Wind, i social network e la coerenza di Gruppo

Dopo quasi un mese di attività, il bilancio dell’attività del team di Wind Italia sui social network è moderatamente positivo. “Moderatamente” perché, come tutte le grandi aziende che si confrontano con la Rete, manca la sicurezza di sé maturata su altri canali: sembrano sempre elefanti nelle cristallerie; wannabe-delicati, ma elefanti. “Positivo” perché accettare la sfida, magari in partnership con un attore di peso come Ogilvy, vuol dire mostrare di voler gestire il rapporto con Prospect e Clienti in maniera innovativa, o quantomeno trasparente.

Chi ha iniziato questo esercizio sui social network ha ottenuto risultati altalenanti, ma spesso coerenti con l’immagine complessiva dell’azienda. Restando nel campo delle TelCo, fa un po’ sorridere (di tenerezza) lo sbattimento del team di Nòverca per far conoscere e apprezzare un brand del tutto sconosciuto al mondo pur attento a queste tematiche di chi frequenta i social network più evoluti; al contrario, è evidente che lo spirito e le modalità di interazione di 3 Italia sono pienamente coerenti con quelli propri del mezzo (e quindi efficaci).

C’è però una cosa che stona nello sbarco del Gruppo Wind sui social network ed è venuta fuori dopo pochi giorni dal debutto, durante una discussione su FriendFeed. Dopo aver risposto stoicamente alle stroncature dell’orrendo spot con Panariello (quello in cui lui dice qualcosa tipo “C’era proprio bisogno di buttar via tanti soldi per dei testimonial?”), il team si arena sulle lamentele feroci di un Cliente Infostrada: emerge che si sbatteranno per risolvere i problemi, ma che non sarebbe loro compito. Perché loro sono Wind, non Infostrada. Eh?

I cartelloni sulla convergenza fisso-mobile del Gruppo WindDopo aver passato un’estate a esaltare la solidità del Gruppo Wind con una campagna istituzionale finalmente adeguata agli standard di un’azienda con 20 milioni di Clienti, ma soprattutto in un momento in cui diverse città italiane sono piene di manifesti che esaltano la convergenza fisso-mobile come non avveniva dai tempi del lancio di Wind in Italia, quando finalmente il Gruppo può parlare direttamente con Clienti e Prospect, ci tiene a sottolineare che Wind e Infostrada sono due realtà diverse?

Il motivo è evidente: il budget per l’iniziativa sarà gestito da chi segue le attività Mobile del Gruppo e quindi anche la relativa organizzazione sarà strettamente legata a tale business unit. È un po’ come se il Gruppo Barilla apparisse con un proprio profilo istituzionale sui social network e poi si rifiutasse di rispondere alle domande sul Mulino Bianco. Come dite? Lo fanno tutti i grandi Gruppi? Può essere, ma non è una scusante.

La comunicazione aziendale non deve necessariamente seguire i ghirigori dell’organizzazione; anzi, deve riuscire a portarli a unità. Si possono fare scelte di relativa indipendenza tra marchi (restando nel paragone, può aver senso tenere distinti gli stili di comunicazione di Barilla e Voiello), ma se un’azienda sceglie la strada della convergenza e ne fa una missione aziendale, poi deve essere coerente in tutte le iniziative di marketing.

Nulla da biasimare a questa iniziativa di Wind in particolare, dunque, visto che la società da sempre ha sofferto di questa doppia anima nella comunicazione (e il cartellone in cui Fiorello sta ben lontano da Panariello e Incontrada sembra dimostrarlo, nonostante lo slogan sovrapposto): quello dei muri invisibili (al Cliente) è peraltro un problema che attanaglia la maggior parte delle nostre aziende e spesso nemmeno avere un azionista di riferimento straniero aiuta.

