Una nuova occhiata al .commEurope Zeitgeist

Ad inizio 2008 avevamo dato una scorsa ai dati statistici sugli accessi a .commEurope tramite motori di ricerca, rilevati con Google Analytics. I dati, pubblicati sullo .commEurope Zeitgeist, nel tempo sono stati periodicamente aggiornati e mantenuti in ordine con le consuete modalità di rappresentazione: 100 @ per la chiave di ricerca più utilizzata nel periodo di analisi e giù a scendere per le altre chiavi più usate.

In considerazione del fatto che tra poco si chiuderà il secondo anno di monitoraggio delle statistiche, possiamo ora propore qualche considerazione sull’evoluzione delle ricerche nel tempo e rispetto ai contenuti di questo blog, che è stato mantenuto tendenzialmente aggiornato. Come sempre, ci saranno alcune tematiche la cui rilevanza perdura nel tempo e altre più legate ai personaggi, alle mode e agli avvenimenti del periodo.

Nel primo campo rientrano sicuramente le ricerche afferenti al dominio Teorema Tour – Avitour – TodoMondo. Tutto deriva da un articolo su TodoMondo del 2005, sul quale ormai da anni si avvicendano discussioni infinite (siamo ormai oltre i 140 commenti) su presunti fallimenti, viaggi da sogno a prezzi bassi, bancarotte del tour operator e altre tematiche affini; una specie di forum auto-creatosi nei commenti di un vecchio post.

Nel secondo tipo di ricerche emergono invece spunti legati all’attualità: periodicamente (ed ovviamente non è difficile vederlo con forza in queste settimane), ad esempio, torna in auge la chiave “simboli elettorali”, grazie ad un articolo di marzo 2008. Nel nostro Paese però l’attualità è sempre più monotona ed i temi sempre più simili nel tempo e così anche queste ricerche si stratificano nel tempo, finendo anch’esse nella Top20.

Questi fenomeni riguardano sia le aziende, sia i personaggi. C’è un nucleo ogni giorno nuovo di navigatori accomunato dal ricercare informazioni sull’apertura di KFC in Italia e uno formato da coloro che continuano a volerne sapere di più su Eleonora Berlusconi o su Gianfranco De Laurentiis, ricorrendo ad articoli del 2004. La sensazione comune è che si cerchino sopratutto informazioni e contenuti difficili da trovare in siti ufficiali.

Se ad esempio il sito ufficiale di Muji fosse meglio organizzato e indicizzato sui motori di ricerca, non ci sarebbe bisogno di arrivare su .commEurope; se Milena Gabanelli avesse chiuso una volta per tutte la querelle con Paolo Barnard, non ci sarebbero più decine di visite mensili ad articoli vecchi di oltre un anno; se UniCredit avesse gestito con meno fretta il merge con Capitalia, si approderebbe sul sito ufficiale invece che su questo blog.

L’indicazione, insomma, sembra essere unica: che siate Eleonora Berlusconi o un manager di Avitour, che siate Milena Gabanelli o il product manager di Barilla Alixir (altro tormentone su .commEurope), forse fareste bene a comunicare di più (e meglio) in Rete. Altrimenti chi è interessato a voi (fan, clienti, prospect o anche nemici) continuerà a planare in Rete in articoli magari vecchi, magari negativi, sicuramente fuori controllo.

Viva le donne manager

Si tratta di un bel ritorno positivo alla propria immagine pubblica, quello che Microsoft, Ikea, Unicredit, Luxottica, Astra Zeneca, Fiat, Intesa SanPaolo e diverse altre aziende nazionali e branch italiane di multinazionali, sotto la guida sapiente di McKinsey & Company, hanno ottenuto dall’ampia pubblicizzazione ricevuta dall’iniziativa Valore D – Donne al Vertice per l’Azienda di Domani.

Si tratta di una serie di iniziative di formazione declinate esclusivamente al femminile, nate con l’intento di migliorare, in termini quantitativi e qualitativi, la presenza delle donne nelle posizioni di middle e top management delle grandi aziende. I dati della ricerca presentata in occasione dell’inaugurazione parlano chiaro: ROE e EBIT crescono vertiginosamente nelle aziende “multigender”.

