Carne rossa e catene bio

Quanto può far male a un’industria un avviso dell’Organizzazione Mondiale della Sanità? Nel caso della carne cancerogena: un decremento a due cifre per wurstel e carne in scatola, quasi del 7% per la carne rossa fresca. Un giro di affari di milioni di Euro sfumato in pochi giorni.

Ma è davvero una novità? Sul serio sino ad ora tutti avevano ignorato le decine di studi sull’argomento? C’era bisogno di questo nuovo studio per mettere in relazione su vasta scala carni processate e tumore al colon? Ora siamo tutti certi e non ne mangeremo più, mano sul cuore?

Certo che no. Alla fine passata la buriana gli onnivori torneranno a ingozzarsi di salumi e i vegani saranno ulteriormente convinti delle proprie posizioni. Si stanno costruendo veri e propri muri tra fazioni, con atteggiamenti irragionevoli su entrambi i fronti, altro che scienza.

La grande distribuzione più smart sta provando a lanciare nuove catene come Bio C’ Bon e Piacere Terra, che fanno sicuramente gola ai puristi ma cercano di costruire ponti anche verso chi sino ad ora era vissuto nella campana del “va-tutto-bene-basta-mangiare-un-po’-di-tutto”.

Il punto socialmente delicato è che queste catene sono sempre “premium”, anche se non come la madre NaturaSì, nota da sempre per i suoi prezzi poco popolari; esattamente come carissima è la carne rossa di alta qualità, forse più sicura dal punto di vista alimentare.

Nel mezzo un sacco di poveri cristi che mangiano wurstel perché costano poco, molto meno delle verdure bio; là non c’è studio scientifico che tenga, perché l’unico driver di scelta è il prezzo. Altro che Eataly, sono i discount quelli che non vedono un momento di crisi.

Grom diventa grande

Quanto poteva durare Grom da sola? Quanto poteva ancora crescere la parabola, negli anni comunque esplosa fino a coprire oltre 60 punti vendita nel mondo, restando un’aziendina italiana fondamentalmente in mano ai fondatori, al netto di qualche piccola quota in mano a terzi?

Finire nel Gruppo Unilever, mostro da quasi 50 miliardi di fatturato, tutto sommato è stata la chiusura naturale di quella parabola; non bastavano più l’amicizia, il gelato e i fiori (per riprendere gli ingredienti di uno dei libri sognanti dei fondatori) per crescere ancora, diventare “grandi”.

La qualità dei gelati Grom si è nel tempo mantenuta adeguata; al di là della facile retorica dei detrattori nel non definirli “artigianali”, i prodotti del dinamico duo Martinetti-Grom hanno permesso all’intero settore di riposizionarsi verso l’alto, con marginalità un tempo sconosciute.

Ora non è difficile immaginare che Grom seguirà la strada di Häagen-Dazs diventando un marchio globale; in fin dei conti è pur sempre una sorta di “democratizzazione” di un prodotto italiano un tempo wannabe-di nicchia. Sono altri i marchi che abbiamo perso e dovremmo rimpiangere.

Eataly e Autogrill sono così diversi?

Quando si è iniziato a parlare del primo Eataly sulla rete autostradale, molti di noi hanno gridato allo scandalo. La catena di supermercati-con-ristorazione nei primi anni di vita era stata l’essenza stessa del radical chic alimentare e poco sembrava parlarsi con il basso profilo delle aree di sosta autostradali.

Eataly negli anni in realtà ha iniziato a comparire ovunque, in mille formati frammentati e a volte un po’ dubbi, apparendo nelle grandi città come 20 anni prima aveva fatto Autogrill coi ristoranti Ciao. La differenza qualitativa era comunque notevole, nulla da spartire nemmeno coi più popolari Brek e simili.

Intuito il successo, è stata Autogrill ad andare in direzione di Eataly. Il Bistrot Milano Centrale, l’Autogrill Villoresi Est, il Mercato del Duomo a Milano, lo Slow Food a Torino. Un cambio di stile notevole, unito da una maggiore attenzione a qualità dell’offerta ed eleganza, reali o percepite.

Oggi le cose non sembrano poi così distoniche. In fin dei conti sin dagli esordi Eataly e Autogrill condividono cibo overpriced sugli scaffali e capacità di combinare ristorazione e vendita al dettaglio. Prima avevano un’immagine agli antipodi, ora sono molto simili, almeno in alcuni dei loro punti vendita.

Certo il percorso verso la nobiltà per Autogrill è lungo e pericoloso: sul mass market non è così scontato che i prodotti DOP siano più attraenti dei classici panini congelati. Per Eataly la discesa agli inferi è solo all’inizio: la concorrenza la sta già cannibalizzando ancor prima di aver raggiunto l’apice.

