Bruno Vespa contro Internet, Internet contro il Pakistan

L’articolo sconsolato di Marco Camisani Calzolari prima e la chiamata alle armi di Marco Montemagno poi hanno letteralmente monopolizzato le discussioni in Rete negli ultimi giorni: al centro di cotanto vociare, gli anatemi lanciati da Bruno Vespa e Alessandra Graziottin contro i blog, dipinti come diari delle nefandezze di adolescenti in calore. Una sorta di tiro al piattello contro blogger e frequentatori dell’Internet italiana, l’ultima puntata di una lunga serie di invettive, da parte di Bruno Vespa e dei suoi sodali, finalizzate a dimostrare che Internet non è lo specchio fedele della realtà quotidiana, quanto piuttosto lo strumento di condivisione prediletto da chi vive di nefandezze. Dopo la pedofilia, le perversioni sessuali degli assassini e la violenza nelle scuole, si immagina che al prossimo giro di Internet verrà sottolineato il suo essere regno del riciclaggio del denaro sporco o culla del Ku Klux Klan.

C’è poco da meravigliarsi del fatto che gli heavy user italiani di Internet (ed i blogger sono per la stragrande maggioranza un sottoinsieme di questa categoria) siano rimasti così male dal trattamento ricevuto a Porta a Porta. La maggior parte di noi usa il Web come strumento di lavoro prima che come mezzo di sollazzo (o di auto-esaltazione del sé); molti, di fatto, vivono grazie all’economia della Rete. I due Marco di cui sopra grazie alle loro attività Internet-related mantengono sé stessi e le proprie famiglie: vedere un brunovespa qualsiasi buttare fango sulla Rete è per loro un danno enorme. I due imprenditori, come tutti noi, spererebbero che i media italiani promuovessero le potenzialità della Rete; al contrario, invece, vedono messo in crisi il proprio mercato di riferimento e la percezione stessa che i loro clienti possono avere della professionalità di chi si dichiara “esperto di Web”.

Potremo continuare a boicottare, nel nostro piccolo, Bruno Vespa e i suoi ospiti. I numeri, tuttavia, saranno sempre a nostro svantaggio: noi parliamo male delle sue trasmissioni, lui parla male dei nostri siti. Tipica situazione lose-lose: Rete e TV potrebbero sostenersi a vicenda ed invece si accusano vicendevolmente di essere il buco della serratura preferito dai (presunti) maniaci della parte avversa. L’estremizzazione della situazione genera mostri e non c’è bisogno di essere ad Islamabad per sentire il vento del riflusso: la demonizzazione della Rete e dei suoi abitanti fa male a tutti. Meno Rete vuol dire meno informazione e meno informazione vuol dire meno democrazia: anche senza giungere agli estremi del Pakistan, ogni “misura di sicurezza” adottata contro Internet implica necessariamente la diminuzione delle fonti libere, la riduzione della libertà di informazione.

Siamo maledettamente viziati, questo è vero. Siamo così abituati a leggere le notizie su decine di siti internazionali e con ore di vantaggio rispetto a chi le scoprirà al telegiornale delle 20, che non ci rendiamo conto di esserci volontariamente chiusi in una torre eburnea. Una gabbia dorata in cui siamo sicuri dell’eccellenza della nostra posizione e dei vantaggi che essa porta e che vorremmo si diffondessero in maniera universale., ma anche un recinto che viene sempre più guardato con sospetto da chi legifera e da chi vuole garantire un equilibrata tutela dell’ordine pubblico, potenzialmente turbabile (così sembrerebbe) dai noti facinorosi lussuriosi che vivono nelle lande virtuali. Molti di noi ormai hanno rinunciato a lavorare nel settore: sia onore ai due Marco ed a chi ancora resiste.

