Il caso Guru e la scarsa lungimiranza della moda italiana

Sulla vicenda dell’arresto di Matteo Cambi e sull’imbarazzante stile di vista dell’uomo della margherita ha già scritto Enrica negli scorsi giorni. Sui risvolti sociali del fallimento di Jam Session e sulle similitudini con il caso Parmalat, La Repubblica di Parma offre una copertura completa e aggiornata quotidianamente. Sull’eccessivo peso dato al ruolo del giovane imprenditore nel riscatto della moda italiana hanno scritto in tanti, citando spesso il profilo che ancora oggi appare su ItalTrade, il «Made in Italy Official Portal» gestito dall’Istituto Nazionale per il Commercio Estero.

L’unica cosa che si può aggiungere, con discreta amarezza, è una riflessione sugli aspetti critici che la vicenda Guru ha evidenziato nel più ampio contesto del commercio internazionale di abiti di moda. Come già avviene per i prodotti alimentari più pregiati, è indubbio il testa a testa in corso da anni tra Italia e Francia: due vere e proprie potenze del settore, che tengono alto buon nome e affari dell’Europa, Euro forte permettendo. Eppure, il caso Guru non è isolato e non è isolato nemmeno il continuo declino dell’Italia a favore della Francia anche nell’alta moda. Perché?

Per il banale motivo che il Made in France è riuscito a conservare davvero la sua essenza: è davvero fatto-in-Francia. Prendiamo un esempio celebre: la borsa Birkin di Hermès. Cosa vi ricorda? Il prezzo alto? L’alta qualità dei materiali? L’esclusività? La produzione artigianale? Una cosa è certa: non può non far assaporare la sua profonda essenza europea, il suo essere un concentrato di stile e genialità tutta francese, il suo essere un prodotto che “merita” un premium price. Cosa che, bisogna dire, molto difficilmente può essere affermata per molte case di moda italiane, di tutti i livelli.

Le maison italiane, infatti, hanno brillantemente delocalizzato in Estremo Oriente la produzione. Pensando in maniera geniale «Se lo fa la Nike possiamo farlo anche noi!» ed esponendosi, perciò, agli stessi problemi dei marchi internazionali: mega contraffazioni, media qualità reale, bassa qualità percepita. Di italiano, si dice, è rimasto il design e il marketing. Il che, con tutto l’amore che si possa avere per le marche più prestigiose del nostro Paese, è veramente poco: quando l’immagine svanisce, purtroppo, rimangono i debiti. Ed i creditori di Jam Session, ora, non sono più di buon umore.

La TV interattiva da Quizzy agli UGC

Luca Sofri pubblica un articolo cattivissimo sulla nascita di Rai4 ed in Rete parte il dibattito in merito all’idea di “televisione interattiva” che ha permeato il lancio ufficiale del nuovo canale. Niente di particolarmente innovativo, a dire il vero: Freccero pensa di lanciare una rete “per i giovani” e gli vengono in mente gli User generated contents. Pensa di proporli in salse diverse, anche se sembra finisca a fare una QOOB meno attraente sul target di destinazione.

Il primo autore illustre a cogliere la palla al balzo è stato Michele Boroni, che ha crudelmente riportato alla nostra mente un ricordo che avevamo rimosso: si tratta del Quizzy, l’oggetto dei desideri televisivi di molti dei bambini di inizio anni Novanta. Per chi non lo ricordasse: era un gadget lanciato come “telecomando interattivo”, capace di interagire con i quiz delle reti Fininvest direttamente da casa. Il telespettatore giochicchiava coi tasti in locale, poi trasmetteva telefonicamente i propri dati via telefono ad un numero 144, sperando in premi che, a quanto si è saputo successivamente, erano abbastanza immaginari.

Al di là dell’aggeggio semi-truffaldino, però, la storia di Quizzy vale soprattutto come metafora della voglia di interattività che ormai da un paio di decenni le reti televisive europee cercano di sfruttare a proprio favore. Che si tratti di mettere lo spettatore dietro la telecamera in stile YouTube o che si aspettino ansiosamente gli SMS premium dei televoti, il messaggio è chiaro: pur con risultati frequentemente scarsi, si cerca di rispondere al crollo degli spettatori mettendo gli spettatori stessi al centro della scena.

Idea che, tutto sommato, si trovava anche nelle bellicose dichiarazioni di Mike Bongiorno ai tempi del lancio del Quizzy: le motivazioni per cui la televisione dovrebbe essere interattive sono oggi quelle le stesse di allora, ma le innovazioni continuano a languire. Al lancio del Quizzy, il popolare presentatore si lanciò addirittura nel celebrare l’assimilabilità dell’interattività televisiva con quella del voto elettorale, allarmando sociologhi attenti come Omar Calabrese. La tecnologia non ha assecondato quella similitudine tra televisore ed urna elettorale: la politica, invece, sì.

