Viva Carosello, abbasso i panini

Si completa nei prossimi giorni la pubblicazione di Carosello, l’iniziativa dell’Editoriale L’Espresso che in quattro DVD ha sistematizzato e condiviso i migliori siparietti andati in onda lo scorso secolo (fa un certo senso dirlo, in effetti). Una scelta ardua, visto che il programma nato 50 anni fa ha presentato nel corso degli anni oltre 40.000 mini-film, realizzati in 35 mm: l’opera in edicola è stata ben curata ed effettivamente riesce a sintetizzare bene i punti più alti di quella esperienza. Tanta creatività e buona produzione cinematografica: assolutamente da vedere per chi si occupa di pubblicità e comunicazione in genere. Inutile continuare a fare guerre di religione come ha cercato di fare Il Velino: proviamo ad astrarli dal contesto sociopolitico, se proprio è necessario apprezzarne stile e tecnica.

Il costo dell’opera è tutto sommato interessante: come recita il sito, ogni DVD è stato venduto «a soli 8,90 Euro con La Repubblica e L’Espresso», per un totale di poco più di 35 Euro. Peccato per i “con” ed “e”, visto che andando in edicola per chiedere il DVD, il Cliente deve uscire con

  • DVD Carosello
  • La Repubblica con R2 (ed eventualmente Affari & Finanza il lunedì)
  • L’Espresso
  • D – La Repubblica delle Donne (al sabato)
  • Venerdì (al venerdì)
  • volantini pubblicitari assortiti

in uno dei più impressionanti “panini” della storia editoriale italiana. Alla modica cifra di 13 Euro, il Cliente occasionale dei giornali del Gruppo L’Espresso ottiene tanta carta (pur interessante) non richiesta, portando il costo complessivo dell’opera a 52 Euro, cioè 1,5 volte il costo dei soli DVD.

Fa sempre piacere leggere dei quotidiani (ma il tempo latita), può essere un piacere leggere D – La Repubblica delle Donne (c’è sempre da imparare) ed è interessante sfogliare L’Espresso (sebbene la maggior parte dei contenuti interessanti li si è già letti on line): perché fare a tutti i costi ogni settimana un’imboscata al povero appassionato di cose pubblicitarie che va a rendere onore ai suoi sacri penati? Non esiste un modo più sobrio per vendere qualche copia in più dei propri giornali? Non si potrebbe piuttosto garantire una promozione più sensata alle opere collaterali (vedi il piano dell’opera sul mini-sito, mai aggiornato dopo la prima uscita), magari promuovendo forme di interazione che coinvolgano proprio i giornali cartacei e quindi facciano venire voglia di comparli, senza vederla come un’imposizione?

Ormai di collaterali si discute da anni: negli anni d’oro dei libri de La Repubblica, effettivamente, sono stati la “terza gamba” dell’editoria, accanto a pubblicità (in lenta crescita) e diffusione (in rapido calo). Dall’introduzione dell’Euro in poi, i prezzi per il cliente finale sono velocemente aumentati, rendendoli meno appealing rispetto ai loro esordi: iniziative come quella su Carosello riescono però ad interessare nicchie specifiche e disposte ad aderire a piani editoriali anche più lunghi di soli 4 DVD. Peccato per le imboscate: sarà anche vero che quelli che vivono in nicchie di questo tipo sono ricchi (?) e dal profilo culturale elevato, ma proprio per questo non sono scemi. Le costrizioni non piacciono a nessuno e persino un quotidiamo può diventare spam, se non è ciò che si voleva comprare.

Alixir, Darth Vader e i fantasmi di Barilla

Quando a fine settembre Barilla ha annunciato 10 milioni di investimenti pubblicitari per il lancio della linea Alixir, a molti è sembrata una presa di posizione forte su un mercato nuovo, quello dei cosiddetti alimenti funzionali, che per molti sarà la vera miniera d’oro del mercato alimentare del futuro. Una fuga in avanti con obiettivi modesti nel breve termine (appena 25 milioni di Euro in un anno, dai quali vanno scontati ulteriori 10 milioni di investimenti triennali per spese di produzione e design), ma con prospettive assolutamente ampie nel medio-lungo: la vita media si allunga e questo tipo di prodotti dovrebbero permettere all’organismo di maturare nel tempo, ma non di deperire nell’invecchiamento. Tutto affascinante, in effetti: tremate concorrenti, Barilla ancora una volta cercherà di rivoluzionare il mercato!

