La Fiat alla conquista della Cina (o forse no)

Imbarazzante ingenuità o calcolata astuzia? Non ci sono vie di mezzo per giudicare la vicenda dello spot di Richard Gere per la Lancia Delta, le presunte proteste ufficiali cinesi e le ampiamente dibattute scuse da parte del Gruppo Fiat. Sono due scenari opposti, ma che sorprendono entrambi per la loro ormai non così rara frequenza: la globalizzazione va avanti e un cultural clash al giorno, subito o voluto, è ordinaria amministrazione.

L’ipotesi dell’ingenuità prende spunto dalla versione internazionale del comunicato stampa con cui il Gruppo Fiat ha annunciato il lancio della campagna, definendo lo spot «a political poem about peace» ed esaltando la sensibilità di Richard Gere come fine mediatore culturale alle prese coi mali del mondo orientale. Cosa quanto meno bizzarra, viste le numerose minacce di morte ricevute dall’attore in seguito a clamorose cadute di stile come il bacio in pubblico a Shilpa Shetty.

La tesi opposta, quella della campagna “furbetta” di marketing, è quella sostenuta da chi, come Alberto Fattori, nutre qualche dubbio sulla sequenza degli eventi: prima il lancio dello spot in pompa magna, poi le scuse da parte del Gruppo di Torino, senza che in mezzo apparisse nessuna vera presa di posizione, ufficiale o ufficiosa, da parte del Governo o di qualsiasi altra Istituzione di Pechino. Una strategia, insomma, per far parlare di sé e del proprio prodotto da parte dei media di tutto il mondo.

Prima di ricadere in una nuova flame war come quella dell’anno scorso, sia ben chiaro che la Fiat è un’azienda bellissima, che è bello che l’economia nazionale possa godere degli effetti benefici della sua ripresa, che è un bene che dia lavoro diretto o indiretto a tanti di noi etcetera etcetera. Però, è possibile alzare la manina per esprimere un (bel) po’ di perplessità su questo tipo di campagne, del tutto incoerenti con lo stile di un marchio sobrio come Lancia?

Blog – Commenti = Più tempo libero

La notizia del giorno sul Web italiano non è il compleanno del tumblelog Pollicinor (ci mancherebbe), quando il cambio radicale, in termini di piattaforma tecnologica ma soprattutto di modalità di gestione e di interfaccia, di Wittgenstein, il blog di Luca Sofri. Anche chi non fosse un fan del geniale filosofo austriaco non dovrebbe far fatica a riconoscere l’alta qualità dei post del giornalista televisivo: si tratta tipicamente di uno dei blog in cima alle classifiche nostrane stile BlogBabel e, una volta tanto, non è difficile domandarsi il perché.

La peculiarità di Wittgenstein, per chi non lo conoscesse, è l’essere uno dei pochi blog italiani (sicuramente il più noto) senza commenti abilitati. I suoi lettori più affezionati, nel tempo, si sono dovuti auto-organizzare: Mr. Oz ha fondato Commenstein, sitarello poco frequentato ma utile per capire cosa pensano i lettori del sito originale dei vari temi messi in gioco sul blog originale. Su questa iniziativa sono frequenti le leggende metropolitane: c’è chi spergiura che Sofri sia un lettore assiduo e chi sostiene che non voglia nemmeno sentir nominare il fratello minore.

La notiziona, ovviamente, ha ricevuto ampia eco sugli altri principali blog italiani. Le righe sino ad ora più commentate sembrerebbero quelle di Mantellini, con tanto di riavvio di una discussione basata sulle domande preferite dai blogger di tutto il mondo: “Cos’è un blog? Può definirsi blog un insieme di articoli senza ammenicoli quali trackback e commenti?”… Molti non si capacitano, infatti, della scelta di Sofri (confermata col nuovo template) di non raccogliere i commenti dei propri lettori: Wittgenstein viene spesso “declassato” a tumblelog, quando basterebbe rendersi conto che si tratta semplicemente di un blog “prima maniera”.

Per un vip come Sofri, non aprire i commenti vuol dire risparmiare tempo e problemi. Vuol dire evitare diffide per sciocchezze scritte da qualcuno nei commenti, ma soprattutto risparmiare l’immensa quantità di tempo necessaria per leggerli, spulciarli e moderarli. Sofri non raccoglierebbe le migliaia di commenti di Beppe Grillo o le centinaia di Gigi Buffon, ma si ritroverebbe nel circolo (vizioso o virtuoso?) dello “Scrivo un post, ricevo i commenti, scrivo un post sui commenti, ricevo nuovi commenti”, abitudine su cui da un lato personaggi come Zoro hanno fondato il proprio successo, ma rispetto alla quale figure più celebri come Linus continuano a incespicare abitualmente.