Le ricette del marketing universale sono un miraggio

Gianluca riprende un’interessante serie di articoli sui vincoli sciocchi che piccole imprese e negozianti al dettaglio impongono ai propri (potenziali) clienti: qualcuno limita l’accesso al distributore di bevande calde, qualche altro (ancora una volta) vieta severamente ai passanti di provare le sedie in vendita. Come sempre, la discussione nei commenti coinvolge clienti, esperti e (a quanto sembra di intuire) esercenti. Emerge che più di un lettore capisce le limitazioni imposte dai dettaglianti: il lasciar provare una sedia ad un numero indefinito di persone rende la sedia in oggetto un item da buttare in tempi brevi, a causa dell’usura e dell’incuranza. Ikea può permetterselo (male che vada poi la rivende super-scontata nell’apposito spazio), il piccolo dettagliante ha una perdita secca che potrebbe mangiare la somma dei margini di tutte le altre sedie sorelle.

Paolo (pseudonimo di fantasia) è un avvocato. Anzi, è uno dei Partner di uno studio legale particolare: è la ramificazione italiana di uno dei più importanti studi internazionali. Di mezza età, non ha una particolare affinità con quelle che chiama “nuove tecnologie”: usa tanto il cellulare, praticamente per niente il resto (tanto le e-mail gliele stampa la segretaria ed i report li scrivono/leggono i suoi adepti). Un suo uomo di fiducia un giorno a pranzo gli ha parlato di Studio Illegale, un blog (eh?) in cui si ironizza sulla vita da studio legale (orrore!) e da quel giorno Internet ha iniziato a perseguitarlo: un suo cliente, titolare di una nota agenzia di Webdesign milanese, gli ha proposto di aprire un (banale) sito, in chiave promozionale. Paolo, come era prevedibile, ha provato un brivido di terrore: il suo studio non ha bisogno di marketing, né tantomeno di qualcuno che commenti gli eventi dello studio o dei suoi segretissimi clienti.

Francesco (altro nome inventato sul momento) è l’ultimo discendente di un varesino che, a fine Ottocento, ha fondato un’azienda che attualmente esporta il 90% della sua produzione, composta da macchinari che le aziende clienti utilizzano per produrre pneumatici, carte di credito, pannolini. L’imprenditore contribuisce attivamente all’attività lombarda (120 aziende iscritte) e nazionale di Assocomaplast, l’Associazione Nazionale Costruttori di Macchine e Stampi per Materie plastiche e Gomma. Sul sito di questa consociata di Confindustria sono disponibili comunicati stampa, liste di soci in 6 lingue, descrizioni delle iniziative internazionali di promozione del settore: periodicamente viene aggiornato anche un video che spiega la leadership mondiale dell’Italia in un settore così di nicchia. Il sito e l’Associazione, insomma, fanno il loro sporco lavoro promozionale: si potrebbe fare meglio grazie al Web, perché no. O forse no.

Federica (fine della fantasia) è responsabile “New media” (sigh) di uno dei principali gruppi bancari nazionali. Sembrerebbe essere un’aficionada della Rete sociale: il suo profilo è rintracciabile in Linkedin, i suoi commenti più o meno mascherati vengono seminati qui e lì sui blog internazionali più noti (poco sugli italiani, a quanto dice). Pare che qualche settimana fa sia andata dal suo responsabile, cioè il capo del Retail del Gruppo in questione, per proporre l’idea di un corporate blog: il manager in questione ha iniziato ad avere le convulsioni ed in confronto ha fatto sembrare Paolo (vedi sopra) un profeta dell’informatica. Ha fatto pesantemente notare a Federica di non voler sovraesporre la sua Azienda sul Web e soprattutto di non voler essere in nessun caso il first mover: osservazione falsa, visto che IWBank ha lanciato IWPlanet ormai da qualche mese, qualcosa che va ben oltre un semplice blog aziendale.

Ciò che lega tutte le storie è che ogni business, ogni realtà aziendale (e sovra-aziendale), ha delle peculiarità tali per cui è difficile estenderle a priori i principi coi quali siamo usi confrontarci quotidianamente. Alcune modalità di interazione cliente-azienda che riteniamo in generale opportune per tutte le realtà, sono viste come fumo negli occhi da alcune o addirittura come pericolose da altre. Il marketing, che dovrebbe essere sempre (sempre) l’arma per migliorare la presenza sul mercato, viene visto con sospetto, né riesce a convincere della bontà delle proprie soluzioni universali. Sicuramente, il problema è nell’incapacità di chi tra noi non riesce a far capire la validità delle proprie strategie; probabilmente, però è anche colpa del nostro voler sempre mischiare professione (da markettari), vita quotidiana (da consumatori) e passioni (da blogger). I risultati, purtroppo, non sono sempre quelli più utili per le aziende ed i loro prodotti.

