Nel gran naufragio sta a galla solo la Juventus

Così a occhio dovrebbe essere già iniziato il campionato di calcio, anche se quest’anno non c’è stata la pressione pubblicitaria folle vista un paio d’anni fa e chi non è particolarmente appassionato dell’argomento potrebbe non essersene accorto. Non che nelle ultime settimane non si sia parlato di questo sport: mentre a livello internazionale l’attenzione era per le sonnolente olimpiadi londinesi, nel nostro Paese i giornalisti raccontavano di scommesse illegali e scandali connessi.

L’immagine del calcio italiano, già abbattuta dagli scandali precedenti, si è ulteriormente macchiata, diventando sempre più divertissement per fans accaniti e sempre meno passione collettiva, motivo di orgoglio per un pubblico familiare. Sembrano resistere solo i fans della Juventus e non solo quelli più esagitati acquirenti di stelle costose negli scorsi anni; i sondaggi mostrano come sia la squadra più amata da tutte le fasce d’età, in tutto il Paese e su tutti i media, persino allo stadio costruito ad hoc.

A molti la squadra bianconera può non destare particolare simpatia, ma bisogna riconoscere al Management di essere sempre riuscito a farla passare indenne da qualsiasi traversia, accentuando al contrario la fiducia e il senso di appartenenza. Al centro degli ultimi scandali c’è Antonio Conte, pur per fatti tendenzialmente precedenti alla sua esperienza di allenatore della Juventus. Riuscirà il mito a resistere, dopo le storiacce delle 3-stelle-non-3-stelle e l’abbandono di Alessandro del Piero?

Probabilmente sì e sarebbe interessantissimo capire il perché di un affetto così esteso, così trasversale, verso la squadra e i personaggi che ne fanno parte, in modo da portarlo in altri settori industriali. Se l’immagine di un intero mercato crolla e per di più se il mercato stesso è voluttuario e soggetto a passioni temporanee, come fa una sola azienda a mantenersi così solida di anno in anno, di lustro in lustro, nonostante gli scandali, i licenziamenti delle persone-chiave e le sconfitte?

Ma i ricchi cercano di stare bene (in Europa?)

Mentre le famiglie “normali” si dimenano tra acquisti di base e rate del mutuo sempre più insostenibili, con redditi e patrimoni arretrati di 20 anni, c’è un target che sembra non soffrire molto: basti dire che la produzione Lamborghini va a gonfie vele, visto che non mancano acquirenti di tutto il mondo disposti a spendere qualche centinaio di migliaia di Euro per auto-bomboniere.

Basterebbe osservare la società italiana: gli High Net Worth Individual sono più o meno stabili in questi anni di crisi, nonostante i crolli dei mercati. Certo, sono appena 170.000, un numero piuttosto limitato rispetto al totale della popolazione, che difficilmente può salvare l’economia italiana con tasse alle stelle secondo la ricetta francese (si parla di imposte nell’ordine del 75%).

Al contrario, si tratta dei tipici personaggi che al crescere della pressione fiscale cambiano proprio aria, fiscalmente e fisicamente. Come ha notato Paola Bottelli, la priorità di questo target, più che la rincorsa ai beni fisici, è in questo momento «vivere bene» e quindi l’experiential luxury, la ricerca del benessere psicofisico mentre dietro la finestre impazzano crisi e manifestazioni di piazza.

L’Europa occidentale è indecisa se diventare il paradiso ideale di questo tipo di paperoni e risollevare le sorti della popolazione residente. Non è facile trovare un equilibrio, ma d’altra parte sarebbe sciocco continuare a pensare di poter essere una potenza industriale, specie nel momento in cui non si riesce a trovare una sintesi politica, sociale, economica tra Paesi egoisti e diffidenti.

Il re-engagement è nudo

Sarà per il caldo asfissiante di questi giorni, ma quanti di noi hanno davvero voglia di inoltrarsi negli “appassionanti” giochi che le aziende pubblicano sulle pagine Facebook? Quanti di noi, pur con un clima più favorevole, sentono davvero crescere l’affetto nei confronti delle marche che ci obbligano a mettere “like” e poi a passare tempo su applicazioni sciocche?

Queste domande di buon senso sembrano essere sistematicamente fuori dai percorsi decisionali delle agenzie di comunicazione, che convincono le società clienti a mettere in piedi campagne cognitivamente pesanti per gli utenti, inseguendo il mito (purtroppo) imperituro che sia necessario far crescere l’engagement e che il modo migliore per farlo sia far perdere tempo.

Un articolo di Patrick Spenner qualche settimana fa riprendeva i risultati di varie ricerche, più o meno tutte convergenti sulla diversa percezione tra Marketing Manager (“i nostri Clienti vogliono far parte della comunità del nostro brand!”) e utenti (“dove sono i buoni sconto?”), sulla necessità di puntare sulla semplicità come leva per iniziare un timido dialogo.

Studi di discipline differenti hanno negli anni mostrato come gli esseri umani tendano a pensare il meno possibile, di come persino prodotti e servizi costosissimi vengano poi scelti più sulla base di ragionamenti di pancia che di attente analisi costi/benefici. Chissà se nel tempo aziende e consulenti matureranno nell’approccio, smettendola di far stancare i clienti.