I prodotti della linea Barilla AlixirEppure non si direbbe che sia andata esattamente così. Con la sua tipica strategia di marketing disarticolata, anche stavolta Barilla ha sparato altissimo per raccogliere bricioline. Sul Web sono fiorite le recensioni negative appena pochi giorno dopo la comparsa negli ipermercati e nei principali supermercati italiani di inquietanti totem neri: amorevolmente definiti Darth Vader (sigh) da chi ha potuto apprezzarne contenuti e presentazione, sono durati lo spazio di un soffio, poi sono spariti pressoché ovunque. Mentre ancora i circuiti televisivi outdoor riproducevano a spron battuto lo spot Alixir, i prodotti nei negozi risultavano già introvabili: un’apparizione decisamente fugace, una scomparsa assolutamente incomprensibile. Il sito ufficiale, ricamato con cura da Healthware, non dice nulla a proposito.

Le ipotesi su ciò che è successo davvero si sprecano, ma nessuna è veramente attendibile. Alcuni addetti ai lavori hanno puntato sulla considerazione che, di fatto, molti dei prodotti Alixir cannibalizzino il resto della produzione Barilla, in particolare di quella Mulino Bianco: i prodotti della linea “Liberi per Natura”, ad esempio, risultano al confronto poco salutari, ma sicuramente più vicini alla tradizione Barilla. La maggior parte dei commenti, anche in Rete, si è però concentrata sui prezzi all’utente finale dei prodotti Alixir: il pane “brioche” a 20 Euro al kg, in effetti, è un prodotto che diventa per definizione non abbordabile dalla maggior parte dei consumatori, ma perde interesse anche per quelli più sensibili alla cura della propria salute. L’assunzione di fondo, in effetti, sembrerebbe essere che Alixir sia una serie di prodotti Premium destinata “a chi se li può permettere”, piuttosto che ai salutisti.

Posizionamento legittimo, quello di Alixir come linea di prodotti “di lusso”. Non è difficile intuire che anche la scelta del nero lucido, più che a misteriose connotazioni giapponesi, in realtà vorrebbe strizzare l’occhio ai prospect con le solite connotazioni di “eleganza”, “essenzialità” etcetera cui le riviste di moda ci hanno abituato. Ciò che non si capisce, però, è il marketing mix complessivo: un prodotto [presentato come] di alta qualità, con un prezzo Premium ed un confezionamento “esclusivo”… Venduto negli ipermercati? Nascosto in un monumentale totem nero posizionato alla meno peggio accanto alle merendine Kinder ed al pan carré San Carlo? Prodotto in collaborazione (vedi bibite) con San Benedetto, che notoriamente produce acque minerali di qualità media? Noi tutti amiamo Barilla in maniera infantile… Ma le sue strategie di marketing sono veramente imperscrutabili.

Nostalgia di Arrested Development

Arrested Development è stata la serie televisiva per la quale la tipica distanza tra telespettatori e critica non solo si è ampliata a livelli mai visti prima, ma soprattutto quella che ha visto giocare i due pubblici a ruoli invertiti: in visibilio i critici televisivi, diffidenti i telespettatori. Da un lato, la serie ha macinato Grammy Awards e critiche più che positive: ancora oggi basta scorrere la relativa voce su Wikipedia per leggerne alcune, accompagnate da perle del tipo

«The show is highly intertextual and reflexive, features commonly associated with postmodernism»,

che effettivamente mettono in luce alcuni degli aspetti più brillanti della serie. Dall’altro lato, il pubblico statunitense ha riservato sin dall’inizio un’accoglienza altalenante allo show, trasmesso in prima serata dopo The Simpsons. Negli altri Paesi, i telespettatori hanno avuto esperienze diverse, dipendenti dalla propria cultura e dalle proposte delle reti televisive: in Italia, ad esempio, l’aver rinominato il tutto come Ti presento i miei (?) ed averlo proposto a mezzanotte (…) su Italia 1 con toni pruriginosi non è stato esattamente viatico per un successo corposo. Basti ricordare l’interesse sollevato per Ugly Betty e la relativa programmazione per dimostrare che la rete Mediaset sa lanciare un prodotto di successo, se ci crede.