L’affaire Barnard – Gabanelli e la tutela dei giornalisti

La vicenda che più ha toccato la Rete in questi giorni l’ha sintetizzata in poche parole Filippo Facci questa sera, su Macchianera:

«un giornalista fa un’inchiesta per Report che viene apprezzata, mandata in onda, lodata, perciò replicata due anni dopo, ma a un certo punto querelata; e la Rai e la Gabanelli non solo abbandonano il giornalista al suo destino, ma gli comunicano che nel caso si rivarranno su di lui.»

Facci ha il dente avvelenato contro la Rai: la richiesta di 10 milioni di Euro di danni è stato uno dei tormentoni precedenti della Rete. Le origini della vicenda-Facci non sono dissimili da quella di Barnard: ma se nel caso di Facci si tratta di una presa di posizione della Rai in quanto soggetto offeso, in quello di Barnard subentra il problema del contenuto scatenante. Facci aveva dato della cloaca alla TV di Stato, Barnard aveva denunciato il comparaggio nel settore farmaceutico rendendo la Rai meritevole di attenzione nel suo svolgimento del ruolo difficile di “servizio pubblico”. Un gesto nobile, di “vera” informazione, che la Rai doveva difendere sino in fondo, in tutte le sedi di giudizio: al contrario, l’Azienda ha promesso al giornalista di rivalersi nei suoi confronti.

È pur vero che Paolo Barnard avrà dei propri interessi in gioco, visto che scrive da anni a destra e manca per accusare la Gabanelli di infiniti misfatti: tuttavia, nel momento in cui ha realizzato il servizio contro le multinazionali del farmaco, era un autore Rai a tutti gli effetti, come tutti gli altri. Che poi sia andato via da Report per oscuri motivi personali (il che porta l’acredine tra l’autore e la conduttrice a punte eccessive), poco importa: la sua “famosa” lettera riporta fatti, date e considerazioni condivisibili a proposito del ruolo della Rai e dei rapporti con i tanti (troppi) giornalisti free-lance che collaborano con le sue trasmissioni di punta. Viene da domandarsi, tra l’altro, di cosa si occupino i giornalisti dipendenti, visto che puntualmente i servizi più brillanti vengono realizzati da esterni.

Il fulcro della vicenda è stata la discussione avvenuta sul Forum ufficiale di Report, condotta dai telespettatori delusi dal comportamento dello staff della trasmissione e della conduttrice, solitamente nota come paladina dei deboli. Milena Gabanelli ha partecipato, si è difesa ed ha difeso la Rai: solo una parte dei suoi fan si è lasciata convincere dalle sue argomentazioni, molti hanno appoggiato Paolo Barnard nel suo denunciare modi e tempi della sua epurazione dalla TV di Stato. Difficile sapere da che parte stia la verità: una ferita è stata aperta ed ha coinvolto attivamente una parte dei telespettatori di Report. Per tutti gli altri, tanto amaro in bocca: se anche i programmi di denuncia meritano di essere denunciati, qualcosa si è incrinato nel rapporto di fiducia giornalisti – cittadini.

Un anno di recensioni alberghiere su BlogHotel.it

Ognuno di noi ha progetti che risiedono nel cassetto per anni, che però un bel giorno riescono ad acquisire una propria dignità ed una propria vita autonoma: si scopre poi che il loro stare chiusi nel cassetto derivava dalla nostra ignavia, dal nostro destreggiarsi quotidiano tra mille priorità lavorative e non, mentre le idee valide sono sempre capaci di camminare da sole. E proprio a questa categoria ex-sogni-nel-cassetto-che-ormai-vivono-di-vita-propria appartiene BlogHotel.it, la piattaforma italiana gestita da blogger indipendenti, uniti da un fine nobile: recensire hotel di tutto il mondo, per condividere esperienze positive e negative.

