanno obiettivi ambiziosi. Attraverso l’aggregazione di professional del campo, infatti, si vuole creare una comunità di pratica che voglia condividere esperienze positive ed idee per migliorare il lavoro quotidiano e soprattutto la percezione comune del lavoro stesso.

Buon lavoro a tutto il gruppo!

Sky, sempre più protagonista

Quando un paio di anni fa ci si rallegrava per il consolidamento di Sky sul mercato italiano e soprattutto per l’avvio delle nuove tecnologie (alta definizione in primis), tutto sommato si parlava di una realtà ancora in divenire. Si trattava tutto sommato del corpo della vecchia Telepiù con qualche sprazzo di Stream, con un progressivo innesto di manager internazionali di fiducia del buon vecchio Murdoch. Nessuno capiva in realtà la portata del fenomeno: unico dato disponibile il numero di abbonati dichiarato dalla società stessa, ma nessuna ipotesi, nemmeno remota, sugli ascolti.

Oggi, invece, Sky è una realtà del tutto diversa. I suoi ascolti, difficilmente confrontabili con quelli espressi in milioni di spettatori come avviene nelle TV generaliste, rappresentano nicchie qualitativamente uniformi, interessanti per gli investitori pubblicitari meno legati ai prodotti di massa. Il numero di abbonati cresce in maniera continua e dovrebbe sfiorare i 5 milioni di titolari nel giro di pochi mesi. Il relativo bacino di pubblico arriva a contare non meno di 13 milioni di spettatori, ivi compresi quelli che le TV più classiche non le guardano da un pezzo, ma si appassionano velocemente ai contenuti offerti dal loro costoso, ma variegato, abbonamento alla pay TV.

Sky, inoltre, è cresciuta anche dal punto di vista organizzativo: quando ad inizio agosto Murdoch aveva negato la possibilità, per motivi politici, di quotare in Borsa Sky Italia, tutti ci siamo reso conto che la Sky di oggi non è più un’impresa marginale, ma un attore industrialmente importante del mercato editoriale. La sensazione si è fatta ancora più forte quando, qualche settimana dopo, Tom Mockridge ha presentato i propri piani per la stagione 2007-2008: la cifra di 1,4 miliardi di Euro di investimenti (di cui 700 solo per i canali sportivi) è del tutto rilevante e soprattutto importante per settori come quello dei canali tematici che, prima dell’ingresso di Sky, erano del tutto asfittici.

Mentre come ogni anno riparte l’ottovolante di Telecom Italia in base ai rumors di acquisizione da parte di Murdoch delle attività di Telecom Italia Media, il crescente potere di Sky si nota anche nei bracci di ferro sempre più duri con la Lega Calcio: solo interventi normativi permetteranno di ridimensionarne il ruolo e di riportarlo al livello di Rai e Mediaset che, sebbene sensibilmente più grandi in termini di bacini d’utenza e raccolta pubblicitaria, sono decisamente rimaste indietro in termini di evoluzione del proprio business. Chissà come evolverà il contesto politico: probabilmente, se rimarrà tutto così, Sky avrà ancora molto da dire sul mercato italiano.

Fring, il software di cui (e col quale) parleremo molto

Negli ultimi anni, il concetto di “navigare col cellulare” si è progressivamente auto-legittimato, conquistando un’attenzione sensibile non solo da parte degli utenti business (pubblico elettivo di tutte le nuove tecnologie e di quelle a supporto della produttività individuale in particolare). Il simbolo di questa successiva trasformazione del nostro modo di essere sempre on line è sicuramente stato Opera Mini, il browser in miniatura di Opera che, pur essendo gratuito, ha da sempre mostrato potenzialità decisamente interessanti rispetto ai programmi pre-installati a bordo dei terminali, anche di quelli più prestigiosi.

Fring a Friend!Una nuova rivoluzione è ora alle porte e in parte già avviata dagli utilizzatori più smart dei cellulari, quelli che non accettano supinamente gli improbabili costi della messaggistica ufficiale (15 cents di Euro ogni 160 caratteri, sigh) e soprattutto delle telefonate internazionali. Lo stesso motivo che aveva decretato il successo di Skype e dei suoi gemelli è infatti alla base del successo crescente di fring, il client VoIP per mobile che sta spopolando in particolare tra i numerosi utilizzatori di Nokia con Symbian a bordo. Chi non ricorda i commenti trionfali di Suzuki Maruti di qualche mese fa?

Le mille possibilità di comunicazione attraverso fringFring non può non piacere: interfaccia semplice, interazione seamless tra operazioni di uso quotidiano (MSN Messenger, Twitter, ICQ e mille altre attività con le quali ci dilettiamo abitualmente via PC) e sistema operativo, con ampio e crescente controllo della connettività, sempre nell’ottica del risparmio: il software cerca automaticamente la connessione meno costosa (tipicamente wi-fi) e gestisce l’auto-roaming con le reti tradizionali, garantendo una buona qualità soprattutto nelle conversazioni tra fringsters.

L’unico dubbio che turba un po’ gli utenti, al momento, non riguarda le caratteristiche tecniche ma il modello di business dello strumento, domanda incubo per chiunque abbia visto le più promettenti dot-com di inizio secolo collassare sotto i debiti. La nota di merito va invece alla presenza di fring in Italia, curata da Hagakure ed in particolare al lavoro di Federica Dardi, che con abnegazione e professionalità sta sostenendo la diffusione del buon software anche nel nostro Paese. Prossimo passo atteso: il sito di fring in più lingue, italiano in primis, per far avvicinare allo strumento anche persone meno sensibili agli aspetti tecnologici ma comunque amanti di telefonia cellulare e dintorni (leggi: il 95% degli italiani).