Logistica bizzarra e consumatori masochisti

Basta trotterellare per gli scaffali dei supermercati italiani per notare una quantità crescente di prodotti pronti, semi-pronti o “veloci da preparare”. La qualità è eterogenea, anche se mediamente alta, vista la crescente presenza di prodotti senza conservanti e comunque molto più differenziati di un tempo. Quello che sorprende, semmai, è l’origine degli alimenti stessi: non è infrequente trovare confezioni come quella di sotto, in un supermercato a 640 km dal luogo di produzione, quando l’alternativa italiana distava 45 km.

Due immagini da una confezione di Vellutata di carciofi di Gerusalemme Knorr

Nulla da eccepire sulla possibile qualità di questo o altri prodotti confezionati, cui va riconosciuto il merito di proporre ricette sempre più originali (chissà quante confezioni vendute ad appassionati di carciofi invece che di tuberi), per intercettare un pubblico sempre più evoluto, che a questo tipo di prodotti deve ricorrere perché magari presissimo da una vita professionalmente intensa. Il compito di molti di noi che si occupano di marketing e dintorni, peraltro, è convincer loro che si tratti della soluzione più adatta in tali occasioni.

Dove il marketing può far poco, è nei casi in cui l’unico driver di scelta del consumatore è il prezzo. Non c’è campagna di esaltazione del tubero che tenga quando allo scaffale dei costosissimi cibi semipronti del supermercato di quartiere non ci si arriva proprio e si punta dritto all’hard discount sotto casa per cercare magari un cibo più semplice e veloce da preparare, come può essere una mozzarella. Tra l’altro, in questo caso, l’occhio all’etichetta non cade, visto che in molti casi non c’è proprio, non essendo obbligatoria.

Il riferimento al formaggio del discount, ovviamente, deriva dalla storiaccia delle mozzarelle blu, che negli scorsi giorni ci ha colpito molto e spinto per l’ennesima volta a riflettere non solo sulle dinamiche un po’ bizzarre della logistica di cui sopra ma anche sulle scelte di acquisto dei consumatori come ha fatto Fiorenzo Sartore su Dissapore. Perché a tutti piace risparmiare qualche Euro, ma farlo sul cibo è da dementi: buona intossicazione a coloro che vogliono farsi del male, indipendentemente dalla provenienza dei cibi.

Pierluigi Diaco, arrogante di successo

Il successo iniziale di Pierluigi Diaco era legato al suo ruolo istituzionale di “giovane intellettuale”: veniva invitato in contesti in cui si destreggiava come una Susanna tra i vecchioni. Fossero trasmissioni televisive o radiofoniche, eventi politici o convegni imprenditoriali, Diaco portava la voce di una persona giovane ma, signora mia, veramente brillante. Un primo della classe appena uscito dalla scuola (apparve in TV a 17 anni), sempre pronto a parlare di musica, politica, economia e tendenzialmente di tutto lo scibile umano.

Il problema è che negli anni Diaco è invecchiato e non è riuscito a ritagliarsi un ruolo distintivo. Ha provato a buttarsi in politica, ottenendo solo irrisione e non consenso; ha cercato di interpretare a modo suo la professione di giornalista, su quotidiani di nicchia come Il Foglio o periodici di massa come Panorama; ha condotto trasmissioni eterogenee in televisione, finendo a litigare con gli ospiti. Nonostante questo altalenare tra auto-esaltazione e rischio-dimenticatoio, è comunque riuscito a guadagnare la stima di molti potenti.

Oggi Diaco conduce Unomattina Estate e per la prima volta ha l’opportunità di comunicare col grande pubblico di Rai Uno: ne approfitta fino in fondo e come ha notato Aldo Grasso è, in un certo senso, la sua consacrazione, il coronamento di un percorso di botte a destra e a sinistra, di ossequi verso i potenti di politica e show business. L’ex giovane sa della visibilità del suo nuovo ruolo e ne approfitta fino in fondo per comunicare ai telespettatori la sua visione del mondo, della vita, della società, della cultura.

I suoi siparietti acidi con Georgia Luzi ormai sono famosi, la sua arroganza fa rabbrividireil suo enciclopedismo stupisce chi non lo conosce e non di certo in positivo. Diaco sa di avere successo  su alcuni target, perché sa come interpretare in chiave populistica le sue occasioni di confronto con ogni microfono sotto tiro. In fin dei conti, Filippo Facci aveva già scritto tutto di lui quasi dieci anni fa, quando si temeva che Diaco ce l’avrebbe fatta davvero. Per ora non è andata così, speriamo continui a rendersi ridicolo ancora a lungo.