Una posizione eretica sui prezzi dell’iPhone in Europa

L’iPhone, in Europa, non è così caro come sembra. Detta così suona come un’affermazione piuttosto forte rispetto alla reazione che i blogger europei hanno avuto davanti ai costi del nuovo terminale 3G della Apple. La condanna è infatti unanime, in Italia come all’estero: un prezzo dei terminali che mediamente si pone sui 500 Euro (considerando un prezzo medio tra la versione a 8 GB e quella a 16 GB) viene ritenuto un freno insopportabile alla diffusione dello strumento.

Le statistiche degli Operatori mobili, a quanto si dice nell’ambiente TLC, dimostrano l’infondatezza del teorema: le vendite sono alle stelle, soprattutto per il modello a 16 GB. Cosa peraltro del tutto prevedibile: il terminale si aspettava in Europa da ormai un anno e i più smart hanno preferito attendere una versione localizzata e tecnologicamente molto più avanzata della precedente, piuttosto che supplicare gli amici in visita negli Stati Uniti di stivare la versione originale nei propri bagagli.

Si può comprendere il disappunto degli Europei nello scoprire che un terminale che dall’altra parte dell’Atlantico viene venduto a 199 Dollari, varcato l’Oceano inizi a costare fino a 4 volte l’originale, ma questa è una situazione ormai vecchia che, purtroppo, con il crollo del Dollaro si è paradossalmente acuita, grazie alla gestione dei prezzi da parte delle aziende di elettronica di consumo che, in questo modo, recuperano in Europa i ricavi perduti altrove vendendo sottocosto.

Non si capisce, al contrario, la reazione in valore assoluto rispetto al prezzo dell’iPhone: si tratta di uno smartphone paragonabile a molti altri sul mercato, che paradossalmente presentano spesso prezzi decisamente superiori. Forse dimentichiamo il prezzo al debutto dei Nokia di fascia alta o della maggior parte dei modelli HTC: bei terminali, che hanno qualche funzione in più e qualcuna in meno dell’iPhone, ma che appena arrivati sul mercato hanno prezzi per il cliente finale decisamente alti.

Si sente spesso dire che l’iPhone vorrebbe rappresentare al tempo stesso un terminale di alto livello, ma anche la connettività in movimento per i neofiti; che dovrebbe essere una piattaforma solida per un uso business, ma anche l’evoluzione multimediale del cellulare come lo abbiamo sempre conosciuto. Si sente dire di tutto, persino che sia usato in Paesi come l’Italia come specchietto per le allodole da parte degli operatori mobili alle prese con un mercato che non tira più come un tempo.

L’unica cosa che non si dice è che l’iPhone 3G non è un handset per tutti, così come un prototipo di un’auto da corsa non è un prodotto per le masse: i suoi emuli, probabilmente, lo saranno. Non siamo più ai tempi del claudicante iPhone prima maniera: l’iPhone 3G riesce davvero a restituire una nuova mobilità, che l’Edge del suo antenato non poteva garantire. Più maneggevole di un UmPC e più affidabile di un palmare simil-Palm, l’iPhone ha un prezzo ragionevole per ciò che è davvero: un PC da tasca.

La coda lunga in pizzeria

Una pizza a Bergamo? Sicuramente dai fratelli Nasti: due pizzerie, entrambe nel centro di Bergamo bassa, ben conosciute dagli abitanti del luogo per la qualità delle pizze (i gestori hanno origini partenopee) e soprattutto per l’ampia scelta. Entrambi i locali offrono più di 250 variazioni sul tema: si va dalle più classiche a quelle ricche di gorgonzola, da quelle di mare a quelle più americaneggianti, dalle bergamasche a quelle per vegetariani. Il tutto, declinato in diverse opzioni: ogni pizza può essere prodotta in formato gigante, oppure con farina di soia o farina integrale. Le combinazioni possibili, perciò, ammontano a ben oltre il migliaio.

Come avvengono le ordinazioni? I clienti sfogliano nervosamente le 12 (!) pagine di pizze sul menu, individuando il numerino sulla sinistra che identifica il “modello” di pizza. Si confrontano con i commensali, ironizzano sulla quantità eccessiva di pizze e poi aspettano il cameriere. Poi questi arriva e si sente chiedere, nella stragrande maggioranza dei casi, una Margherita. Così: basic, formato e farina standard. Qualcuno azzarda qualche ingrediente da aggiungervi e il cameriere segna pazientemente sul terminale l’ordinazione di una Margherita “arricchita” che, probabilmente, nella maggior parte dei casi in realtà è già compresa nelle 12 pagine.