Food pubblico

Marchi come Olio Dante e Cirio hanno poco bisogno di presentazione. Brand come Orogel e Pomì hanno investito tanto in pubblicità (qualche volta un po’ infelice); altri come Rigoni di Asiago sono cresciuti col passaparola grazie alla qualità dei prodotti. Il filo che li unisce tutti è il loro rapporto, in termini di equity o di credito, con la società pubblica Isa.

Si tratta di una finanziaria totalmente controllata dal Ministero delle politiche agricole alimentari e forestali italiano, che negli anni ha affiancato le società proprietarie dei marchi nella crescita a livello nazionale e internazionale; un ruolo simile a quello del Fondo strategico della Cassa Depositi e Prestiti, molto interessato all’agro-alimentare.

D’altronde si parla del secondo settore industriale italiano e quindi ci può stare che gli attori pubblici cerchino di sostenerlo; fa però un po’ impressione il peso crescente che queste società parapubbliche stanno assumendo. L’unica consolazione è che non possano per statuto investire in aziende in perdita, quindi teoricamente non sono soldi buttati.

Dopo gli anni in cui i marchi alimentari finivano a nastro nelle mani delle multinazionali (Nestlè e Unilever hanno fatto razzia), il tentativo è di riportare in Italia fondi e manodopera. Il che è un tentativo onorevole, anche se il sospetto di aiuti di stato è comunque piuttosto forte; prima o poi arriverà l’ennesima multa da parte delle istituzioni europee.

Chi non pensa proprio a investire in Italia sono i big del settore: Ferrero ha appena investito in Turchia per assicurarsi nocciole per sempre; Barilla ha appena chiuso il contratto aziendale con dipendenti, ma non annuncia acquisizioni rilevanti da anni dopo le numerose fatte all’estero. Le quotate in Borsa, come La Doria, sono comunque nanerottole.

Sarebbe bello che ci fossero imprenditori capaci di investire nel settore, anche a costo di credere nel consolidamento: storie di successo come Grandi Salumifici Italiani dimostrano che piccole realtà unite riescono a diventare attori rilevanti. Il marketing può aiutare a differenziare le singole identità, non bisogna aver paura di cedere un po’ di potere.

Troppi marchi di pasta?

Guai a toccare agli Italiani la pasta. Dopo le ondate di malumore collettivo lo scorso anno per l’affaire-Barilla, ora tutti hanno richiamato alla mente lo slogan “Silenzio, parla Agnesi” per scagliarsi contro Colussi, colpevole di voler chiudere uno stabilimento che zoppica da decenni.

Peccato che pochi di loro abbiano comprato la pasta col veliero in questi anni in cui trionfavano nuovi marchi di qualità come Garofalo, che ora a sua volta è sulla bocca degli specialist perché promessa in sposa agli spagnoli a causa di forti debiti bancari nonostante il successo.

Per salvare Agnesi oggi si parla di diversificare nei sughi, ma l’idea è già stata proposta anche pochi mesi fa per il rilancio di Antonio Amato e un anno fa per La Molisana. De Cecco già da tempo ha cercato di diversificare anche producendo dolciumi, ma non sono chiari i reali ritorni economici.

Il rilancio dello stabilimento Agnesi è piuttosto difficile, anche considerando l’altra fabbrica a Fossano. Gli operai di Oneglia stanno organizzando una manifestazione contro la dismissione del pastificio o la possibile cessione alla campana Rummo, che qualche giornale ha addirittura definito “gigante”.

La verità è che tutti questi produttori italiani sono nanerottoli e solo la Barilla riesce a competere a livello mondiale. Per gli altri non rimane molto spazio, nel momento in cui chi se lo può permettere compra pasta artigianale e chi non può compra le private label. Proprio quelle prodotte da Agnesi e Rummo.

Meglio le Iene che Pomì

Questo è un post di esplicito appoggio alla campagna che le Iene hanno condotto contro l’occultamento, fisico e intellettuale, dei rifiuti tossici nella tanto vituperata terra dei fuochi. La situazione è talmente grave da meritare approfondimenti da parte di tutti gli organi competenti e una presa di coscienza forte da parte di chi quelle terre le abita, in buona o fede o a valle di speculazioni edilizie di possibile impronta criminale, cosciente del pericolo o meno.

Questo non è ovviamente un post contro i Campani, anzi. In Italia tutto viene ridotto a una sorta di derby calcistico per cui anche chi dice il vero, come sembrano fare gli inviati del programma di Italia1, viene additato come “nemico” e portatore di oscuri interessi terzi. Come si è già notato a proposito del caso Barilla, quando c’è il cibo in mezzo poi il sangue arriva alla testa di molti, soprattutto quando è evidente la dimensione “territoriale” dello scontro.