L’idea di fondo è semplice: dedicare qualche minuto per raccontare ai lettori pregi e difetti della struttura di cui si è stati ospiti. Non ci sono particolari regole e qualsiasi lettore può diventare istantaneamente scrittore: non esistono lunghezze minime e massime nei testi, né censure sul loro contenuto. Gli unici post non accettati sono quelli inviati in maniera “fraudolenta” dagli albergatori stessi: se il fine è il dialogo, non è carino provare a pubblicizzarsi spacciandosi per normali utenti. Al contrario, se si vuole apparire su BlogHotel.it, la cosa migliore è invitare un blogger e aspettare con impazienza la sua recensione imparziale, come se fosse una roulette russa.

BlogHotel.it ha festeggiato negli scorsi giorni un anno di vita: sono state pubblicate circa una cinquantina di recensioni, relative soprattutto ad alberghi italiani. Un terzo delle recensioni riguarda Milano, ma non mancano crescenti bacini di recensioni su città di interesse turistico come Torino o Nizza. Variegate anche le categorie: la metà delle recensioni è relativa ad hotel a 4 stelle, ma non mancano, ad esempio, quelle relative ai 2 o ai 5 stelle. Visto che mancano vincoli geografici, si direbbe che al momento l’unica vera regola per partecipare è essere italiani. Il che, ovviamente, è un vincolo solo in quanto il presupposto di fondo è che si condivida un approccio simile in base alla propria appartenenza culturale.

BlogHotel.it, sembra giusto ricordarlo, è un progetto no profit e pubblicato con licenza Creative Commons: i recensori sono responsabili dei propri contenuti e non vengono pagati. Nonostante (o forse anche per) questo, negli ultimi mesi ci sono state diverse dimostrazioni di affetto: vengono in mente i link di Marco Tracinà o i messaggi di Enrica Garzilli, ma anche i post di Vittorio Pasteris, di Paolo Valdemarin o di Dario Salvelli. Ora, usciti dalla fase di rodaggio, si spera che si possano condividere sempre più recensioni: il gioco funzionerà sempre più man mano che il numero delle strutture recensite diventerà significativo. Nel frattempo: grazie a chi ha scritto (pochi ma ottimi) ed a chi ha letto (tanti ma anonimi).

Noiosissimi mesi politichesi (ricominciamo)

Questo potrebbe essere il post più breve della storia di questo blog: basterebbe un link all’articolo “Noiosi mesi politichesi in vista”, scritto nel gennaio 2006. Poco è cambiato rispetto ad allora: stiamo di nuovo guardando l’anno appena iniziato per scoprirlo contrassegnato ancora una volta da elezioni politiche ed amministrative a livello italiano e da un quadro di crisi economica in ambito internazionale. Le uniche differenze visibili al momento riguardano la diversa genesi della situazione: un brusco crollo del governo in carica in Italia (nel 2006 venivamo da 5 anni di montagne russe berlusconiane) ed un pessimo circolo vizioso macro-economico che ha portato all’inizio di una fase di recessione globale dopo anni di crescita tendente allo zero.

Le due differenze rispetto al 2006 convergono in realtà in unico punto: una crescita esponenziale del senso di pessimismo diffuso in Europa, in particolare in Italia. La comunicazione politica, facile immaginarlo, sarà la prima vittima di questo frangente: via le speranze nei ministri blogger, si ritorna alle solite contrapposizioni (centro)destra verso (centro)sinistra, liberisti verso liberal, forza del nuovo verso retaggi del passato (i due ruoli possono essere svolti in maniera intercambiabile dalle due fazioni). Via all’auspicato ritorno al proporzionale: la legge elettorale è quella dell’ultima tornata, ma la pessima esperienza dell’ingovernabilità vissuta negli ultimi due anni farà sì che i toni si accenderanno all’interno delle coalizioni ancor più che tra i due poli.

Se nel 2006 il tema delle Primarie era di voga in Italia, ora le Primarie negli Stati Uniti e la loro portata mediatica diventano, come era stato previsto, il tema caldo nei modelli delle macchine informative dei partiti. Ma se negli Stati Uniti il Web è diventato il fulcro delle campagne elettorali soprattutto per motivi economici (si tratta pur sempre di un meraviglioso sistema per raccogliere fondi per le incomprensibilmente costose campagne finalizzate alla nomination nei due partiti), in Italia si tratterà ancora una volta di scimmiottare quanto già visto “di là” (slogan, eventi, comizi, ma anche modalità di interazione in Rete), pur tenendo sempre presente che l’obiettivo ultimo è apparire il più possibile (e per più tempo possibile) in televisione.