Come è avvenuto per il Gruppo Wind, sarà bello vedere altre aziende, soprattutto le più grandi, confrontarsi con i social network, consce che ciò che è cambiato davvero, probabilmente, sono (siamo) i Clienti: molto più attenti di un tempo a questi dettagli, molto più desiderosi di parlare direttamente con le aziende, senza i penosi contact center a mediare delle relazioni i cui valori in gioco sono sempre maggiori. E non solo quelli economici.

Le stelle della Juventus vanno a ruba

Non siete circondati da personaggi che tifano Juventus e Ferrari, amano gli spot della Tim e i cinepanettoni? Probabilmente siete troppo snob per confrontarvi con la stragrande maggioranza degli Italiani e magari non capite nemmeno perché il Popolo della Libertà tira su milioni di voti ad ogni elezione. Detto questo, probabilmente sorriderete ironici della campagna "Accendi una stella" che proprio la Juventus ha lanciato in queste settimane, con tanto di campagna televisiva sulle reti Mediaset.

L'idea di fondo è semplice: la squadra che un tempo regnava incontrastata sul calcio italiano ha deciso di fare appello ai suoi tanti tifosi per avere un aiuto nella realizzazione del nuovo stadio. Sfugge a molti il perché ci sia bisogno di un ulteriore stadio a Torino dopo la demolizione del Delle-Alpi-cattedrale-nel-deserto e l'abbandono del Comunale-oggi-Olimpico, ma tant'è: si tratta di una società quotata in Borsa e visto che di traguardi sportivi in vista non ce ne sono, è il momento di buttarsi in business alternativi.

D'altronde, in Italia il mercato del merchandising sportivo non è mai decollato sul serio e così non meraviglia che si cerchino meccanismi alternativi per fare cassa. Un tifoso appassionato può chiedere informazioni ad un 899 e acquistare sul sito, lasciando i propri dati e scegliendo il tipo di stella che, con sopra scritto il proprio nome di "vero" tifoso juventino, andrà ad accompagnare quelle del proprio campione preferito (di sempre) sul pavimento del nuovo stadio. Un po' un Hollywood Boulevard de noantri, insomma.

Persino a noi che non abbiamo nessun interesse in calcio e dintorni la campagna della Juve fa un po' tenerezza e un po' tristezza. Una stella Gold costa 250 Euro e una stella Platinum 350 Euro: in alcuni casi (ad esempio Vialli, Buffon, Baggio, Nedved, Trezeguet) le stelle Platinum sono ormai esaurite, segno che forse un tifoso che vuole "togliersi lo sfizio" preferisce farlo dando il massimo alla propria squadra del cuore. Come dite? Non capite come sia possibile ragionare così? Allora siete (siamo) snob davvero.

Il Gruppo Coin e le sue mille identità

Grandi aspettative, per chi si occupa di marketing in ambito Retail, relativamente all’apertura dei nuovi punti vendita Upim, prevista per metà settembre. Sono passati pochi mesi dalla chiusura del deal che ha portato il Gruppo Coin a 900 punti vendita e si mormora che forse sia stato trovato un giusto equilibrio per la catena: un ritorno al passato di negozio multiforme, lontano dai tentativi di emporio-fashion-dei-poveri della precedente proprietà. C’è persino un concorso fotografico via Web che cercherà di far raccontare ai clienti stessi la “nuova” Upim.

Proprio il Web, d’altronde, è stata la vetrina Coin più chiacchierata nelle ultime settimane. Merito di un post di Max Trisolino che ha scoperto per caso la presenza di Coin su Foursquare e le relative offerte per i mayor, che si immagina siano i visitatori più assidui dei punti vendita della catena veneta. La presenza attiva in Rete era già stata notata da molti ed è sicuramente motivo di plauso per la catena, sebbene si spera venga superata presto lo scollamento con lo staff dei punti vendita, problema peraltro già notato più volte su .commEurope su altri contesti GDO.

