Customer survey?

C’è qualcosa di più invasivo, noioso e alienante delle customer survey? Via posta cartacea, al telefono, via e-mail o Web survey: praticamente nessuna si salva. Sono solitamente lunghe, frammentate e complesse e per la maggior parte dei casi non danno nessun vantaggio “concreto” a chi le compila.

Negli altri casi, quelli in cui un incentivo è previsto, sono viste come un espediente per ottenerlo: spesso vengono compilate di fretta e appunto con in testa la “bottom line” più che la qualità delle risposte o il loro approfondimento. E peraltro non necessariamente riflettendo davvero il parere del cliente.

Il Cliente soddisfatto, d’altronde, probabilmente ha poco da dire: ha pagato quello che riteneva il prezzo adeguato ed è appunto appagato dalla scelta. Quello insoddisfatto non perderebbe tempo a farle: avrebbe già gridato tutta la propria frustazione di persona o al telefono all’addetto di passaggio.

Eppure siamo tutti consci che è importante, anzi fondamentale, avere clienti soddisfatti. Ma riusciremo a inventare prima o poi un metodo meno invasivo? Riusciremo a convincerci che dopo centro crocette di customer survey i clienti si sentiranno più annoiati che coccolati e pieni di attenzione?

Per fare innovazione non servono Ministeri

In queste ore ci si strappa i capelli su più fronti a causa della mancata creazione di un Ministero o almeno di un Sottosegretariato “per Internet” o “per l’Agenda digitale”, qualunque cosa ciò voglia dire. Alcuni commentatori sostengono che le scelte dei nuovi referenti ministeriali negli ambiti Editoria e Comunicazioni siano infelici sia in termini di professionalità che soprattutto di possibile attenzione verso “il mondo di Internet”.

Ma cosa vuol dire davvero “il mondo di Internet”? Su cosa si vuole un presidio così forte da richiedere un membro dedicato del Governo, in pianta stabile, su base esclusiva? Nessuno sa rispondere: qualcuno tira fuori la banda larga e gli investimenti infrastrutturali necessari, qualcun altro richiede maggiore attenzione verso quelle che un tempo si chiamavano dot-com, molti richiamano l’attenzione sulle evoluzioni del copyright.

Sono tutte tematiche interconnesse, ma si fa fatica a capire perché dovrebbero essere raggrumate in unico ufficio. Una cosa sono gli investimenti sulla fibra ottica, che possono (o forse devono) essere presidiati dal plenipotenziario Passera; un’altra garantire un approccio maturo al tema dei diritti; altro tema è l’incentivazione delle startup. È a dir poco impossibile che un unico Ministero assommi competenze tanto diverse.

Già da qualche Legislatura si sono visti nascere (e morire male) dei Ministeri per l’Innovazione, con quasi nessuna forza decisionale e soprattutto alcun potere di cambiare davvero le cose. È vero che chi fa innovazione in Italia è maltrattato o quantomeno non incentivato, ma non è necessario dedicare tempo/fondi di burocrati per risolvere il problema. È un problema di sviluppo economico (e non solo nel senso del Ministero).

La verità è che l’utilizzo di Internet in primis e più in generale un approccio innovativo a produzione, servizi e commercio sono elementi abilitanti, da diffondere in ognuna delle attività del nuovo Governo. Che stia parlando il Ministro della Salute o si stia leggendo una dichiarazione del Ministro del Turismo, la sensazione di padronanza di queste tematiche deve essere naturale, non mediata da ulteriori strutture burocratiche.

Questo Governo avrà per sua natura vita breve, che arrivi o meno alla fine della Legislatura. Ha però tempo sufficiente per insufflare nella nostra vita quotidiana, sia personale che professionale, uno spirito di innovazione. Non è l’età dei Ministri o il loro curriculum a poter dare questa sferzata di vitalità all’economia italiana; è la loro volontà di svegliare lo Staff dei loro Ministeri, poi piano piano l’innovazione arriverà al mercato.

Farse in legalese

"Abbiamo disegnato questo servizio interessantissimo, tra le altre cose lo puoi sottoscrivere con un click sul sito o comprare dallo scaffale del supermercato!" "No."

Il diniego, ovviamente, è quello del Legale. Product Manager e Consulenti vengono frust(r)ati quotidianamente dagli uffici che si occupano di tutelare l'Azienda da possibili ripercussioni dovute a problemi che prodotti e servizi potrebbero arrecare ai Clienti e quindi dalle possibili cause derivanti. In alcuni settori ad alta regolamentazione il Legale si è addirittura sdoppiato in più anime (cfr. uffici "Compliance", ad esempio).

Il risultato dei vari veti, magari incrociati, è che l'esperienza di ingaggio del Prospect, sia essa fisica o virtuale, viene spesso interrotta da cumuli di carta da firmare o da infinite paginate di scrittine in carattere 6 da scorrere su siti e applicazioni per PC e mobile; sarebbe bello scoprire se esista una persona al mondo che legga davvero ciò che firma o che approva con una spunta su "Ho letto e compreso quanto scritto sopra".

