Nepotismi giornalistici

De Sica, Gassman, Tognazzi, Amendola: cognomi di grandi interpreti del passato, ma anche di attori celebri di oggi. Un’intera generazione di attori cresciuta all’ombra dei padri, mostri sacri del cinema italiano; ad ogni intervista, la sensazione comune di essere cresciuti sgambettando per i set cinematografici, di aver trovato lo sbocco “naturale” della propria carriera (e della propria vita) sullo schermo.

È un po’ la logica del circo: cresci nel tendone, pensi che quella sia l’unica strada per il tuo futuro e l’ambiente circostante ti appoggia in quanto “figlio di”. La trasmissione da genitore a figlio della stessa professione (e si immagina della stessa passione) è d’altra parte cosa comune in Italia e sicuramente ha un suo senso industriale nel caso degli imprenditori che cercano di affidare l’azienda familiare ai figli.

La perversione del meccanismo appare quando si esce da spettacolo e imprenditoria: è luogo comune che i figli di notai diventino notai, che i figli dei docenti universitari seguano le tracce dei genitori in Facoltà. Negli ultimi anni lo si è visto con i giornalisti: i cognomi sono sempre gli stessi e in questo caso ci sono poche giustificazioni, a meno che non si scopra esista un gene ereditario del talento giornalistico.

In alcune testate, specie televisive, appare poi un fenomeno ancora più inquietante, quello dei “figli di”, ma non di giornalisti. Sono cognomi di politici, imprenditori importanti, altri personaggi “pesanti” attuali o del passato, che si difendono dietro il classico meccanismo retorico del «volete mettere in discussione la nostra professionalità perché “figli di” genitori ingombranti?» (la risposta sarebbe sì, ma vabbè).

La vera questione da porre loro sarebbe relativa al perché siano arrivati lì. Perché, pur capacissimi come pochi altri, i pochi altri comunque ci sono e probabilmente si disperano nelle redazioni di periferia con contratti imbarazzanti o semplicemente hanno cambiato mestiere. Il giornalismo dovrebbe essere sempre libero, indipendente, mai servizievole. Implicitamente o esplicitamente, poco importa.

Horror all’ora di cena

A fine 2010 gli amanti dei Subsonica hanno ricevuto in dono Eden: un singolo ipnotico e intrigante, con un video un po’ bizzarro. Un anticipo di quello che poi è stato l’album omonimo, accompagnato in realtà da un nuovo singolo, Istrice, che parla di rapporti d’amore difficili, ma ha un video a dir poco inguardabile.

Il cortometraggio è stato girato da Cosimo Alemà ed è un horror ambientato per le strade di Torino. Quando i direttori artistici delle televisioni musicali l’hanno visto, sono caduti dalla sedia e hanno deciso di mandare in onda una versione con le immagini più crude pixellate, solamente di notte, fuori fascia protetta.

Il gruppo torinese si è sfogato su Facebook della censura ricevuta, i critici hanno parlato di un tentativo di alzare un “caso” per far parlare, i fans si sono spaccati. Poi è stata prodotta una terza versione del video coi soli componenti del gruppo inquadrati, poi utilizzato da EMI nello spot a supporto del lancio del disco.

Nell’autodifesa del gruppo, l’enorme diffusione dei vampiri di Twilight tra i più giovani, le serie televisive a base di autopsie trasmesse da qualche tempo su Italia1 alle 19.30 al posto dei Simpsons, le violenze sui telegiornali e gli altri obbrobri che scorrono sulla televisione italiana generalista e non, senza filtri verso i bimbi.

In questa galleria degli orrori si potrebbero aggiungere spot terribili come quello di Wind con Aldo Giovanni e Giacomo, con tanto di spellamento dal vivo e urla di dolore mischiati a faccine che vorrebbero far ridere. Roba tremenda, che fa distogliere lo sguardo dal televisore ogni volta. Come il video di Istrice.

Forse è un trend, con sfumature diverse e diversi gradi di qualità e di sensibilità. Anche Lady Gaga si è aggiunta alla lista negli ultimi giorni, con un video interpretato da zombies che però è guardabile e ben realizzato (sulla canzone sorvoliamo): tutti saltano sullo stesso carro, ma alla fine sono molto pochi i vincitori.

Twitterremoto

Massima solidarietà e partecipazione per il dramma giapponese. Un terremoto così forte non solo fa male a chi è colpito direttamente dalla morte dei familiari, ma anche a chi ha vissuto quelle scosse sulla propria pelle e ne avrà un ricordo indelebile, uno di quelli che cambiano la vita e il modo stesso di intenderla. I media a più riprese hanno sottolineato come, mentre le linee telefoniche continuavano a crollare, gli accessi a Internet rimanevano ancora attivi. Non è molto chiara la modalità tecnica di questa sopravvivenza, ma è stata sicuramente l’occasione per tirare nuovamente in mezzo il ruolo di Twitter come megafono.

