Michael Jackson e il successo che uccide

La notizia della morte di Michael Jackson ha velocemente travolto prima la Rete e poi tutti i media. In poche ore è riemerso un pubblico di fan silenzioso da anni, composto da persone cresciute con l’idolo musicale Michael che spesso si sono sentite tradite dall’uomo Jackson. Ora che è morto, contribuiscono alla corsa generalizzata a riscoprire la musica, più che il personaggio discusso e discutibile. Si sa, in fin dei conti dei morti si parla sempre bene.

Michael Jackson è l’ultimo di una serie di personaggi che, dopo aver segnato interi periodi delle nostre vite, hanno subito nemesi feroci nelle vite private, culminate sempre nella morte. Personaggi quasi sempre legati al mondo dello spettacolo e nella maggior parte dei casi alla musica pop: in un certo senso, è l’ennesimo Elvis che si spegne travolto dagli scandali, l’ennesimo artista che ha raggiunto l’apice in età giovanile e gli inferi una volta diventato adulto.

Altri si sono tolti la vita, in maniera volontaria o involontariamente auto-indotta, prima di “scadere”. Si fa fatica a immaginare Kurt Cobain o James Dean da vecchi, si continua a venerarli come icone di giovinezze turbinose ma avvincenti. Persone che hanno cercato di vivere a doppia velocità lontano dai riflettori, ma che hanno scoperto la durezza omologante dei ritmi delle stagioni e della vita quotidiana, solo in parte sostituibili dalla ricchezza e dalla fama.

Jackson non c’è più, stroncato da un successo cui non è riuscito a sopravvivere. Di lui rimaranno sterminate pagine di Wikipedia che, in maniera un po’ imperfetta come avviene in questi giorni post mortem, proveranno a raccontare la vita di una stella precipitata troppo dall’alto per non farsi male. Rimarranno i milioni di dischi disseminati nelle case di tutto il mondo. Rimarrà soprattutto un nome, perché di Michael Jackson, nella storia, non ce saranno altri.

L’arroganza televisiva trabocca nella realtà quotidiana

Video su YouTube: una concorrente di belle apparenze ad un quiz condotto da Gerry Scotti sciorina con sicumera i propri titoli accademici, comprensivi di un Dottorato di Ricerca. Il conduttore fa complimenti a ripetizione alla ragazza e propone la prima domanda. Com’è nello spirito del telequiz in quetione, Chi vuol essere milionario?, si tratta di una questione abbastanza sciocca: parte comunque il tempo ed il minimo di suspence dovuta ad ogni passo in questo tipo di trasmissioni. La giovane donna di Lecce risponde e Gerry Scotti sbianca: ha sbagliato ed in qualche modo il conduttore si sente in colpa.

Il video inizia a girare su YouTube insieme a tanti altri simili ed attrae numerosi commenti derivanti dallo sbilancio evidente tra la presentazione esaltata iniziale della concorrente e la figuraccia finale. Inizia ad apparire su un tumblelog e da qui si irradia progressivamente ad altri spazi su Tumblr, su FriendFeed, su Toluu e su Facebook. Cercando il nome della tizia su Google, la prima pagina di risultati contiene commenti sulla sua figuraccia, in mezzo a tracce sparse di sue omonime e accenni alla sua vita accademica. La signora d’altronde non ha un sito personale, né un blog, né un profilo su un social network.

Quando le parte la voglia di ribellarsi al pubblico ludibrio, la scelta cade sul profilo Facebook della sorella. Da lì inizia ad irradiare messaggi minacciosi a chiunque abbia in qualche modo linkato il video, ventilando il fatto che colui che lo aveva pubblicato su YouTube è corso a toglierlo una volta spaventato da una denuncia per diffamazione presentata a Carabinieri e Polizia Postale (così, per abbondare). I messaggi via Facebook contengono una serie di sciocchezze tecnologiche e legali e sono segno del fatto che qualcuno sta imbeccando la signora a farsi forte con chi l’ha pubblicamente criticata.

Tutti tolgono il video dai propri tumblelog e dai propri profili su social network, chi ha qualcosa da dire inizia delle flame war private con la signora, che continua a brandire azioni legali come un manganello. Non è difficile immaginare che nel giro di qualche giorno rimarrà giusto qualche traccia remota su Google, magari a pagina 35 dei risultati. Nelle nostre teste rimarrà comunque il ricordo di una che ha fatto una figuraccia davanti a milioni di spettatori, ma è preoccupata dal giudizio di una mezza dozzina di blogger che sottolineano il suo modo di fare tronfio, paragonandolo all’effettivo “successo” televisivo.

Lo stesso modo di fare che qualche giorno fa ci è sembrato di scorgere leggendo di tale Floriana Secondi, personaggio del Grande Fratello, che è finita sui giornali per aver prima avviato una rissa nel suo condominio, poi con le forze dell’ordine. Lo stesso modo di dire “Io sono stata in televisione e voi no”, lo stesso modo di preoccuparsi non per le proprie figuracce, ma per l’eco che esse hanno sui mezzi di comunicazione. La stessa arroganza nel voler negare gli avvenimenti, invece di preoccuparsi di non farli mai avvenire. Se vedrete scomparire questo articolo, la ricercatrice folle avrà di nuovo agitato la clava.