Certo, Arrested Development non è uno show da prima serata, per il palato del pubblico italiano di massa: troppo raffinato in termini di stile narrativo, montaggio, fotografia; troppo audace nel trattare con leggerezza temi sensibili nella nostra mentalità provinciale (vedi amore, avidità, omosessualità, morte, rapporti familiari, disoccupazione, detenzione). In tutto il mondo, l’uscita in DVD dei cofanetti relativi alle prime due serie, per coloro che amano questo tipo di televisione innovativa, è stata una vera e propria manna dal cielo; i fan italiani della disastrata famiglia Bluth, però, non hanno ancora goduto dell’arrivo della terza serie, purtroppo al momento (probabilmente per sempre) l’ultima ad essere stata prodotta e quindi trasmessa su Fox.

Sin dalla brusca interruzione, si sono inseguite ipotesi riguardo al futuro della serie e del suo creatore, Mitchell Hurwitz: la sensazione è che questi abbia pensato di poter abbandonare la sua creatura per sfruttare altrove la grande fiducia ottenuta, senza però riuscire a portare a termine nessuna iniziativa altrettanto innovativa. Proprio in questi giorni è tornata in auge l’idea di un film, sebbene il tipo di commedia renderebbe difficile costruire una pellicola di successo: lo vedrebbero solo i fan della serie, abituati ai prevedibili riferimenti incrociati con gli episodi televisivi. Possiamo perciò sperare in un ritorno in grande stile nelle TV statunitensi, consci del fatto che realisticamente non avverrà mai: gli anni passano, ma il brutto vizio delle cancellazioni resta.

Google Android e il concorso impossibile (per gli italiani)

Con il lancio della piattaforma Android si può dire che Google abbia ancora una volta sparigliato un mercato importante, ma non suo: come era avvenuto con l’intermediazione pubblicitaria (vedi il sistema AdSense & AdWords), con lo sviluppo software (vedi Google Web Toolkit) o con la condivisione di contenuti multimediali (vedi Google Video e YouTube), ha lanciato il guanto di sfida ad un settore diverso da quelli in cui ormai è leader consolidata, sicura di diventarlo presto anche in questo. L’approccio, bisogna dire, stavolta è molto aperto: Android vuole diventare lo standard di settore in termini di sistemi operativi per sistemi mobile e per arrivare a questo fine Google ha fatto la saggia scelta di allearsi con i protagonisti del mercato verticale, piuttosto che sviluppare tutto in casa, sotto il proprio marchio.

Tutti sanno, d’altronde, che il redditizio mondo della comunicazione via cellulare riesce a regalare soldi e gloria ad una messe di soggetti diversi: dai produttori di terminali agli operatori telefonici, dai gestori di servizi VAS ai creatori di software. Google cerca di mettere d’accordo tutti, proponendo di alzare l’asticella collettiva: i terminali che vorranno utilizzare le opportunità aperte da Android, ad esempio, dovranno essere obbligatoriamente dotati di videocamera, Wi-fi e GPS.  I produttori di hardware più smart hanno capito l’antifona e si sono adeguati: esclusi Nokia e SonyEricsson, troppo intenti a cercare di imporre i propri standard, tutti i maggiori player del settore hanno annunciato la propria adesione allo sviluppo della piattaforma.

Non fare parte della congrega, d’altra parte, implicherebbe anche l’essere estromessi dall’enorme fascio di luce (più che positivo) che i media stanno puntando sull’iniziativa. Google ha saputo prima alimentare la crescita delle attese sul tanto citato GPhone, concorrente naturale dell’iPhone di Apple; poi ha svelato di non voler entrare direttamente nell’agone, scegliendo una strada diametralmente opposta a quella di Microsoft, che nel frattempo investe soldi e tempo per sviluppare il mondo proprietario di Windows Mobile. Gli sviluppatori vivono così le possibilità aperte dalla piattaforma in maniera decisamente più passionale: Android si basa su tecnologie come Linux e Java ed avrà uno sviluppo open source.