Pur continuando a domandarci dove i blogger trovino il tempo necessario per dispensare perle di saggezze kilometriche più volte al giorno, probabilmente non dovremmo sorprenderci del fatto che anche i più appassionati ormai preferiscano distribuire i propri pensieri attraverso Twitter e similari o appunto tramite tumblelog. C’è un patto diverso col lettore: io condivido con te i miei pensieri, ma non sono obbligato a leggere cosa tu possa pensarne, come avviene abitualmente coi blog. Un accordo tacito che probabilmente suonerà molto meno democratico rispetto ai blog “tradizionali” ma che, comunque, è un puro sollievo per chi nella vita fa anche altro oltre a bloggare.

La gestione dell’immagine di Mara Carfagna e la credibilità del Governo

Non passa giorno senza che un Istituto di ricerca, un quotidiano o un sito Web propongano all’attenzione dei cittadini i risultati di un qualche sondaggio riguardante la popolarità dei componenti del Governo Berlusconi o l’opinione sui provvedimenti adottati (pochi), sui disegni annuncianti (molti), sulle polemiche tra Gruppi parlamentari su argomenti futili (troppe). In fin dei conti si tratta della naturale estensione nell’agorà politica quotidiana delle dinamiche dell’agone elettorale (pressoché) annuale. I sondaggi condizionano il voto anche in Italia come all’Estero succede ormai da tempo: non poteva mancare il completamento dell’abitudine con l’adozione della popolarità personale dei politici come driver per orientare l’azione di Governo.

Ecco che, inevitabilmente, un occhio di bue si è acceso sul panorama politico per illuminare Mara Carfagna, che dell’Esecutivo è probabilmente la rappresentante più famosa (capo del Governo escluso, ovviamente) per larga parte della popolazione. Nel suo curriculum compaiono concorsi di bellezza, vallettaggio televisivo su reti pubbliche e private, calendari scosciati: un volto noto, insomma, quindi per definizione rassicurante. Più giovane di una Gabriella Carlucci, più spigliata di una Stefania Prestigiacomo, dalla prosa migliore rispetto a Topo Gigio: una figura perfetta, pertanto, per svolgere il ruolo di Ministro delle Pari Opportunità, con ampie deleghe su temi di attualità.

La foto ufficiale della Deputata Mara Carfagna nella XV LegislaturaMara Carfagna, nel 2006, suscitava tenerezza: sin dalla foto ufficiale da Deputata con gli occhi da cerbiatto sperduto nel bosco, ha sempre cercato di dissuadere il pubblico (ops: l’elettorato) che lei era lì perché brava, laureata in Giurisprudenza e stimata dal futuro Premier. E nonostante questo, finiva sempre in prima pagina più per vicende di cronaca rosa (chi non ricorda l’affaire Berlusconi – Lario – Carfagna) che per effettivi contributi al dibattito politico. Cosa pensassero di lei le deputate parte della Maggioranza è cosa nota: rimarrà sempre il dubbio di cosa di cosa rappresentasse la sua sovra-esposizione mediatica per le silenti parlamentari del Centrodestra all’opposizione.

La foto ufficiale della Deputata Mara Carfagna nella XVI LegislaturaMara Carfagna, nel 2008, è una donna che comunica sicurezza (?) e sobrietà: addio capelli da soubrette, ecco un taglio più istituzionale; arrivederci tailleur da discussione di laurea, ecco la camicetta da manager scafata. Altro che il passato imbarazzante di Michela Vittoria Brambilla: Mara ha appena qualche foto un po’ osé da farsi perdonare ed un Ministero fatto apposta per esercitare una vigorosa azione ispirata al benpensantismo. La comunicazione politica ricorda canoni troppo televisivo-dipendenti? Lei ci ricorda i valori della famiglia. I blogger la sfottono per il suo blog-comunicato-stampa-dipendente? Lei ci ricorda i valori della famiglia. Gay, lesbo e trans la provocano chiedendo reali pari opportunità? Lei ci ricorda i valori della famiglia. Il che, a noi, ricorda tanto Michele Guardì.

Microsoft, Yahoo!, Google e il prossimo che verrà

L’articolo di Vittorio Zambardino sul monopolio di Google è sicuramente un bel commento alle posizioni di Mr. TechCrunch, alias Michael Arrington, che nei giorni scorsi aveva espresso forti perplessità sull’accordo pubblicitario da 800 milioni di dollari tra Yahoo! e Google. Tra le righe, tuttavia, Zambardino va oltre il tema originale: estende il suo ragionamento sino a comprendere tutta la “guerra per la conoscenza” che, ormai da qualche decennio, sta coinvolgendo il mondo Occidentale. Una guerra che ha visto battaglie importanti ma non ravvicinate all’inizio e che invece sta oggi procedendo a tappe forzate e sempre più veloci, tra un annuncio ai mercati e l’altro.