Questo è un post col ciglio alzato nei confronti di Pomì, che ha gestito malissimo la comunicazione a valle del fattaccio. Tentando di tirarsi fuori dalla mischia, ha posizionato il proprio marchio come strettamente legato all’agricoltura del Nord Italia, che pur essendo rigogliosa e si spera in crescita, non brilla certo per sostenibilità ambientale. Ai tempi dell’appartenenza al gruppo Parmalat il marchio non avrebbe mai commesso un errore così grave.

Questo non è un post contro le campagne pubblicitarie degli inviati de Le Iene, che sostengono di essere costretti a sostenere marchi di largo consumo pur di pagarsi gli avvocati alle calcagna per i tanti servizi scottanti. Si vuole solo annotare che però ogni spot in più, ogni campagna in cui uno o più membri del cast appare sorridente, toglie un po’ di credibilità al programma, che in fin dei conti è uno dei pochi esempi di servizio pubblico televisivo.

Dammi il tuo nome

Quando lo scorso anno Starbucks aveva iniziato a regalare bicchieri di latte macchiato in cui il nome della catena era sostituito con quello dell’acquirente, il debranding sembrava ancora una cosa innovativa. D’altra parte la medusa è ormai un simbolo talmente riconosciuto e riconoscibile che la manovra ricordava un po’ l’adozione della M dorata come logo unico di McDonald’s, senza scritte superflue.

Proprio la catena di fast food in estate aveva estremizzato la propria distintività lanciando in Francia una campagna in cui TBWA puntava tutto sulla riconoscibilità di un Big Mac o di un Sundae: in fin dei conti se riusciamo a riconciliare le immagini pubblicitarie perfette di questi prodotti con i loro sciupati alter ego reali, vuol dire che i prototipi ce li abbiamo bene impressi in mente. Comunque erano avvisaglie.

Il debranding ha fatto un salto epocale con la campagna Coca Cola che un po’ in tutto il mondo ha visto sostituire il logotipo su lattine e bottigliette con i nomi delle persone con cui la bevanda veniva condivisa. Un’idea che ha letteralmente invaso il Web, ma soprattutto ha avuto un riscontro universale nella vita quotidiana, tra clienti di tutte le età e le estrazioni sociali, anche negli eventi sul territorio.

Poi sono iniziate le imitazioni. La più clamorosa è stata quella di Nutella, che con una versione un po’ cheap (etichette da appiccicare su barattoli standard, pacchetti dono inviati a blogger e altre amenità da manuale) ha cercato di riprodurre il successo dell’iniziativa globale della bibita gasata, suscitando tanti “tu quoque” e sbadigli tra gli utenti italiani, che solo in parte hanno aderito all’iniziativa.

Non è difficile immaginare che ci saranno altri emuli, anche se ormai il giochino del nome è stato abusato. Rimangono invece grandi potenzialità sul debranding, in un mondo in cui i brand “pesanti” hanno sì fatto storia, ma rischiano ora di diventare pesanti. Una mela morsicata o uno swoosh sono ormai simboli più che riconoscibili, sarà curioso vedere se scompariranno anche essi dai relativi prodotti.

L’aggressività e il cibo

Del fatto che Guido Barilla abbia voluto regalare ai libri di comunicazione aziendale un case study “estremo” si è già detto di tutto di più; qui basti riportare a futura memoria la drammatica testimonianza di Luca Barilla, che ha parlato apertamente di un danno rilevante, per ora schivato sul trade ma che probabilmente verrà rilevato a valle sul dettaglio.

Non è stato il solo momento che in questo settembre “caldo” ha associato food e aggressività: a metà settembre un commando di vegani aveva preso d’assalto i tendoni di una saga abbruzzese-molisana a Torino; la scorsa settimana un ristorante a Cremona è stato scena di una missione punitiva a base di fango verso avventori e personale di sala.

Che in Italia si sia particolarmente legati al cibo è un bene e una fortuna anche economica; tuttavia quando questa passione collettiva assume i toni visti in queste settimane, il danno di immagine è una delle componenti di una più ampia disillusione. Nessuno desidera una retorica pane amore e pomodoro, ma non eravamo mai arrivati a questi picchi.

Le tifoserie schierate nei tanti programmi televisivi di cucina sembravano già troppo; l’alimentazione dovrebbe essere un fattore di comunione o al massimo una disciplina scientifica, non l’occasione per sfogare l’aggressività verso manager, staff di sagre paesane e ristoratori chic. L’ambiente politico fa venir voglia di arrabbiarsi, ma non è una giustificazione.