Capita così di ordinare una pizza poche decine di minuti dopo aver letto il bel post su [mini]marketing a proposito della coda lunga e di sorridere al pensiero di Chris Anderson ospite di Nasti. Lo si immagina ordinare una pizza con tanto di ananas sopra, mentre paragona l’esperienza ad un acquisto su Amazon, esaltando l’ampia scelta delle pacchettizzazioni disponibili. Si concorda con lui che, senza l’ampia scelta, la pizzeria (o il bookstore virtuale, che è lo stesso), non riuscirebbe nemmeno ad attrarre un flusso di visitatori paragonabili: in un mondo così omogeneo, è bello poter scegliere in un catalogo sterminato di pizze (o di libri, o di DVD).

Poi, però, è il caso di far notare a Mr. Anderson che le critiche dell’Harvard Business Review non sono così campate in aria. Mentre la pizza inizia ad andargli giù di traverso, forse è anche opportuno infierire facendogli notare che sono i blockbuster alla fine a fare la voce grossa persino in pizzeria e che i clienti non sono poi così interessati a vagliare tutte le opzioni di scelta a catalogo: sono esseri a razionalità limitata che, semmai, vogliono avere una pizza (o un saggio, o un romanzo) tailor made, che solo per puro caso si avvicini a quella del menu prestabilito. Non ci si meravigli del successo di Philip M. Parker su Amazon: lui sì che fa un servizio di nicchia.

Nel resto della vita reale, invece, i cataloghi di nicchia continuano a contare quanto il due picche. Persino i concessionari d’auto ormai hanno imparato la tecnica: non esistono modelli “preconfezionati” veramente interessanti per i clienti esigenti, tanto vale proporre loro il modello base con una serie ampia di optional. Ha senso avere migliaia di suonerie disponibili se si è un gestore di mobile VAS, ma è masochistico sopportare i costi di magazzino e di marketing di migliaia di oggetti fisici. L’Ikea insegna: meglio una struttura portante e 100 accessori per personalizzare il proprio armadio. Sarà poi compito del marketing accompagnare nella scelta il cliente.

TamTamy, il social networking all’italiana

A volte fa piacere poter parlare bene del lavoro di amici: si è consci di essere un po’ di parte, ma se si prova a mantenere un minimo di obiettività, si può riuscire a scrivere post informativi e non inni fini a sé stessi. Obiettivo, questo, che anche queste righe vorrebbero avere: spiegare a chi non la conoscesse cos’è TamTamy e perché questa piattaforma italiana è un piccolo orgoglio nazionale.

A dire il vero, Pino Fondati su Il Sole 24 Ore, la scorsa settimana, ha già riepilogato bene le coordinate di TamTamy: si tratta di una piattaforma prodotta da Reply per offrire a privati, piccole e grandi aziende una serie di strumenti tecnologici 2.0 integrati in un unico contesto. Basta immaginare WordPress MU mescolato con forum, wiki, chat e ricoperto da uno strato user-friendly che permette di utilizzare i vari strumenti in maniera “lineare”.

TamTamy è gratuitamente testabile, in versione Alpha, da parte di chi volesse avviare un proprio social network. Aziende, club e anche gruppi di amici possono interagire tramite una piattaforma abbastanza versatile, sfruttandone tutti o alcuni degli strumenti disponibili: si tratta di un progetto del tutto italiano, anche se il lancio internazionale degli scorsi mesi ha fatto sì che l’interfaccia attuale sia in lingua inglese.

Gli iscritti di questa versione Alpha che hanno avviato un proprio network sembrano già essere diversi e sorge una certa curiosità su quale sia il feedback dei “pionieri”. Al contrario, è noto che chi ha vissuto TamTamy nella sua prima installazione, quella di Intranet Reply, ha un buon ricordo fatto di persone, storie e dialoghi, prima ancora che di tecnologia.

Per quanto paradossale, più una tecnologia riesce ad essere invisibile all’utente finale, più ha la possibilità di venire adottata in maniera “naturale” anche da chi non ha particolari competenze tecniche. TamTamy gode di questo paradosso, visto che riesca ad agire silenziosa in sottofondo offrendo strumenti diversi in maniera discreta, non oppressiva: usi solo ciò che ti serve.