Tutti aspettiamo il guizzo vincente: in un sistema maggioritario come quello esistente, avere un bacino del 30% di elettori “indecisi” a due mesi dalle elezioni fa sì che chi riuscirà a comunicare meglio i propri programmi (e perché no, anche la propria visione, che non fa mai male) potrà crescere nei sondaggi e piano piano avvicinarsi all’agognato premio di maggioranza. Molti sostengono che sia le elezioni statunitensi che quelle italiane hanno già dei vincitori in pectore che solo “per miracolo” potranno essere scalzati dai loro avversari: nel giro di pochi mesi scopriremo perciò se l’ovvio vince sempre, o se la comunicazione politica riesce davvero a risvegliare coscienza pubblica ed interesse tra i cittadini demotivati.

Con Premium Gallery Mediaset fa sul serio

I ragionamenti di qualche giorno fa a proposito della “televisionizzazione” della società italiana avevano come protagonista principale Mediaset, che sicuramente negli anni è stata l’alfiere della televisione gratuita di medio profilo criticata in quella sede. Bisogna ammettere, però, che l’azienda in questione sia stata anche l’unica che ha provato ad innovare, puntando sullo sviluppo tecnologico, nell’ambito della TV a pagamento. Non bisogna risalire a Telepiù analogica per apprezzare gli sforzi del Biscione nel proporre nuovi modelli televisivi ai suoi spettatori e nuove opportunità di business ai suoi clienti: basti ricordare gli sforzi iniziati qualche anno fa nel creare il “mondo” di Mediaset Premium.

Un ecosistema particolare sin dall’inizio, quello di Mediaset Premium: basato su una tecnica del tutto nuova per gli italiani (il famigerato digitale terrestre) e inserito in un contesto tecnologico di grande spessore. Un sistema capace di gestire al millesimo la complessità di milioni di tessere prepagate acquisite da famiglie di ogni fascia sociale (comprese quelle formate da persone solitamente tagliate fuori dagli standard culturali di Sky) con sistemi di pagamento eterogenei (non solo negozi specializzati e non, ma anche Bancomat e ricariche a distanza), su un’offerta complessa in maniera progressiva e crescente. Un tentativo, se vogliamo, di far risollevare l’azienda Mediaset, maltrattata in Borsa anche per la sua eterna crisi di identità.

Premium è stata in questi anni una babele posta sotto il logo rassicurante di Mediaset, condita da quei contenuti televisivi che tanto piacciono alle famiglie italiane (vedi calcio e reality show), antagonista rispetto alla “spocchiosità” di Sky. La piattaforma, infatti, ha nel tempo cercato di ampliare il suo bacino (ancora una volta col calcio, inutile dirlo), ma è riuscita a fidelizzare solamente il pubblico degli utenti più sofisticati, quello degli appassionati di eleganti film d’autore e di avvincenti serie TV di chiara derivazione hollywoodiana. Quegli stessi ingredienti che ora Mediaset sta dosando in Premium Gallery, la nuova offerta che, partendo dal digitale terrestre, presto finirà nell’offerta di Sky a fare da cavallo di Troia targato Mediaset.

Steel, Mia e Joi diventeranno presenze costanti sui televisori degli italiani: sono il primo passo verso la pay-TV di massa, che però finalmente punta sulla qualità dei contenuti e non sull’appeal nazional-popolare da Grande Fratello 24/7. Gli eleganti spot con Uma Thurman e Hugh Laurie realizzati da SaffirioTortelliVigoriti, per quanto un po’ troppo simili come idea creativa a quelli visti con Pelé e calciatori italiani appena qualche mese fa, rappresentano un primo assaggio dello stile dell’offerta Mediaset Premium Gallery: low cost sì (appena 8 Euro al mese), ma succosa. Una bella ventata di rinnovamento per Mediaset, per il benedetto digitale terrestre e per tutta la televisione italiana. Funzionerà?