Torte monumentali e torri d’avorio

Sono tante e molto, molto, diverse, le tradizioni dolciarie europee. Cambiano gli ingredienti e le ricette, spesso legati a peculiarità del territorio o del clima; cambiano inevitabilmente, nello spazio ma anche nel tempo, i gusti di chi acquista i dolci (e di chi li produce). È vero che l’arte pasticciera è parte del patrimonio culinario di ogni Paese e quindi rispetto alle altre le scuole italiana e francese brillano in parallelo con l’alta cucina, ma ogni dolciume è un misto di ricordi e storia, anche quando di modesta fattura.

E poi c’è la pasticceria all’americana: appariscente, ultra-dolce, a suo modo bella da vedere. Un mondo che fino a pochi anni fa era completamente separato da quello europeo, con i contatti limitati a qualche ricetta di coloratissimi cupcake a passare l’Atlantico. Il grande colpo di scena, ciò che ha improvvisamente miscelato e travolto le barriere, stavolta non deriva dalla Rete, ma dalla televisione: basta dire “Boss delle torte” per richiamare alla memoria anche dei meno esperti un intero mondo di “monumenti” dolci.

Internet è poi arrivata ad amplificare il fenomeno, ma la trasmissione di Buddy Valastro è stata la chiave di volta di una vera e propria trasformazione nei desiderata di mamme e papà intenti a scegliere (o magari produrre) i dolci per i compleanni dei figli o per gli altri eventi familiari: si è passati nel giro di pochi anni dai classici europei, magari con qualche statuina di marzapane sopra, a vere e proprie costruzioni di cioccolato plastico, pasta di zucchero e marshmallow fondant, magari con qualche base di polistirolo.

Elisia Menduni ha raccolto le grida di dolore del gotha dell’alta pasticceria italiana, scatenando un dibattito tra professionisti e fan delle torte-monstre, che difendono quella che per alcune persone da passione si è trasformata in professione, sebbene (almeno secondo i pasticcieri “ufficiali”) senza gli standard sanitari e di qualità richiesti a materiali belli ma (almeno teoricamente) edibili. Il sapore della difesa corporativa un po’ si sente ed è stupido ignorare che la domanda di dolciumi sia cambiata, probabilmente per sempre.

D’altronde, è un peccato pensare di buttare secoli di tradizione e lasciare che la forza congiunta di televisione e Web convinca i/le dilettanti allo sbaraglio di costituire l’unica offerta possibile. Quindi la responsabilità di rilanciare la tradizione europea coniugandola con le nuove richieste della clientela è del tutto a carico dei pasticcieri; la leva di marketing della qualità dei prodotti sarà sicuramente apprezzata, ma non potrà essere la solita giustificazione per i prezzi alle stelle e un ulteriore chiusura nella torre d’avorio dell’alta gamma.

Ricerche di mercato un po’ strumentali

Non siamo verginelle: la maggior parte delle imprese per cui lavoriamo ha probabilmente commissionato e utilizzato ricerche di mercato con finalità commerciali. Magari noi stessi, come Marketing Manager, abbiamo ceduto alla tentazione di chiedere a un Istituto di Ricerca una survey per accompagnare la nostra strategia di comunicazione.

Il riferimento qui non è all’adesione a un qualche osservatorio di settore per dimensionare il mercato di riferimento, sebbene talvolta anche questo tipo di ricerche venga poi strumentalizzata; si parla proprio di indagini sui clienti finali in cui si affida a un Istituto di ricerca una tesi e si chiede in tutti i modi di dimostrarla tramite la voce di chi compra.

L’abitudine è ormai diffusa in tutti i mercati, ma è sempre più frequente in ambito Retail. La foto qui sopra ad esempio è dell’evento di presentazione della ricerca intitolata “Alla ricerca della felicità: gli italiani e il valore della Golden Hour” realizzata da Doxa Duepuntozero e “sponsorizzata” da Strongbow Gold, il marchio del sidro di casa Heineken.

L’evento è stato accompagnato da un comunicato stampa ospitato in un’area ad hoc di un sito divulgativo dedicato al sidro insieme ai sorprendenti risultati della ricerca: non solo i nostri connazionali conoscono a menadito il concetto della “Golden Hour”, ma lo associano a elementi positivi come il cielo azzurro, i delfini, la spiaggia, la bella vita a Barcellona.

Sembra che gli italiani tengano a sottolineare la differenza tra “Golden Hour” e “Happy Hour”, ritenendo quest’ultima troppo burina e sex-driven; la maggioranza degli intervistati viene ricondotta al segmento dei “profondi”, contraddistinto dall’entusiasmo di «coltivare le relazioni più vere e sincere e in particolare le amicizie più care ed autentiche».

Si fa fatica a restare seri leggendo i risultati di questa indagine, pur condotta con metodo scientifico tramite questionari somministrati via Internet a un campione di mille italiani rappresentativi della popolazione tra i 18 e 54 anni. Siamo in tempi difficili e se fossimo titolari di Istituti di ricerca accetteremmo ogni commessa. Ma la dignità professionale?