Come avvenuto negli scorsi anni con la scomparsa di personaggi celebri, Twitter ha fatto da risonanza dell’accaduto nelle prime ore e poi da punto di sintesi della solidarietà mondiale. Quello che è mancato, oggi come allora, è stata però l’informazione “di prima mano”, la fonte magari non famosa, ma utile a capire. Il meccanismo perverso della piattaforma, peraltro, fa sì che sia impossibile che una notizia salga di livello in tempi brevi; magari un giornalista ha 1.000 fans tra i suoi iscritti, ma a sua volta non è iscritto a nessuno di essi, quindi qualora pubblicassero qualcosa non se ne accorgerebbe. Figurarsi gli amici degli amici.

Il Giappone è uno dei Paesi a più alta concentrazione di Internet-users e in questo caso le fonti dirette, sul territorio, all’apparenza avevano molto da dire. Ma cosa, esattamente? «Oh mio Dio, un forte terremoto» o «Gulp, la mia scrivania è crollata sotto i miei occhi» sono tweet emozionanti, ma aggiungono poco. Se qualcuno avesse avuto qualcosa importante da dire (tipo «Ho sentito dei superstiti sotto le macerie del palazzo XYZ, andate a scavare lì») difficilmente l’avrebbe scritto su Twitter; chi ha voluto rassicurare i propri parenti e amici è ricorso a Facebook, instaurando mini-conversazioni coi dettagli personali per rassicurarli.

La discussione via Twitter si è ripiegata su sé stessa. Come al solito è diventato il giochino in cui gli Occidentali, davanti al PC, scambiavano commenti sulle immagini proposte dai media facendo entrare il terremoto tra i trend topics prima di passare il giorno dopo al Nord Africa o a qualche Camp o whatever. La sensazione come al solito è quella di essere di fronte a un mezzo potente, che è uscito dalla logica dell’SMS erga omnes per entrare in quella della chat pubblica universale; un mezzo troppo generalista per competere con applicazioni specifiche, troppo scarno per diventare mass market. Che farà da grande l’uccellino blu?

Autarchia culturale edizione 2011

Una classifica musicale composta da 13 artisti italiani nelle prime 15 posizioni: no, non post-Sanremo, ma prima di Sanremo. Una lista guidata da Jovanotti, con nomi ormai consolidati come Ligabue o Antonacci, con qualche nome più recente come Mengoni o i Negramaro; una lista non troppo dissimile a quella attuale, in cui sono apparsi i nomi dei principali protagonisti del Festival, ovviamente italiani.

Oggi il mix tra cantautori e interpreti "da reality" è molto omogeneo: un personaggio come Alessandra Amoroso ormai ha fatto un percorso professionale fuori dalla scuola di Amici sufficiente a levarle (o quantomeno limarle) la lettera scarlatta; stasera, che quel talent show è alla finale, è previsto un intervento di Roberto Vecchioni, la cui immagine pubblica ha avuto un cambio radicale dopo Sanremo.

In questa sorta di compattamento inter-generazionale di pubblico e artisti, è appunto la canzone italiana a trionfare, rispetto ai grandi nomi internazionali. Qualcosa di simile a quanto avvenuto nel cinema: appena poche settimane fa ha fatto scalpore l'arrivo di Che bella giornata di Zalone/Nunziante al secondo posto per incassi storici nei cinema italiani, incastrato tra Avatar e Titanic di James Cameron.

In entrambi i campi il trionfo dell'italianità era abbastanza imprevedibile: il cinema italiano ogni anno sembrava schiacciato sul cinepanettone come unico film nostrano di successo; Sanremo fino a pochi anni fa produceva fuochi fatui più che successi commerciali. A metà strada tra i due percorsi, attingendo in entrambi i campi (e dalla televisione) persino il musical italiano ha conosciuto una nuova giovinezza.

L'unico campo in cui l'italica autarchia culturale è ancora sfumata sembra essere quello della letteratura. Negli anni recenti si sono affermati blockbuster italiani come quelli di Giorgio Faletti, ma il mercato è ancora abbastanza variegato e i mattoni internazionali per ragazzetti sono le opere che vanno per la maggiore. In ogni caso, è bene che continui la contaminazione piuttosto che ci si chiuda del tutto.

Fa infatti piacere che artisti giovani e meno giovani trovino successo in patria, ma il vero successo sarebbe portare tutti questi capolavori musical-cinematografici fuori confine. Ciò tuttavia è ancora piuttosto raro e forse fa sorgere qualche dubbio sul rapporto tra qualità e aspettative del pubblico. Non sia mai che tutto quest'innamoramento per le produzioni italiane derivi da pigrizia intellettuale verso il mondo…