Torniamo a parlare di banda larga

Ogni due anni, di questi tempi, ricomincia il dibattito sulla banda larga. A metà luglio 2005, il Ministero dell’Innovazione strombazzava un intenso lavoro di diffusione della banda larga, soprattutto in scuole e strutture sanitarie. A metà maggio 2007, l’iniziativa “La fibra che ride” di Stefano Quintarelli aveva infiammato la Rete, lanciando il dibattito sull’importanza di non cedere alle lusinghe delle tecnologie xDsl al posto della fibra ottica. Oggi, a metà giugno 2009, l’ormai noto Rapporto Caio è stato ufficialmente presentato in Parlamento, con tanto di prese di posizione ufficiali del Governo sugli investimenti.

I temi sono sempre gli stessi: la penetrazione della fibra ottica in Italia negli ultimi cinque anni è rimasta sostanzialmente stabile in termini di abitazioni raggiunte e offerta commerciale. La crescita delle xDsl, come se non bastasse, ha fatto ulteriormente abbassare la percentuale di connessioni in fibra rispetto al totale di quelle definite “broadband” nel documento curato da Caio, che riprende dati OECD: 2,7% del totale. Un numero davvero ridicolo, anche perché tutti sanno che è tendenzialmente legato all’offerta di Fastweb presente in poche grandi città, con servizi ormai da anni uguali a sé stessi e sempre costosi.

Gli annunci di ieri parlano di investimenti per un miliardo e mezzo di Euro, per garantire una copertura fino a 20 Megabit per quasi il 96% degli Italiani, con copertura radio nelle zone in cui non è possibile arrivare con i cavi. Un’iniziativa che dovrebbe dare lavoro a decine di migliaia di persone e che riuscirebbe a coniugare investimenti pubblici infrastrutturali e sviluppo economico, con ritorni impressionanti sul PIL: 1,45 Euro per ogni Euro investito. Numeri piacevolmente impressionanti, che però hanno il sapore amaro della vittoria ad una partita che non verrà mai giocata. Anzi, forse nemmeno organizzata davvero.

La partita, d’altronde, doveva già averla chiusa da un pezzo Infratel, la società nata qualche anno fa in seno a Sviluppo Italia proprio con la missione di annullare il digital divide sul territorio nazionale. Iniziativa come al solito svanita nel nulla, così come purtroppo è realistico spariranno presto anche i fondi che, teoricamente, sarebbero già stati stanziati per questa nuova ondata di investimenti. L’unica speranza potrebbe essere rivolta agli operatori telefonici, ma è evidente a tutti che non sono esattamente immuni dalla crisi imperante. Ne riparliamo tra due anni, anche se ci sono seri dubbi che succederà davvero qualcosa.

Le Elezioni, la matita copiativa e i manifesti elettorali

Esistono decine di milioni di elettori che, in tutta Europa, oggi non potranno votare. Si tratta di quei cittadini che, in diversi Stati, si trovano lontano dalla città di residenza, ma comunque all’interno del proprio Paese. Per quanto paradossale, se fossero cittadini residenti all’Estero, il proprio Stato di origine garantirebbe loro la possibilità di voto tramite le proprie rappresentanze consolari. Al contrario, nulla viene loro garantito se non si impegnano, a spese proprie, a tornare alla città di origine appositamente per votare. In altre parole: uno studente campano che fa l’Università a Torino non voterà mai, ma suo cugino, i cui genitori sono emigrati in Canada decenni fa, sì.

Si tratta solo di una delle mille situazioni imbarazzanti che, ad ogni tornata elettorale, i cittadini italiani si trovano a scontare. Centinaia di milioni di Euro spesi ad ogni consultazione, per garantire agli elettori di esprimere le proprie preferenze secondo regole che, nella maggior parte dei casi, risalgono ancora al Testo Unico del febbraio 1948. Altre centinaia di milioni di Euro spesi in campagne elettorali estenuanti, fatte di santini elettorali, fac simile di schede, tribune elettorali in televisione e soprattutto di brutti e ingombranti cartelloni elettorali, abusivi o magari esposti per poche ore, giusto il tempo che qualche big spender copra i manifesti del concorrente, magari dello stesso partito.

Meraviglia che, nel furore rivoluzionario che ha contraddistinto questi mesi da Ministro, Brunetta non abbia pensato ad intervenire in qualche modo su questo argomento, se non altro attraverso un’adeguata moral suasion nei confronti del Ministro dell’Interno, che è il sacerdote quasi unico di queste messe che, ormai annualmente, vengono celebrate in Italia al debutto dell’estate. Messe antiquate, tenute in edifici pubblici fatiscenti presidiati da forze dell’ordine che sbadigliano e presidenti di seggio intenti a consegnare agli elettori le matite copiative. Nemmeno la consolazione della penna biro come in Francia e in Germania: figurarsi chi vuole pensare al voto elettronico.

Eppure, sarebbe ora. Si risparmierebbero fondi, si aumenterebbe la partecipazione degli elettori ma anche la sicurezza e la velocità delle operazioni. Si potrebbe permettere di votare via Internet, lasciando un piccolo numero di seggi sul territorio in cui ospitare totem dedicati a coloro che amano crogiolarsi nel digital divide. E invece no: per decenni, ancora, continueremo a tenere in ballo un carrozzone in cui comunicazione pubblica e comunicazione politica danno il loro peggio. In attesa del prossimo referendum, in cui qualche migliaio di cittadini coscienziosi vorrà a tutti i costi esprimere il proprio voto, sapendo a priori che il quorum, come al solito, non verrà nemmeno lontanamente raggiunto.