Che le donne siano generalmente più brave e preparate degli uomini è cosa nota a chi si occupa profesionalmente di Risorse Umane. Ciò che è altrettanto lampante, però, è il senso di inadeguatezza e passività che molte manifestano, forse costrette da ruoli maschili predominanti e orari stupidamente declinati all’infinito, senza rispetto per le famiglie. Cosa che, alle donne, non piace per definizione.

L’obiettivo di questa iniziativa, oltre ovviamente a quello di migliorare l’immagine pubblica delle aziende promotrici, è quello di affidare alle Risorse di genere femminile ad alto potenziale strumenti e ruoli in azienda con cui dimostrare le proprie capacità e quindi, come ha scritto qualche tempo fa Roger Abravanel, diventare l’antidoto per sopravvivere in questi momenti di terribile crisi economica.

Dal punto di vista delle aziende, sarà necessario accompagnare questa nobile iniziativa con attività di comunicazione interna che facciano cogliere il potenziale dell’iniziativa come miglioramento per l’intera società, piuttosto che come minaccia per gli uomini arroccati da tempo nelle posizioni chiave. Si tratta di una sfida importante, che le grandi aziende coinvolte nell’iniziativa possono e devono affrontare.

Crolla Google, crolla la Rete

L’incidente di percorso occorso a Google qualche giorno fa, consistente nell’irraggiungibilità di un paio d’ore dei suoi servizi, ha spinto molti esperti di tecnologia a rendersi conto di ciò che i loro colleghi che si occupano di business sottolineano da tempo: Google è il centro della Rete ed un suo problema, tecnico o commerciale che sia, rischia di travolgere seriamente tutto il resto degli attori.

Sul ruolo crescente di Google come monopolista della Rete si discute d’altronde da molto tempo: proprio l’affetto che molti di noi nutrono nei confronti della Big G ci fa da un lato annotare con preoccupazione il suo rendersi ogni giorno più arrogante, dall’altro sottolineare che, tra servizi lanciati in proprio e acquisizioni di startup, ha sbagliato pochi colpi e pertanto il ruolo di traino della Rete è meritato.

Cadono i server di Google? Spariscono i blog ospitati da Blogger, ma anche gli spazi pubblicitari che magari sostengono la nostra attività in Rete. I nostri siti privati che usano Google Analytics fanno fatica a caricare, la nostra posta (magari anche professionale) su Gmail è ferma. Si stoppa la Rete, rallenta la nostra vita privata e rischia di fermarsi anche il lavoro. E tutto per il problema di un’azienda.

Un anno fa era successo qualcosa di simile ad Amazon e questo aveva evidenziato la criticità nell’uso di servizi di cloud computing in ambito aziendale. Ora leggiamo delle enormi server farm di Facebook e ci domandiamo quanto possano essere sterminate quelle di Google e quanti problemi la nostra azienda potrebbe rischiare qualora scegliesse di gestire on the cloud le applicazioni in quegli stabilimenti.

Si tratta di un problema di urgente attualità e di difficile soluzione. Noi ci fidiamo ciecamente di Google e degli altri grandi fornitori globali, ma nulla può assicurarci davvero che, per quanto i loro servizi siano il meglio sul mercato e generalmente affidabili, tutta l’economia mondiale possa girare sui loro server. Eppure, ci stiamo arrivando, nemmeno troppo lentamente: che Dio sia clemente con i loro datacenter.

Giornalisti, blogger e redattori di Wikipedia

Metà dei quotidiani al mondo hanno ironizzato sul fatto che l’altra metà abbia ripreso, senza nessuna verifica, una citazione errata da Wikipedia inserita appositamente da uno studente dublinese per evidenziare a tutto il mondo esattamente il tranello in cui i giornali sono caduti ed in cui, in effetti, cadono con preoccupante frequenza. Molti blogger hanno così iniziato a dubitare della qualità delle voci di Wikipedia, rischiando il tipico fenomeno del bambino gettato via con l’acqua sporca.

Il circolo vizioso è auto-evidente: un redattore qualsiasi, magari un anonimo in malafede, inserisce un contenuto falso o comunque non documentato su Wikipedia su una voce che, qualche tempo dopo, risulterà particolarmente di attualità. In quel momento la voce verrà consultata da milioni di lettori in tutto il mondo, blogger e giornalisti compresi. Questi ultimi lo riprenderanno sui propri articoli e presto un altro redattore citerà quegli articoli come fonti “attendibili” su Wikipedia stessa.

