Concorrenza ferroviaria all’italiana

C’è una regione italiana in cui nel 99% delle stazioni il principale operatore ferroviario non è più Trenitalia. Non è una regione piccola, anzi è un territorio in cui ogni giorno 650.000 visitatori si muovono su strade ferrate: è la Lombardia. Da diverse settimane infatti gli annunci delle stazioni lombarde citano principalmente il nome della nuova compagnia Trenord, responsabile di tutto il traffico regionale.

Nata come joint venture tra il gruppo Ferrovie dello Stato e il gruppo FNM, Trenord riesce contemporaneamente a usufruire dei vantaggi derivanti dall’essere una società vicina all’operatore statale (leggi: nessun ostruzionismo da parte di RFI come avviene per gli operatori privati) e da quelli dell’avere Regione Lombardia come azionista (leggi: soldi regionali disponibili senza troppi problemi).

Ci sono esperienze parapubbliche nelle regioni vicine, come GTT in Piemonte o FER in Emilia Romagna, ma la loro dimensione è marginale rispetto a quella dell’operatore lombardo, che potrebbe piano piano estendere il suo raggio d’azione ad aree crescenti del Nord Italia seguendo l’esempio delle ex municipalizzate nel settore energia progressivamente fuse, che ormai sono realtà di rilievo nazionale.

Da qui a immaginare un vero mercato concorrenziale in ambito ferroviario (e a dire il vero anche in quello energetico) la strada è ancora lunga. Operazioni come Trenord ammazzano anche il minimo di concorrenza che potrebbe svilupparsi su base locale; tuttavia, le sinergie per gli utenti lombardi sembrano così grandi che la caramella amara alla fine va giù lo stesso, sperando migliorino i servizi.

Questo è infatti il punto debole di tutta l’operazione. Il marketing di Trenord sembra essere impostato per avere successo come quello della sorellastra Trenitalia, ma entrambe le società notoriamente vengono criticate per i livelli di servizio modesti in ambito regionale. Su quello c’è tanto da lavorare, altrimenti la rinnovata immagine e tutto il resto del filmone finiranno per farsi odiare a più non posso.

Current, LinkedIn e la necessità di un business model autonomo

La vicenda della possibile chiusura di Current Italia ha travolto le cronache degli ultimi giorni: lo staff di Al Gore prima è riuscito a innescare il malcontento virale dei blogger, poi ha mandato l'ex Vicepresidente degli Stati Uniti ospite di Annozero, riuscendo a far arrivare la vicenda sui media mainstream, preoccupati per un'eventuale voglia di censura da parte di Sky.

Tutto si è ingarbugliato quando i Manager della piattaforma satellitare hanno tirato fuori gli aspetti economici del rinnovo dell'accordo e i dati di ascolto del canale. I meno avvezzi alle dinamiche della televisione italiana sono rimasti colpiti dai numeri degli ascolti (qualche migliaio di spettatori al giorno) e dai numeri delle richieste di Current (qualche milione di Euro).

Nelle stesse ore, negli Stati Uniti l'attenzione era tutta nei confronti di LinkedIn, fino a poco tempo fa social network un po' elitario, oggi azienda da un migliaio di dipendenti che, con una quotazione miliardaria, sembra aver riaperto la gara delle IPO che speravamo di non veder più dai tempi dell'esplosione della bolla delle dot-com, ormai una decina di anni fa.

Due vicende lontane nello spazio, ma accomunate da un problema simile: nessuna delle due iniziative ha un business model sostenibile nel lungo periodo. I programmi pur originali di Current e i servizi ai professionisti di LinkedIn sono sicuramente nicchie dalle grandi potenzialità, ma che ancora basano troppo la propria fortuna sulla speranza di ricavi pubblicitari.

In nessuna delle sue edizioni mondiali Current starebbe in piedi senza i ricavi della pubblicità e i contributi delle piattaforme ospitanti, che in alcuni casi poggiano sugli abbonamenti, o indirettamente sulla pubblicità. LinkedIn prova a vendere qualche account premium, ma di fatto il suo futuro sembra più legato al divenire una piattaforma per le inserzioni dei recruiter.

Sono sicuramente aziende che almeno hanno un fatto un passo avanti rispetto alle loro concorrenti, che di pubblicità vivono al 100%, ma sono troppo in balia delle onde, siano esse quelle del Nasdaq o quelle della News Corporation, per essere davvero autonome. Meritano di avere successo e seguito, ma devono ancora lavorare tanto per ottenere l'autonomia necessaria.

