Un Natale triste triste

Il fatto che l’entusiasmo diffuso (…) per questo Natale faccia tornare alla mente i commenti di fine 2008 è un pessimo segno: a primo acchito vuol dire che abbiamo perso 3 anni di sviluppo non solo economico; nella realtà, molti di noi sanno che se in quell’occasione un ultimo trimestre nero aveva fatto da porta di ingresso a un 2009 drammatico, stavolta già il 2011 è stato abbastanza disastroso e nessuno osa davvero fare previsioni per il 2012.

A quei tempi si parlava del cinepanettone di De Sica & C. come spauracchio della crisi “degli altri”, di un atteggiamento di ironia verso la crisi finanziaria di origine statunitense ma con impatti che appunto si sarebbero fatti vedere in Europa qualche mese dopo; ora persino i più stoici amanti del genere hanno dichiarato l’edizione 2012 come estremamente noioso. Molti concorderanno sul “c’è poco da ridere”, ma chi è andato al cinema voleva “staccare”.

Scorrendo gli archivi di quelle settimane di festività “grigie” su .commEurope, si trova anche un amaro augurio di inizio 2009 verso il mondo della pubblicità. Fin troppo profetico: anche se parte del mondo business si è ripreso almeno nel 2010, le agenzie di comunicazione hanno iniziato a dimagrire nel 2009 e di fatto ora sono in piena fase di crisi. Il sempre ottimo Bad Avenue pubblica vademecum per licenziati e sempre più specialist rimangono a casa.

Alcuni di noi vorrebbero cancellare questi mesi, che hanno in molti casi azzerato patrimoni e/o redditi; altri vorrebbero chiudere gli occhi e risvegliarsi a Natale 2012, sperando di festeggiare i germogli di quella che al momento sembra essere un’improbabile ripresa o quantomeno un nuovo-2010-alias-anno-appena-decente. In Francese si dice “Joyeux Noël”; di gioia però, in Europa al momento se ne vede davvero poca. Siamo invasi dalla tristezza.

L’austerity del salatino

Anche la nuova edizione del Regolamento dei FrecciaClub, le lounge dedicate ai frequent travellers di Trenitalia cui si accennava qualche settimana fa, rinnova il divieto che i “soci” conoscono bene: una sola consumazione di snack e bibita a testa. Un po’ ridicolo che una simile limitazione sia scritta nero su bianco su un documento ufficiale e poi ribadita di continuo con avvisi nelle sale ristoro; peraltro, come spesso avviene in casi simili, molti comunque la disattendono.

Quando era stata pubblicata l’edizione precedente, circa un anno fa, questa regoletta aveva sollevato l’ironia dei frequent flyers Alitalia: abituati al clima “volemose bene” delle lounge MilleMiglia e all’aperitivo sui voli Milano-Roma, prendevano in giro i forzati dell’Alta Velocità ferroviaria. Fino a pochi mesi fa vigeva ancora una sorta di allure positiva dei voli rispetto ai viaggi in treno e questi classici servizi extra confermavano il maggior “fascino” dell’aereo.

Poi nel corso del 2011 sono avvenuti due fenomeni opposti: Trenitalia, spinta dall’imminente ingresso di NTV, ha iniziato il rinnovo dell’offerta Alta Velocità, puntando proprio su queste piccole grandi comodità dedicate soprattutto a chi usa i treni non solo per viaggiare, ma anche per lavorare; Alitalia, a voler interpretare il clima di austerità di questi mesi, ha iniziato ad adottare piccole misure di contenimento dei costi, quali il taglio degli snack serviti a bordo.

Le due dinamiche e i nuovi assetti di pricing delle due compagnie, che in particolare nel caso di Alitalia hanno visto arrivare alle stelle i prezzi a tariffa piena, hanno decisamente imbufalito i consumatori (e far venire il sangue alla testa a qualche parlamentare); poi piano piano è subentrato il sentimento che ci sta accompagnando su tutti i fronti in questi mesi, quel senso di mestizia per cui c’è la crisi e quindi tutto crolla, fiducia in primis, tranne prezzi e tasse, che volano.

Molti di noi oggi possono fare mea culpa rispetto alla scarsa fiducia in Trenitalia relativamente all’evoluzione commerciale dell’Alta Velocità. Oggi bisogna riconoscere al vettore una rinnovata capacità di interpretare le esigenze degli utenti, soprattutto di quelli più esigenti. Perché sì, è vero che il clima di austerità richiede serietà da parte di tutti noi e tagli degli sprechi a tutti i livelli, ma non è detto che togliere salatini e aumentare prezzi sia la strategia di marketing migliore.

Le ferite dell’irresponsabilità aziendale non si rimarginano mai

Non esiste probabilmente manuale universitario o saggio specialistico che, parlando di Corporate Social Responsibility, non accenni al disastro di Bhopal, alle migliaia di vittime riconosciute e non, all’imbarazzante condotta di Union Carbide. Una tragedia ambientale, umana, ma anche aziendale: un esempio di come non gestire uno stabilimento e una società, di come non riuscire nemmeno a riparare dopo il torto.

La filiale indiana di Union Carbide venne venduta a un’azienda locale, mentre la capogruppo finì nel gruppo Dow Chemical. Ancora oggi, quasi 30 anni dopo la vicenda, gli attivisti di tutto il mondo considerano responsabile l’azienda chimica statunitense di non aver dato risposta alle popolazioni coinvolte nella tragedia di Bhopal. Dow smentisce ogni responsabilità diretta, non vuol rimborsare vittime e territorio.

L’infelice acquisizione di Union Carbide è una condanna continua per Dow: ad esempio, la sola possibilità di collaborare con le Olimpiadi di Londra 2012 ha alzato un polverone internazionale. Amnesty International ha chiesto chiarimenti al Comitato Olimpico, ma anche l’India ha sollevato proteste per questo affare: non c’è stato nulla da fare, la risposta ha escluso la possibilità di rompere il rapporto con Dow.

Già BP ha investito molto sulle Olimpiadi per cercare di rifarsi una verginità dopo il disastro ambientale nel Golfo del Messico e questo ha creato molti malumori tra i cittadini britannici; ora l’appoggio incondizionato del Comitato Olimpico Internazionale a Dow in qualche modo rovina ulteriormente la fiducia nei confronti delle Olimpiadi estive, il cui “spirito” era già stato messo a dura prova a Pechino 2008.

Si dirà che le Olimpiadi di Londra erano già iniziate male prima ancora dell’assegnazione, nel 2004; ora rischiano di diventare il contesto in cui cercare di riciclare l’immagine di aziende dai fatturati miliardari ma dall’immagine pessima, distrutta da comportamenti irresponsabili magari lontani nel tempo, ma ancora vividi nella memoria di tutti noi, di tutti coloro che nelle Olimpiadi “credevano” ancora.

L’insegnamento per chi si occupa di strategia aziendale e di comunicazione è che non basta investire budget importanti per provare a salvarsi l’anima; i disastri bisogna evitarli a priori e piuttosto, una volta che ci si trova a confrontarsi con le vittime, meglio assumere un profilo di alto livello. Altro che scappare di fronte alle responsabilità, sanare le ferite del passato è la migliore delle promozioni, la più seria.