Mondiali di calcio e dicotomie quadriennali

Se c’è una cosa che infastidisce chi non è interessato allo sport, quanto e addirittura più dello sport stesso, è l’ossessione collettiva che gli eventi sportivi più noti fanno partire un anno sì e uno no: le Olimpiadi estive o invernali, ma soprattutto, gli Europei o i Mondiali di calcio, sono l’esempio perfetto.

Nel nostro continente i markettari attendono con ansia questi anni, solitamente pari, per ridisegnare un numero imbarazzante di campagne promozionali che ricordino, in modo diretto (diritti permettendo) o indiretto (un pallone o una bandiera nazionale non si negano a nessuno) l’Evento.

L’effetto sui non-sportofili, si diceva, è potente quanto e forse più di quello sugli appassionati: magari l’appello al tifo funziona con la Mapei di turno, ma diventa deleterio quando si cerca di puntare sui target che, ai festeggiamenti a notte fonda, preferirebbero passatempi magari meno popolari, ma molto più rilassanti in tempi di calura eccessiva.

In Italia come in Francia o in Germania, in queste settimane di Mondiali 2010, si creerà la consueta dicotomia quadriennale tra chi gode col frastuono delle trombette da stadio e chi aspetterà strenuamente che dal Sudafrica smettano le telecronache, che sui giornali si parli d’altro, che non spuntino più palloni su tutti i manifesti.

BP distrutta dal disastro del secolo

Fa quasi sorridere, alla luce delle magnifiche sorti dell’ecosistema Apple e del relativo rapporto coi DRM musicali, il baillame che sollevò l’infelice vicenda del rootkit Sony. Sembra del tutto minuscolo, il turbamento dell’opinione pubblica di un paio d’anni dopo, quando il mondo scoprì i pericolosi segreti di alcuni giocattoli Mattel. Desta ancora tristezza, ma in fin dei conti appare un caso isolato, l’imbarazzante caso del Carrefour accusato di essere nemico dei bimbi disabili. Si potrebbe andare avanti così, rileggendo oggi come ormai insignificanti molti dei casi di crisis management che avevano colpito gli esperti di relazioni pubbliche negli scorsi anni.

Il terribile disastro della Deepwater Horizon, infatti, oltre ad essere un danno gravissimo e del tutto imperdonabile per l’ambiente mondiale e per le popolazioni che ne subiranno gli effetti per decenni, sta segnando in maniera significativa un’intera generazione di professionisti del mondo della comunicazione. Da un lato, chi lavora nelle aziende, soprattutto quelle a vocazione più industriale, si rende conto che non ci può essere teoria che tenga, tecnica di legittimazione che risulti opportuna per un disastro di simili dimensioni; dall’altro lato, chi si occupa di informazione scopre di essere davanti ad un caso Bhopal ancora più strisciante, dalle conseguenze imprevedibili.

Oggi come allora, a distanza di tre decenni, il mondo trema per qualcosa che va oltre le discussioni ideologiche su inquinamento e fonti rinnovabili: è paura reale che si traduce in scia chimica, incapacità di gestire la complessità industriale e saperne gestire le ricadute in caso di pericolo. Non c’è PR che tenga, quando un dramma profondo assume proporzioni così rilevanti oltre che nell’immaginario, anche nella realtà quotidiana di migliaia di famiglie. Massimo rispetto per i dipendenti BP, per la maggior parte vittime più carnefici; tuttavia, la loro incapacità di gestire la tragedia, soprattutto dopo che è avvenuta, non può che rimanere impressa per sempre.

Le rielaborazioni del logo BP pubblicate su World Famous Design Junkies

L’immagine della storica Società è completamente distrutta. E questa non è una grande vittoria neppure per chi da sempre l’ha osteggiata, magari anche con azioni dimostrative clamorose, ma sempre da “nemico” chiaro nei suoi intenti. Nonostante l’ottimismo strisciante sul sito istituzionale della compagnia petrolifera abbiamo perso tutti e, come nota l’ormai noto @BPGlobalPR, piuttosto che cercare di mettere la polvere sotto il tappeto, è bene che BP mostri con chiarezza i risultati del suo operato ed investa tutto il possibile per riparare. Poi ci sarà il tempo di ricostruire un’immagine, magari puntando sulle energie alternative. Ma ci vorranno decenni, forse secoli.