Aspettando i ballottaggi delle Elezioni amministrative

Per chi si occupa di comunicazione politica le Elezioni amministrative hanno due vantaggi: ci sono tipicamente centinaia di sindaci in ballo, quindi si può sempre dire di aver vinto "qualcosa" anche se poi le somme a livello nazionale difficilmente vanno contro il trend politico di moda al momento pro/contro Governo; nelle città più grandi ci sono i ballottaggi, quindi anche chi è temporaneamente dietro può tentare il colpo di coda.

La campagna elettorale è stata decisamente tranquilla, molto di più rispetto a Elezioni politiche ed Elezioni europee, in cui ogni volta sembravano in gioco le sorti dell'Umanità più che il destino di qualche centinaio di parlamentari. Stavolta i "big" nazionali si sono schierati ma non hanno gridato eccessivamente, lasciando ai candidati sindaci delle città più grandi il palcoscenico su cui sfogare la propria voglia di comunicare.

Su tutte ha scaldato gli animi la campagna elettorale a Milano, iniziata in realtà ormai parecchi mesi fa con le Primarie del Partito Democratico, che avevano visto uscire un candidato un po' diverso dal solito come Giuliano Pisapia in una città governata da quasi 20 anni dal Centrodestra dopo 40 anni di sindaci Socialisti; dall'altra parte la "solita" Letizia Moratti, con uno stile di comunicazione imbarazzante e una faccia troppo vista.

I due ora si lanceranno in una guerra senza esclusione di colpi per un paio di settimane, così come i colleghi delle città ancora in bilico; solo alla fine dei ballottaggi si potrà capire davvero chi avrà vinto non solo a livello numerico (tutti i sindaci pesano allo stesso modo o basta prendere Milano o Torino o Napoli e perdere il resto per essere felici?), ma soprattutto da quello della comunicazione politica e delle strategie future.

Non manca infatti tantissimo alle prossime Elezioni politiche, sempre ammesso che la XVI Legislatura giunga al suo termine naturale. Probabilmente molti faranno tesoro di quanto appreso in questa tornata, come un utilizzo un po' più maturo dei social network al posto dei siti imbalsamati (e abbandonati dopo le elezioni) o il fatto che non sempre candidare i ragazzini garantisce il successo (cfr. Centrosinistra a Catanzaro).

Tutto il film, però, sarà fortemente condizionato, come peraltro tutta la politica nazionale dell'ultimo ventennio, dalla scelta dei candidati Premier. Se correrà ancora una volta Silvio Berlusconi (sempre che ce la faccia fisicamente), forse i canoni saranno quelli delle Elezioni precedenti; se così non fosse e nel remotissimo caso in cui il Centrosinistra trovasse un candidato decente, finalmente ne vedremmo davvero delle belle.

Tutti odiano i buoni pasto?

Basta accennare agli amici il tema dei buoni pasto per incontrare visi contrariati e ascoltare storie inverosimili di tentativi di spenderli, corse contro il tempo rispetto alla scadenza, viaggi di decine di chilometri per raggiungere supermercati che (raramente) li accettano. Il sospetto è che anche chiedendo agli esercenti non si riscontri un maggior entusiasmo: tempo perso, margini distrutti, rapporti coi clienti deteriorati. Non che le cose vadano meglio nelle aziende: è vero che grazie agli sconti sempre maggiori (la concorrenza non perdona) si risparmia qualche centesimo su ogni tagliandino, ma nelle grandi aziende non è da sottovalutare il costo di determinare ogni mese il numero di buoni, organizzarne la distribuzione e ascoltare le lamentele dei dipendenti sul valore solitamente limitato dal massimo di non tassazione, pari a poco più di 5 Euro.

Il processo, peraltro, non è virtualizzabile e questo crea ulteriori problemi nel momento in cui, in modo lungimirante, la maggior parte delle aziende sceglie di migrare al cedolino elettronico; i buoni pasto rimangono stoicamente cartacei sia per le aziende che per gli esercenti, a loro volta vittime della burocrazia e dei tempi di rimborso (volutamente?) lunghi da parte dei circuiti; spesso la soluzione è chiedere anticipi alle banche. A dire il vero negli anni qualche tentativo di innovazione si è visto sul mercato, ma come spesso avviene in ambito pagamenti, nessuno vuole assumersi i costi di cambiare il modello complessivo. Al contrario, la continua corsa al ribasso da parte delle amministrazioni pubbliche ha solo l’effetto di esacerbare gli animi degli esercenti e degli stessi circuiti di buoni pasto, che si sono riuniti in un’associazione di rappresentanza unitaria.

