Corporate blog, corporate noia

Difficile stupirsi dei risultati della ricerca di Forrester Research che etichetta come “noiosi” i siti di 90 tra le principali multinazionali, con particolare attenzione all’uso disastroso dei corporate blog ed al loro notevole disinteresse presso l’utenza. Merito probabilmente anche del materiale utilizzato: per il 56% del campione, comunicati stampa.

L’eterno punto aperto è che non esiste un reale motivo per cui clienti e prospect dell’azienda possano realmente interessarsi alle sue sorti al punto da diventare lettori fedeli del suo blog istituzionale o di quello di un top manager che illustra le strategie aziendali tenendo in mente il target degli investitori e ovviamente si fa scrivere i post da terzi.

Che quello aziendale sia un mondo noioso è un’osservazione frequente; che non si riesca ad avere ogni giorno un nuovo prodotto o un nuovo servizio da comunicare, a meno di essere Google, è un fatto incontestabile. Di fatto, le aziende riescono ad attrarre l’attenzione degli stakeholders solo quando succede qualcosa di brutto, con tanto di Streisand effect.

Quando Aaron Uhrmacher su Mashable ha provato a suggerire argomenti affascinanti per i corporate blog, è riuscito a ritagliare le sue proposte su aziende giovani, dinamiche e possibilmente del mercato ICT. Poco o nulla degli spunti è davvero applicabile alle aziende europee, di qualsiasi dimensione: che possono farci, se sono così noiose non è colpa loro. O forse sì?

Eluana Englaro, Enrico Mentana, il Grande Fratello

La morte di Eluana Englaro addolora o rasserena: a seconda della propria posizione etica su eutanasia e stato vegetativo, è dificile non “schierarsi” su tempi e modi della vicenda. Lo abbiamo fatto tutti noi, al di là della professione esercitata e dell’esperienza nel campo: lo hanno fatto anche i giornalisti, che di questa storia ci hanno parlato in abbondanza.

Più di una voce obietta che questa copertura sia stata eccessiva. Alcuni pongono l’accento sui vari media confrontandone comportamenti e livelli di approfondimento, altri evidenziano l’imbarazzante livello di spettacolarizzazione che una vicenda tutto sommato privata ha assunto. Qualche giornalista forse è andato oltre, soprattutto in televisione.

Quando Enrico Mentana ha presentato le proprie dimissioni ai manager Mediaset, ormai le polemiche avevano cambiato natura: dal ruolo dei giornalisti nella vicenda alla reazione dei media al decesso. Mentana è diventato il paladino del silenzio rispettoso vs. chi ha voluto mettere in onda i vari Grande Fratello e X-Factor poche ore dopo la notizia.

I risultati del Grande Fratello, in qualche modo, sembrano avergli dato torto. La massa non ha il suo stesso senso etico e forse, memore della super-copertura giornalistica dei giorni precedenti, ha abbandonato il cadavere dell’Englaro al suo destino e si è concentrata sui “drammi” di Cinecittà. Più che l’etica, poté l’assuefazione. Più della morte, lo spettacolo.

La vittoria del business casual

Se c’è una cosa davvero sciocca nel mondo aziendale è il dress code formale che accompagna in tutte le stagioni i manager in diversi Paesi del mondo. Giacche e cravatte combinate in maniera differente, ma con lo stesso risultato stantio di sempre. Uomini frustrati che vagano da una riunione all’altra osservando colleghe elegantissime eppure senza tailleur.

Si tratta soprattutto di un vizio europeo e italiano in particolare. Ci sentiamo in dovere di esportare eleganza con lo stesso tatto con cui gli Stati Uniti esportano la democrazia. Quando un manager illuminato come Paolo Scaroni un paio di anni fa impose (!) il business casual ai dipendenti ENI almeno durante l’estate, furono più le critiche che i complimenti ricevuti.

Negli Stati Uniti, tuttavia, le cose vanno diversamente da tempo. Persino nell’era dell’abbonatissima Presidenza Bush Jr., un’interessante ricerca Gallup è riuscia a dimostrare una crescita sostenuta del business casual rispetto ad un sempre più marginale uso del classico abbigliamento formale: la differenza è nell’ordine di 43% verso 9% del panel.

Non si pensi che reddito e posizione influenzino sensibilmente le classifiche: la stessa ricerca arriva a notare come abbigliamento formale e business casual crescano entrambi una volta superata la soglia dei 50.000 $ di reddito. E non è nemmeno una questione di stile: è noto come gli Statunitensi si vestano eleganti ai funerali, ma poi li vivano come un party.

La speranza è insomma che anche in Europa si inizi a vivere più serenamente la vita in ufficio. Se persino Barack Obama toglie la giacca nello Studio Ovale, noialtri che continuiamo a voler comunicare il nostro presunto “status” a botte di cravatte firmate potremmo anche fermarci per una serena riflessione su quanto siamo ridicoli, riunione dopo riunione.

Europeana, simbolo delle grandi sfide culturali contemporanee

Sala gremita, auditorium universitario di una grande città: il docente che sta esponendo le sue slide ad un certo punto cita Europeana. Con la coda dell’occhio nota il viso perplesso di uno studente e gli sorge un dubbio. Si interrompe e chiede a tutta la platea, formata da docenti e studenti, quanti conoscano Europeana. Qualche docente bofonchia, solo uno studente annuisce.

Ci sarebbe da scommettere che lo studente conoscerà Europeana più per le difficoltà incontrate al tempo del rilascio lo scorso novembre che per un effettivo utilizzo in prima persona della piattaforma a fini di ricerca e approfondimento. Eppure, Europeana sembrerebbe fatta apposta per accompagnare studenti e docenti nella conoscenza della cultura europea.

Il progetto è infatti ambizioso: Europeana vuole censire e condividere fino a 10 milioni di opere culturali e artistiche prodotte nel corso dei secoli nei vari Stati dell’Unione Europea. Una volta risolti i problemi tecnici legati all’eccessiva curiosità dei cittadini ai tempi dell’annuncio, dovrebbero già essere consultabili oltre 2 milioni di opere, a titolo completamente gratuito.

Europeana è diversa da Google Book Search e da Wikipedia: si tratta di un progetto internazionale senza scopo di lucro (ciò la differenzia dall’iniziativa di Google e dai vecchi tentativi di Microsoft) ed è seguito da un gruppo di professionisti (ed in questo diverge dalla seconda). Una sfida enorme, che ben rappresenta opportunità e difficoltà di questo tipo di progetti.

L’Unione Europea sembra aver deciso di accettarla, insieme ad altri investimenti culturali finalizzati alla condivisione dell’enorme patrimonio proprio di questo Continente. La preoccupazione è che, spaventati dai risultati di pubblico prevedibilmente marginali, i gestori della piattaforma possano desistere dal portarla avanti. Costa solo 2 milioni di Euro annui, vale la pena.