Ci sono spazi di miglioramento, come per tutte le piattaforme in Alpha. La possibilità di giocare sull’asse “contenuto pubblico vs. contenuto privato”, ad esempio, permetterebbe probabilmente di superare in scioltezza soluzioni similari, non relegando TamTamy a puro strumento di comunicazione interna; l’integrazione di un CMS leggero permetterebbe di creare tumblelog ed altri spazi di condivisione “veloci”.

Qualunque siano le dimensioni di sviluppo, comunque, massimo rispetto per il TamTamy Team, che una volta tanto ci fa sentire orgogliosi della professionalità italiana anche quando si parla di tecnologia. Cosa affatto scontata, per chi è capitato agli eventi Web 2.0 in Stati Uniti e Germania dove Reply era presente come sponsor: una piccola isola tricolore in un tripudio di stelle e strisce.

La TV italiana di fine 2008: cosa aspettarsi

Nelle ultime settimane TVBlog ha illustrato i prossimi palinsesti autunno-inverno. Con la consueta attenzione per i dettagli, gli autori del blog televisivo più famoso d’Italia sono riusciti a trasmettere ad un ampio pubblico ciò che un tempo era destinato agli addetti ai lavori: i risultati degli incontri tra investitori pubblicitari, concessionarie pubblicitarie ed editori televivi nazionali, frammezzati da aggiornamenti sull’involuzione in corso in casa La7 e da interviste ai protagonisti dell’industria televisiva.

Prendiamo, ad esempio, quella a Carlo Bixio, patron di Publispei, alias una delle case di produzione nostrane più quotate sul panorama europeo della fiction. Dall’alto del successo di serie come Un medico in famiglia o I Cesaroni, Bixio riesce a tracciare in poche parole la dinamica più importante dello scenario competitivo: Sky ruba spettatori giovani a Mediaset, Mediaset deve iniziare a rubare un po’ del pubblico Rai per continuare a garantire un numero sufficiente di eyeballs ai suoi investitori.

Su questo sfondo si muoveranno i personaggi più celebri del piccolo schermo: vecchie glorie riesumate e scalpitanti primedonne contemporanee insieme per affrontare il grande spauracchio collettivo, cioè la fuga del pubblico dalla televisione e dalle reti generaliste in particolare. Fuga prevista, tra l’altro, da parte dei target più ambiti dai pubblicitari, cioè coloro che proprio in base al maggiore potere d’acquisto possono acquistare contenuti televisivi a pagamento o ricorrere a forme di intrattenimento diverse.

Non si può non leggere in quest’ottica, d’altronde, la saggia idea di Mediaset di puntare con decisione sugli investimenti del digitale terrestre a pagamento: sulla lunga distanza, 100.000 spettatori di un canale a pagamento contano molto di più di un risultato magari 30 volte maggiore (ma tendenzialmente insignificante) sulle TV generaliste. La nascita di Digitalia ’08 accanto all’ingombrante sorella maggiore Pubblitalia ’80, d’altronde, dimostra come per le reti del futuro i canali a valore aggiunto possano rappresentare il mix perfetto di introiti da abbonamenti e da flussi pubblicitari.

Ma se i contenuti più pregiati migrano su questi canali, cosa rimane alle reti formato famiglia? Sicuramente, fiction a volontà: non esiste palinsesto autunno-inverno che non ricorra ampiamente a questo tipo di programma, sia esso prodotto di importazione (vedi Rai Due e Italia Uno) o prodotto direttamente dalla reti più importanti (Rai Uno in primis), che poi possono trasmettere a ripetizione gli episodi dei polpettoni nazional-popolari di maggior successo.

L’altro ingrediente di cui gli Italiani godranno (?) in maniera diffusa saranno i varietà, declinati nelle più ampie tipologie: un po’ meno reality show del passato, un po’ più di trasmissioni strappa-lacrime in cui puntare dritti al cuore del target maturo che rimarrà davanti alla TV nelle fredde notti di fine 2008. Maria De Filippi a tutte le ore, ma anche Raffaella Carrà recuperata dal sarcofago delle star in disuso, mixate con i personaggi in fuga da La7: si parla di un sacrificatissimo Chiambretti in versione Affari Tuoi, ma anche di una Bignardi in versione talk show in Rai.

Nulla di clamorosamente nuovo sotto il sole, insomma: tante edizioni nuove di programmi vecchi, magari di decenni (alzi la mano chi non pensa a Striscia la Notizia). Sarà un altro periodo di garanzia che, senza troppe pretese, permetterà ai broadcaster di scivolare velocemente verso la tanto attesa migrazione totale al digitale terrestre, unico piccolo-grande evento che toccherà davvero in profondità il mercato televisivo nostrano: fino ad allora, tanta sonnolenza in prima serata. Gratis.