L’aggressività e il cibo

Del fatto che Guido Barilla abbia voluto regalare ai libri di comunicazione aziendale un case study “estremo” si è già detto di tutto di più; qui basti riportare a futura memoria la drammatica testimonianza di Luca Barilla, che ha parlato apertamente di un danno rilevante, per ora schivato sul trade ma che probabilmente verrà rilevato a valle sul dettaglio.

Non è stato il solo momento che in questo settembre “caldo” ha associato food e aggressività: a metà settembre un commando di vegani aveva preso d’assalto i tendoni di una saga abbruzzese-molisana a Torino; la scorsa settimana un ristorante a Cremona è stato scena di una missione punitiva a base di fango verso avventori e personale di sala.

Che in Italia si sia particolarmente legati al cibo è un bene e una fortuna anche economica; tuttavia quando questa passione collettiva assume i toni visti in queste settimane, il danno di immagine è una delle componenti di una più ampia disillusione. Nessuno desidera una retorica pane amore e pomodoro, ma non eravamo mai arrivati a questi picchi.

Le tifoserie schierate nei tanti programmi televisivi di cucina sembravano già troppo; l’alimentazione dovrebbe essere un fattore di comunione o al massimo una disciplina scientifica, non l’occasione per sfogare l’aggressività verso manager, staff di sagre paesane e ristoratori chic. L’ambiente politico fa venir voglia di arrabbiarsi, ma non è una giustificazione.

I geek sono diventati glamour?

Essere geek oggi vuol dire essere alla moda o far parte di una nicchia ai margini?

Fino a qualche anno fa la risposta era abbastanza scontata; libri, serie televisive, film e fumetti per anni hanno da un lato strizzato l’occhio a un pubblico di nicchia che si sentiva accomunato sotto questa etichetta e dall’altro ironizzato su questo stesso pubblico a favore degli “altri”. La prima svolta forse è stata la progressiva diffusione dei gadget Apple, in particolare dell’iPhone. Nei mesi di lancio dello smartphone i vecchi appassionati di Apple si lamentavano di come la mela morsicata avesse lasciato la recinzione di love brand di nicchia per cercare un successo più esteso.

Poi è stato il turno di Big Bang Theory, lo show televisivo che ha cercato di costruire un ponte tra i due mondi, riuscendo al tempo stesso a conquistare con un salto mortale chi si sentiva ancora protetto dall’etichetta e coloro che ci scherzavano su. E che magari stavano cambiando abitudini senza saperlo. Recentemente Andrew Harrison su The Guardian si è chiesto a che punto è questa estensione alla massa di stilemi e passioni dei geek e i risultati della riflessione sono eterogenei. Probabilmente oggi dirsi geek è di moda; persino il mondo del business non è rimasto impermeabile.

Che sia merito della cosiddetta consumerization o di qualche programma televisivo poco cambia; probabilmente essere fan ossessionati di Star Trek è ancora terreno proprio dei veri aficionados, ma un certo uso di strumenti hardware e software è ormai fenomeno di massa. I più scaltri continuano a distinguere tra nerd e geek dissociandosi dai primi e sentendosi cool tra i secondi; al di là delle etichette, è un vero e proprio shift culturale in corso che in qualche modo riguarda la maggior parte degli Europei, non solo di quelli che passano 16 ore al giorno davanti a notebook, tablet, smartphone.

Saluti da Berlino

Un’affermazione empirica, suffragata più dalla frequentazione dei social network in lingua italiana e dalla lingua italiana sentita in ogni strada, è che quest’anno Berlino sia stata una meta “calda” per il turismo italiano. Turismo molto eterogeneo, formato indistintamente da famiglie a caccia di musei, ragazzini in cerca di locali, hipster che l’hanno scelta come capitale europea del cool. Strano destino per una città che alterna edifici terribilmente retrò e gioielli architettonici contemporanei, in un mix affatto scontato: l’ex Berlino Est è oggi decisamente più appealing dell’ex zona occidentale, visto che la ricostruzione negli ultimi venti anni ha riguardato soprattutto i quartieri da questo lato della Porta di Brandeburgo.

Lo sviluppo commerciale è stato il driver principale di questa evoluzione; c’è però una nuvola malinconica che aleggia su tutta la città. Non c’è solo il classico cruccio tedesco legato al (comprensibile) dolore di aver dato origine al nazismo; a Berlino si vive ancora l’altra cesura storica, quella del crollo del muro, che ha sicuramente appeal turistico, ma che incredibilmente condiziona ancora la vita dei berlinesi. Non è un caso che Berlino risulti più interessante nelle aree e nei momenti in cui si presenta sciolta dalla sua storia, più focalizzata sul futuro che sul passato. La club culture ad esempio è un fenomeno solido nella città che tiene solidamente in mano lo scettro di capitale mondiale della techno.

Rispetto a Praga, Berlino presenta un rapporto più maturo con i brand internazionali. Per la gioia degli italiani non mancano gli Starbucks, ma per il resto sembra più amato il pesce di Nordsee che l’hamburger di McDonald’s; in generale anche in considerazione dell’ampia immigrazione, spadroneggiano le culture alimentari turca e italiana. Anche a livello culturale l’apertura internazionale è significativa e fa intuire una grande disponibilità al confronto, soprattutto col resto d’Europa. Non che manchino le classiche fissazioni tedesche: le automobili sono il tipico esempio di prodotto in cui i tedeschi si sentono i primi della classe. Peraltro, nel bene e nel male, in Europa lo sono anche da molti altri punti di vista.