I dati di questa organizzazione, l’ANSEB, sono molto interessanti. Si scopre che circa due terzi (oltre 13 milioni) dei lavoratori pranzano regolarmente a casa, che il fenomeno dei buoni pasto riguarda poco più di due milioni di utenti. Numeri che fanno riflettere chi è in mezzo all’angoscia quotidiana del buono pasto: fa parte di una minoranza per la quale difficilmente le forze parlamentari avranno voglia di cambiare regole. È un’occasione persa: i buoni potrebbero rappresentare un mezzo alternativo di pagamento rispetto ai fastidiosi contanti, potrebbero essere utilizzati anche in contesti di commercio elettronico via Web o Mobile. Ma il mercato italiano è così ingessato che il meccanismo non decolla: persino la piattaforma del leader di mercato, Compliments Store, non rappresenta una case history significativa, nonostante sia tecnicamente affidabile.

All’estero la commissione sui buoni pasto è nell’ordine del 3%, in linea di massima paragonabile con le fee che i circuiti di credito riservano ai piccoli esercenti. In Italia si parla sempre di double digit e questo rende obiettivamente impossibile non solo l’estensione dei circuiti a un numero significativo di esercenti food-related, ma ancor di più l’avvio di circuiti alternativi in settori a bassa marginalità (leggi: elettronica e similari). Ci lamentiamo che l’economia “non gira”, che i consumi si riducono invece di esplodere cercando di intercettare i piccoli segni di ripresa che si vedono all’estero; è un peccato, perché il gioco senza vincitori dei buoni pasto è una proxy dei problemi che esercenti fisici e digitali incontrano quotidianamente con tutto ciò che non è contante. E senza moneta elettronica e circuiti di pagamento ben rodati, addio speranze di sviluppo.

In Rete bisogna scegliere i partner giusti

Una decina di giorni fa, la nostra attenzione era tutta dedicata al crollo dei servizi in cloud computing di Amazon, colpevole di aver fatto scomparire per diverse ore la stragrande maggioranza delle Internet startup più amate. Pochi giorni dopo è stato il turno dell’accoppiata Playstation Network/Qriocity, le due reti Sony colpite da attacchi feroci da parte di ladri di informazioni senza troppi scrupoli: molti hanno visto la propria carta di credito tremare.

L’ultima ondata di indignazione è invece stata tutta italiana e ha riguardato Aruba, colpevole di aver sottovalutato più la portata comunicativa che gli effettivi danni (pressoché nulli) ai dati contenuti nella server farm incendiata. In tutti e tre i casi, l’ondata di pentimento collettivo ha riguardato l’essersi affidati a servizi remoti, senza possibilità di controllo da parte di utenti finali e aziende clienti, con il retrogusto amaro di averne sopravvalutato l’affidabilità.

Nonostante molti di noi, indossato il cappellino del consulente, incitino gli interlocutori a migrare servizi e applicazioni tra le nuvole, rimane una grande diffidenza nei confronti di chi gestisce le infrastrutture, con sforzi in avanti irrazionali guidati da leve non del tutto corrette come quella del prezzo. Per intenderci: va bene far ospitare il proprio sito a 20€ l’anno, ma poi non è serio aspettare un piccolo grande blackout per pentirsi di un uso professionale.

Il vantaggio di avere un sistema evoluto di posta elettronica come Gmail (e il relativo storage) sempre disponibili da qualsiasi terminale ormai lo abbiamo compreso; dobbiamo tutti fare uno shift culturale nell’applicare gli stessi criteri di selezione dei propri partner anche sulle altre applicazioni remote che abbiamo iniziato/inizieremo progressivamente a utilizzare. Probabilmente l’era del free a tutti i costi è finita, almeno per uso professionale.

Dall’altro lato, la vicenda Sony non deve farci cadere nel pessimismo cosmico del “se anche i grandi si fanno rubare le anagrafiche, allora non compro più nulla online”: i furti continueranno a esistere, è un atteggiamento più maturo cautelarsi per tempo (leggi: carte di credito con coperture assicurative) piuttosto che tornare anche indietro anche da questo punto di vista. Al contrario, continuiamo a sostenere chi propone innovazione, è meglio per tutti.