Bisogna dire che, all’inizio, la guerra era legata soprattutto alla gestione “hardware” della profondità e dell’ampiezza della conoscenza: produrre macchine potenti (e con tanta memoria) rappresentava un buon biglietto da visita presso le grandi aziende ancor prima che presso i privati. Solo l’ascesa di Microsoft e il suo spostare l’asse verso il software, ad inizio degli anni Novanta, era riuscita a cambiare il livello di attenzione collettivo verso queste tematiche. Se prima eravamo abituati a confrontarci con una pletora di produttori di hardware, con Microsoft abbiamo imparato a convivere con un unico fornitore software: un soggetto capace, in apparenza l’unico, di offrire sistemi informativi capaci di gestire informazioni e dati su macchine diverse, in lingue diverse.

Forse proprio Yahoo!, oggi oggetto del desiderio di Redmond, ha fatto cambiare di nuovo paradigma appena pochi anni dopo: la gestione della conoscenza non più necessariamente legata all’hardware locale, ma nemmeno al software. Un solo programmino gratuito, un browser, necessario per accedere al patrimonio importante della directory numero uno: gestita da decine di persone apparentemente esperte, la classificazione del primissimo World Wide Web operata da Yahoo! era uno strumento invincibile per confrontarsi con un mondo nuovo. Solo il rafforzamento dei concorrenti nel far prevalere la tecnologia sull’uomo ha permesso un nuovo salto in avanti: Google non sarebbe esistita senza gli sforzi iniziali di Altavista o Lycos e i loro studi nel data mining.

Ora, ovviamente, viviamo in piena era-Google. Il sistema è pervasivo non tanto e non solo nel suo essere il motore di ricerca più utilizzato, ma anche e soprattutto nell’essere diventato la piattaforma più utile per declinare la maggior parte delle nostre attività in Rete. Ci piace e ci fa paura, ci supporta e ci fa arrabbiare: non possiamo farne a meno, perché permea il nostro mondo e il nostro modo di scrivere e leggere. Nonostante tutto, però, possiamo avere una certezza: Google non sarà l’eterno monopolista. Ci sarà un nuovo soggetto, nel giro di pochi anni, che ne prenderà il posto, lasciando a Google comunque uno spazio enorme, simile a quello attualmente detenuto da Microsoft. Ciò che cambierà sarà il mercato stesso: c’è qualcosa di diverso un po’ più in là, ma lo sapremo solo più in là nel tempo.

Il mobilificio e la blogosfera

Vista la tipologia prevalente di lettori di .commEurope, ecco la sintesi in 3 punti del principale argomento di discussione nella blogosfera italiana degli ultimi giorni:

  • un blogger non particolarmente noto acquista del materiale presso un mobilificio di provincia, ma riceve un cattivo trattamento dagli addetti dell’azienda e decide di scrivere un post “cattivo” per condividere le sue sventure;
  • il proprietario del negozio si rivolge agli avvocati e sporge una contestazione legale al blogger, appuntando tra i commenti del suo post che dovrà comparire dal giudice per un risarcimento danni di 400 mila Euro;
  • l’intera blogosfera, particolarmente la sua parte più “vip”, esprime pareri pesantemente negativi sull’accaduto, consigliando caldamente al mobilificio di assumere un comportamento meno duro nei confronti del sodale.

Molti, probabilmente, in questi giorni hanno sentito il fiato sul collo: se veramente la vicenda si chiude nelle aule di un tribunale, il tutto diventa un precedente “pericoloso”. Qualsiasi azienda di qualsiasi dimensione potrebbe sentire la necessità impellente di sporgere querele verso i propri blog-detrattori, come peraltro avviene sistematicamente nel mondo del giornalismo di denuncia. E nessun blog, oggettivamente, ha la coscienza a posto: non viene in mente nessun blog italiano in cui il proprietario almeno una volta non si sia lanciato nel criticare le aziende fornitrici, magari per un singolo episodio o una singola campagna pubblicitaria non particolarmente azzeccata. I commentatori, poi, hanno fatto il resto. Come nel caso di cui si parlava in apertura, probabilmente la cattiveria esasperata di chi ha commentato il post anti-mobilificio ha superato quella del post stesso.

Basta scorrere l’archivio di un blog qualsiasi, di fatto, per notare che i post “cattivi” sono quelli più commentati. Prendiamo .commEurope stesso: il post sullo spot della Grande Punto di un annetto fa aveva sollevato commenti infuocati (e post su altri blog) da parte di amanti del marchio Fiat e risposte ironiche da parte dei suoi detrattori; l’articolo su TodoMondo di giugno 2005 è diventato un mosaico di critiche pesanti verso il tour operator che gestisce la piattaforma, trasformandosi in una sorta di forum involontario in cui i viaggiatori raccontano le proprie avventure e gli agenti di viaggio si esaltano nel vedere che i propri concorrenti on line hanno dei problemi, tanto da far discutere di class action ed altre azioni bottom up da organizzare con rabbia selvaggia.