La saggia idea di lanciare premi per un totale di 10 milioni di dollari, poi, ha definitivamente acceso l’entusiasmo internazionale; ne rimane preoccupantemente fuori l’Italia, terra in cui i concorsi ad ampio budget vengono gestiti in maniera un po’ troppo monopolistica da parte dello Stato. Mentre c’è chi, come Stefano Quintarelli, offre di finanziare aziende innovative da trapiantare in terra estera, la Rete discute ferventemente sulle ricadute della nuova trovata della grande G. Ancora una volta, un buon colpo di immagine per Google, in cambio di una manciata di milioni di dollari: noccioline, per l’azienda che ha cambiato il mondo ed ora ha intenzione di cambiare anche noi e il nostro modo di comunicare. E ci riuscirà.

Enzo Biagi e gli altri reduci di un mondo che non esiste più

Nell’effluvio di dossier, speciali televisivi, approfondimenti giornalistici, coccodrilli scongelati al momento giusto e prefiche tardive, il buon Enzo Biagi è stato meritatamente portato sugli allori dopo anni di ingiustificato purgatorio. Chi l’aveva accusato di eccessiva faziosità, chi l’aveva epurato dagli schermi televisivi, chi in fin dei conti aveva sempre sperato che questo vecchietto volesse andare in pensione in santa pace invece di continuare ad insistere per un nuovo programma televisivo, ora si strappa le vesti e nega il passato, anche quello più recente. Chi l’ha seguito, chi è cresciuto guardando i suoi programmi TV o La storia d’Italia a fumetti, può solo piangere la sua scomparsa e rimanere perplesso di cotanto movimento.

Vivere la morte di Enzo Biagi come quella di un personaggio pubblico invece che di un essere umano qualunque rende onore all’importanza che il giornalista ha assunto nella storia culturale del nostro Paese; carica tuttavia di significati eccessivamente politici la scomparsa di un grande uomo di comunicazione. Enzo Biagi era un partigiano: lo era dentro, lo era fino in fondo e fin dopo la morte, come le note di Bella Ciao ci hanno ricordato oggi. Era però anche un uomo equilibrato ed un professionista affidabile: affondava le penna nell’inchiostro, non la lama dell’offesa, nei confronti di coloro che riteneva non tanto nemici personali, quanto persone che attentavano ai principi democratici della sua Italia, quella che aveva contribuito a rifondare dopo la barbarie totalitarista.

Enzo Biagi è purtroppo uno degli ultimi reduci di un mondo che ci sta lasciando, quello di chi è nato nei primi decenni del XX secolo ed ha vissuto sulla propria pelle le contraddizioni del Fascismo prima e la durezza della Seconda Guerra Mondiale poi, ma anche il senso di sfida che quella generazione ha lanciato ai propri padri durante gli anni della Ricostruzione. Quelle persone non solo ci hanno lasciato in eredità l’impianto politico ed economico della società attuale, ma sono riuscite anche ad importare o creare ex novo nuovi modelli di condivisione dell’informazione: sono coloro che sono nati professionalmente sui quotidiani e poi sono riusciti a consolidare il ruolo della radio, affermare l’affidabilità della televisione, diffondere la cultura dei periodici di approfondimento.

Provando a guardare anche solo gli anni più recenti, basta guardare agli anni dell’editto di Sofia verso Biagi per accorgersi di quanto seguito avesse Enzo Biagi ai tempi de Il Fatto: un’affidabilità costruita negli anni, pari solo a quella di alcuni professionisti della sua generazione che nel Dopoguerra si sono affermati nei più svariati settori industriali e culturali. La sua peculiarità, rispetto ai suoi coetanei, sta nel fatto che Biagi si è creato diversi megafoni ed ha saputo utilizzarli con caparbia e sagacia: il suo insegnamento, per chi si occupa di comunicazione, rimane perciò insostituibile e degno di nota. Anche in rispetto della memoria di tutti gli altri reduci, partigiani e non, di quel piccolo scrigno eccezionale che era l’Italia degli anni d’oro.