Il Web infatti va avanti e macina tutto, ma commessi e cassiere (e punti vendita) della maggior parte delle catene Retail sembrano rimasti all’età della pietra. Certo non è facile, continuare a lavorare nelle catene italiane in eterna crisi di identità, soprattutto in quelle che si occupano di abbigliamento e dintorni, mentre i vari H&M e Zara crescono vertiginosamente in termini di presenza sul territorio, competitività e fascino esercitato sul pubblico. A volte sorge il dubbio che sarebbe il caso di cambiare del tutto nome e immagine ad alcune catene italiane.

Deve essere quello che ha pensato proprio il Gruppo Coin quando ha lanciato la campagna che segna un nuovo step verso il marchio OVS Industry da parte dei vecchi Oviesse. Una campagna con nomi importanti (Vaporidis, Elkann, Caracciolo Falck), curata da una star del Web, Scott Schuman di The Sartorialist, che però fa fatica a convincere i prospect di un significativo cambio di marcia, in termini di qualità e stile, di una catena che per rinnovarsi ha scelto di inserire nel proprio nome una sigla ostica unita all’inquietante termine “Industry”.

Non è la prima volta che Coin cerca di riposizionare la catena: se ne era parlato già qualche anno fa su [mini]marketing e ancora prima c’era stato il tentativo di Enzo Baldoni e delle Balene di buttarla sull’ironia. Sono sfide interessanti da osservare, ma probabilmente richiederanno intere generazioni per avere successo. Confidiamo nei risultati, perché il Gruppo Coin è un orgoglio per l’Italia, soprattutto in un momento in cui la concorrenza non arriva da Marte ma dai Paesi europei, con collezioni forse simili, ma “vissute” come migliori un po’ da tutti.

Panorama: perché?

Le copertine dei primi dodici numeri di Panorama disponibili su iPad

Questo post potrebbe esaurirsi col titolo e con l’immagine di cui sopra: si tratta delle copertine degli ultimi dodici numeri di Panorama, come vengono presentate sull’applicazione iPad del magazine. Basta guardarle: tre presentano ministri del Governo in carica sorridenti, a introdurre le agiografie presenti all’interno; tre, consecutive e volutamente brutte (più due richiami sui numeri successivi) sono dedicate ai presunti illeciti del Presidente della Camera Gianfranco Fini, caduto in disgrazia politica rispetto al Governo di cui sopra; le altre… Si commentano da sole.

C’è un pregiudizio diffuso che vuole che i grandi periodici italiani siano popolati da donnine nude e trattino esclusivamente argomenti scabrosi; quanto ciò sia vero è statisticamente visibile nelle copertine di cui sopra, ma tendenzialmente si può dire che la moda del “donna nuda in copertina a tutti i costi” sia un po’ passata. Panorama, come L’Espresso, sono oggi magazine più completi ed eleganti (anche dal punto di vista grafico) di ciò che erano una decina di anni fa. In qualche modo sono riusciti a ricostruirsi un ruolo in un’era difficile per questo tipo di editoria.

Ad esempio, oggi le applicazioni dei due periodici, o quella di Internazionale, sono tra i contenuti più interessanti tra quelli in lingua italiana per iPad. È un piacere consultarli nei tempi morti e proprio l’app di Panorama è quella che forse merita un plauso per uso delle multimedialità e comodità di utilizzo. Ma il dubbio sui contenuti rimane: perché? Perché uno dei più prestigiosi magazine italiani deve sottostare in maniera così supina ad una determinata parte politica, in particolare quando la parte in questione è al Governo, invece di lanciarsi nel giornalismo di inchiesta?

Fa male scorrere le pagine della rivista e leggere gli editoriali supini di Vespa, Ferrara, Buttafuoco, a precedere articoli “a senso unico” frammisti a saltuari dossier interessanti, consoni alla storia del settimanale su cui scrissero i più importanti giornalisti e scrittori italiani. Non è sempre stato così, visto che a metà anni Novanta, pur sotto proprietà Fininvest, Panorama continuava a pubblicare copertine contrarie al Governo Berlusconi, se necessarie. Oggi invece continua a inseguire Il Giornale su terreni imbarazzanti e poco intellettualmente autonomi. Perché?