Nel mondo tradizionale, una buona agenzia di pubbliche relazioni saprebbe gestire la complessità di simili situazioni. Tutti conoscono gli sforzi delle grandi aziende italiane nel pagare commentatori che controbilancino le discussioni troppo negative su aziende e prodotti, ma non è detto che ciò sia sufficiente. I proprietari dei blog fiutano i commenti fake in maniera infallibile e questo, inevitabilmente, diventa un’arma a doppio taglio, a detrimento dell’immagine delle aziende stesse. Alcuni blogger di lungo corso suggeriscono alle aziende di aprire spazi aperti di discussione, ma non è difficile intuire la difficoltà delle aziende stesse a concedere al consumatore amico/nemico l’arma stessa per affettarle in pubblico. La lezione comune, però, è la solita: la trasparenza paga. E forse se i commenti positivi ad oltranza fossero scritti in maniera più oggettiva e firmati dai manager delle aziende criticate, il dialogo sarebbe un po’ meno aspro.

Televisione digitale terrestre e IPTV: la sfida continua

Dove saranno finiti i profeti dell’IPTV che nel 2005 prevedevano un’esplosione, proprio nei mesi che stiamo vivendo oggi, degli abbonati alla TV via cavo? Facile: sono passati a prevedere boom ancora maggiori da qui ai prossimi anni. Previsioni, bisogna dire, abbastanza fantasiose: fino ad ora la mini-impennata delle sottoscrizioni (ma si parla sempre di centinaia di migliaia di utenti, non certo di decine di milioni), è dovuta esclusivamente alle offerte semi-gratuite dei 4 principali operatori (Telecom Italia, Fastweb, Wind, Tiscali), che stanno provando a penetrare il mercato continuando a inseguire il mito del triple play.

Piacciono a molti la pubblicità di Diego Abatantuono per la TV di Alice o di Valentino Rossi per quella di Fastweb: nel concreto, però, le attivazioni stanno avvenendo più per il pressante pressing dei call center outbound nel proporre offerte “a tutto tondo” che per un effettivo interesse delle famiglie. I vantaggi del mezzo, infatti, sono tutti da dimostrare: Fastweb punta tutto sulla presenza di Sky (sigh) nel proprio bouquet e Alice sulla monumentale (?) offerta on demand, mentre Infostrada e Tiscali si stanno ancora chiarendo le idee. Inutile anche aggiungere che il continuare a definire “banda larga” l’ADSL non aiuta nella qualità del servizio.

Gli esperti del mercato sottolineano che l’unico servizio che abbia un certo seguito sia il servizio di digital recording delle trasmissioni analogiche offerto da Fastweb con sommo sprezzo dei diritti d’autore delle reti originali. Qualcosa di non troppo dissimile da Ricky Records, che tuttavia consente il consistente vantaggio di poter acquistare trasmissioni spot e senza un contratto così forte come quello che gli utenti delle varie IPTV italiane devono sottoscrivere anche solo per godere dei periodi di gratuità dell’offerta. Gli investimenti per l’IPTV, d’altronde, sono corposi ed è bene garantirsi la fedeltà dei propri sottoscrittori, anche di quelli “per caso”.

In uno scenario simile, i detentori dei diritti televisivi si leccano i baffi. C’è sete di contenuti ed è difficile che, oltre alle infrastrutture, le TelCo inizino ad investire pesantemente nella produzione di contenuti. Più facile, appunto, “rubarli” o semplicemente stringere accordi per includere nelle offerte IPTV canali già presenti su altre piattaforme. Ed è qui che il digitale terrestre fa il suo ingresso trionfale: il suo destino di piattaforma ufficiale per televisioni e televisori europei fa sì che attori che stanno interpretando correttamente le tendenze del mercato come Mediaset si troveranno a divenirne leader non solo nella propria piattaforme nativa, ma anche in quelle alternative.

Sarebbe ora che anche la Rai si desse una svegliata, invece di continuare ad infilarsi in vicoli ciechi come quello della brutta storia della “sperimentazione” dell’alta definizione in vista degli imminenti Europei di calcio. Fino ad ora solo Telecom Italia Media, con iniziative tipo Qoob e La7 CartaPiù, è sembrata cavalcare l’onda del digitale terrestre in maniera almeno paragonabile (con le necessarie proporzioni) a quella di Mediaset. Il digitale terrestre, nella sua bruttezza tecnologica, è il nuovo eldorado televisivo italiano ed è bene adeguarsi: poi è bene che esistano offerte alternative come quelle via IPTV, sperando che siano alternativi anche i contenuti.