Pane, amore e couperose

L'immagine principale della campagna tratta dal sito del Ministero della SaluteC’è qualcosa di più inquietante rispetto all’immagine dell’infermiera orrendamente affetta da violacee malattie della pelle che impazza in stazioni, aeroporti e mezzi pubblici: si tratta dello spot che un mesetto fa La Sterpaia ha pubblicato su YouTube contestualmente alla presentazione della campagna “La Bella Sanità” e che nelle settimane successive abbiamo visto pianificato in diversi circuiti. Si tratta di un montaggio in rapida sequenza di brandelli del volto della povera sfigurata, ritratta in varie posizioni (sorrisi, baci, ammiccamenti, etcetera), accompagnato da un ritmo incessante di percussioni. Chi ha caricato il video ci informa che, oltre alla direzione artistica della campagna di Oliviero Toscani, ha contribuito al montaggio tale Leandro Manuel Emede: complimenti ad entrambi non tanto (…) e non solo per la campagna, quanto per il fatto di essere riusciti a convincere Ministero della Salute e Presidenza del Consiglio della bontà della stessa e dello spot epilettico in particolare.

Bisogna dire che lo scopo dell’iniziativa era nobile: stimolare i cittadini a guardare con occhio diverso al bistrattato Servizio Sanitario Nazionale. Con un certo anticipo sull’appuntamento di fine 2008, la campagna voleva infatti sottolineare i pregi del sistema istituito 30 anni fa: un’assistenza universale e tendenzialmente gratuita, che ha portato l’aspettativa di vita oltre gli 80 anni; qualcosa di effettivamente ubiquo e non confrontabile con gli eccessi privatistici Statunitensi, sostenuto da dei medici preparati e da uno staff di supporto un po’ stressato, ma per la maggior parte disponibile. Un Servizio all’apparenza perfetto, che però da sempre soffre di una gestione miope delle risorse: l’aver attribuito competenza quasi esclusiva alle Regioni non ha ottimizzato le spese, ma ha solo contribuito a nuove spartizioni di potere, a tutti i livelli. Il Ministero centrale oggi cerca di monitorare e coordinare gli sforzi anche e soprattutto in ambito comunicazione istituzionale.

L’infermiera e il suo slogan dovrebbero essere il fil rouge che accompagnerà tutte le iniziative sul territorio per i mesi a venire. Si spera attività mirate e gestite in maniera trasparente, visto che il metodo di assegnazione di questo budget è già stato abbondantemente messo in discussione da pubblicitari e markettari italiani: difficile mettere in discussione la professionalità di Oliviero Toscani e del suo team, ma rimane un mistero la fiducia illimitata che le Amministrazioni Pubbliche nutrono nei suoi confronti. Molti professionisti hanno tirato fuori la campagna di Oliviero Toscani per la Regione Calabria, altro caso in cui lo spot era costituito da un montaggio tamarro di immagini di gente sorridente, mentre la discussione tra i cittadini comuni è rapidamente sfociata verso il malcontento sul contenuto della campagna e sulla sua pianificazione, con ampie dosi di populismo da un lato e di rabbia verso la malasanità dall’altro.

Un parodia della campagna tratta dal Contest di NGI Forum

Nelle ultime settimane, poi, è successo quanto era facile immaginare: la campagna è stata presa di mira un po’ da tutti. In primis dai giornali tradizionali, che hanno ironizzato sulla faccia tosta dimostrata dal Ministero della Sanità: indimenticabile il reportage «Pane, amore e diossina» pubblicato da Il Salvagente qualche settimana fa a proposito della presenza di diossina e pentaclorofenolo negli alimenti di uso quotidiano. In seguito, le affissioni hanno iniziato ad attirare l’attenzione anche dei più giovani: ad esempio, sul Forum di Ngi è stato avviato un Photoshop Contest che partendo dall’immagine principale della campagna, ha dato avvio ad una serie infinita di variazioni ironiche sul tema. Tanto per cambiare, insomma, Oliviero Toscani ha raggiunto il suo obiettivo di sempre: ha fatto parlare di sé prima ancora del soggetto della propria campagna. Vedremo quale sarà la prossima Amministrazione Pubblica che si affiderà alle sue cure: speriamo solo che, almeno una volta, si venga graziati dagli spot low budget, low quality.