Un vero e proprio circuito, che permette ai blogger di lanciarsi in invettive contro i giornalisti. Il problema riscontrato è nella scarsa fiducia che i giornalisti hanno in sé stessi e la loro dimestichezza con ricrca e verifica delle fonti. Preferiscono, stressati dai tempi e dalle gerarchie dei giornali contemporanei, confondersi con gli utenti “qualsiasi” della Rete, abbandonarsi alle placide consuetudini che, nel tempo, si sono sedimentate tra blogger ed altri cittadini di queste terre.

Un'immagine da toothpastefordinner.com ripresa da Enrica Garzilli sul suo tumblelogQuesto ha inevitabilmente ibridato i ruoli e spinto molti blogger a considerarsi di pari dignità o addirittura più attendibili dei giornalisti, ritenuti superati e inutili come i loro giornali. Posizione del tutto sciocca, che deriva da una colpa di fondo di entrambe le parti in causa: i giornalisti hanno peccato di faciloneria, i blogger hanno peccato di presunzione. Questo scenario ha messo in luce i redattori di Wikipedia come enti terzi ed eterei, superiori a tutto e tutti, seguaci del santo Neutral point of view e della correttezza delle fonti. Posizione che però cozza col fatto che non siano onniscenti e pertando che Wikipedia non vuole e non debba essere l’unica fonte attendibile su questa Terra.

Forse sarebbe il momento che tutti tornassimo a fare il nostro mestiere o, quantomeno, a inseguire i nostri interessi senza volerli a forza trasformare in un lavoro. I giornalisti dovrebbero riscoprire il fascino del proprio lavoro, i blogger dovrebbero divertirsi nel tenere i propri diari e i redattori di Wikipedia dovrebbero concentrarsi sulla qualità delle voci piuttosto che sulle rigidità burocratiche. Poi, ognuno di noi potrebbe svolgere le tre attività nel corso della propria vita. Mai nello stesso momento, però.

I limiti “umani” dei social network

Quando Buongiorno qualche settimana fa ha presentato il suo mobile social network Blinko, l’attenzione di astanti ed analisti si è focalizzata sul limite di 20 connessioni imposto di default ad ogni iscritto. Un po’ come al mercato delle mucche sono iniziate le discussioni del calibro: sono troppo pochi vs. sono pure troppi, è un numero arbitrario vs. ha un fondamento scientifico.

Il tema del numero di contatti sui social network appassiona da tempo i blogger, ma è ormai evidente a tutti che lo stesso mitologico numero di Dunbar è troppo esteso per essere sinonimo di un numero realistico di relazioni attive. Anche gli esperimenti effettuati da Facebook dimostrano che, in realtà, sui 120 contatti medi di ogni iscritto, i “seguiti” sono circa una decina.

“Seguire” qualcuno su un social network, d’altronde, richiede tempo ed energia. Permette spesso di ottenere informazioni quotidianamente utili o professionalmente interessanti, ma per la maggior parte ci regala aggiornamenti di vita quotidiana che, a meno che non si stia parlando di partner-amici-conoscenti-parenti, possono per la maggior parte sembrarci del tutto superflui.

Abbiamo aumentato i nostri flussi comunicativi in uscita e abbiamo cercato di ampliare le possibilità di ricezione di quelli altrui, ma il nostro tempo e la nostra capacità intellettiva sono rimasti gli stessi di sempre. Abbiamo più strumenti di interazione (e in questo il mobile ci sorprenderà sempre più), ma non sempre riusciamo a piegarli alle nostre esigenze ed ai nostri ritmi.

I social network sono bacini enormi e stiamo costruendo comunità virtuali, sempre più interagenti l’una con l’altra, che ruotano intorno a noi stessi ed alle nostre vite. Siamo affascinati e divertiti da ogni membro che vi aderisce, specie quando arriva dal nostro passato e inizia ad interagire con noi nel presente. Ma abbiamo un limite: non possiamo garantirgli che gli daremo attenzione in futuro.