Se questa persona esistesse, probabilmente gli verrebbe diagnosticata una qualche malattia mentale. Se questa persona leggesse veramente quanto sta per sottoscrivere, l'apertura di nuovi servizi (ad esempio una carta fedeltà al supermercato o un'assicurazione in agenzia) durerebbe ore. Se questa persona avesse dei dubbi su quanto letto, non troverebbe dall'altra parte del tavolo un interlocutore preparato a rispondergli.

L'immagine è tratta da DogHouseDiaries

Tutta questa farsa si ipotizza tuteli le Aziende a scapito del Cliente, che rimane lì impassibile a mettere firme su pagine contrattuali dai contenuti misteriosi. In ambito Finance è diventata una barzelletta il concetto di "Trasparenza" imposto dal Legislatore, che le Banche hanno declinato nel tempo con la stampa di ulteriori fascicoletti in legalese all'atto dell'apertura e con l'invio (a pagamento!) di analoga fuffa in seguito.

Non se ne esce in alcun modo, perché anche le modalità più avanzate quali gli acquisti con firma digitale, non prescindono dal fatto che il testo incomprensibile in legalese esista, ma semplicemente minimizzano il numero di firme da apportare o le virtualizzano. Gli uffici legali interni ed esterni continueranno a prosperare sulla paura delle Aziende, i Clienti continueranno a ritenere che le stesse li stiano prendendo in giro.

Le Elezioni, la matita copiativa e i manifesti elettorali

Esistono decine di milioni di elettori che, in tutta Europa, oggi non potranno votare. Si tratta di quei cittadini che, in diversi Stati, si trovano lontano dalla città di residenza, ma comunque all’interno del proprio Paese. Per quanto paradossale, se fossero cittadini residenti all’Estero, il proprio Stato di origine garantirebbe loro la possibilità di voto tramite le proprie rappresentanze consolari. Al contrario, nulla viene loro garantito se non si impegnano, a spese proprie, a tornare alla città di origine appositamente per votare. In altre parole: uno studente campano che fa l’Università a Torino non voterà mai, ma suo cugino, i cui genitori sono emigrati in Canada decenni fa, sì.

Si tratta solo di una delle mille situazioni imbarazzanti che, ad ogni tornata elettorale, i cittadini italiani si trovano a scontare. Centinaia di milioni di Euro spesi ad ogni consultazione, per garantire agli elettori di esprimere le proprie preferenze secondo regole che, nella maggior parte dei casi, risalgono ancora al Testo Unico del febbraio 1948. Altre centinaia di milioni di Euro spesi in campagne elettorali estenuanti, fatte di santini elettorali, fac simile di schede, tribune elettorali in televisione e soprattutto di brutti e ingombranti cartelloni elettorali, abusivi o magari esposti per poche ore, giusto il tempo che qualche big spender copra i manifesti del concorrente, magari dello stesso partito.

Meraviglia che, nel furore rivoluzionario che ha contraddistinto questi mesi da Ministro, Brunetta non abbia pensato ad intervenire in qualche modo su questo argomento, se non altro attraverso un’adeguata moral suasion nei confronti del Ministro dell’Interno, che è il sacerdote quasi unico di queste messe che, ormai annualmente, vengono celebrate in Italia al debutto dell’estate. Messe antiquate, tenute in edifici pubblici fatiscenti presidiati da forze dell’ordine che sbadigliano e presidenti di seggio intenti a consegnare agli elettori le matite copiative. Nemmeno la consolazione della penna biro come in Francia e in Germania: figurarsi chi vuole pensare al voto elettronico.

Eppure, sarebbe ora. Si risparmierebbero fondi, si aumenterebbe la partecipazione degli elettori ma anche la sicurezza e la velocità delle operazioni. Si potrebbe permettere di votare via Internet, lasciando un piccolo numero di seggi sul territorio in cui ospitare totem dedicati a coloro che amano crogiolarsi nel digital divide. E invece no: per decenni, ancora, continueremo a tenere in ballo un carrozzone in cui comunicazione pubblica e comunicazione politica danno il loro peggio. In attesa del prossimo referendum, in cui qualche migliaio di cittadini coscienziosi vorrà a tutti i costi esprimere il proprio voto, sapendo a priori che il quorum, come al solito, non verrà nemmeno lontanamente raggiunto.

Lo Stato che ama/odia Internet (e noi?)

Non si riesce, francamente, ad avere una posizione precisa sul tema della pubblicazione integrale dei dati fiscali degli Italiani che il viceministro Vincenzo Visco ha predisposto negli scorsi giorni. Si inizia una riflessione a mente fredda e si arriva a pensare “Ottima idea, visto che così si sa chi paga veramente le tasse in Italia!”. Poi subentrano sentimenti come paura e invidia e si arriva a domandare “Ma se poi i ladri leggono i redditi dei benestanti e vanno a scassinare le loro villette?” oppure “Perché X dichiara un reddito così basso quando è un noto professionista locale?”.

Non è una coincidenza, tuttavia, che questo stato di incertezza accompagni un po’ tutte le (ormai numerose) iniziative dello Stato che vanno verso un maggior utilizzo della Rete nell’interazione tra uffici della Pubblica Amministrazione e soprattutto cercano di migliorare l’interazione tra cittadini e Stato stesso: tutti gli heavy user di Internet in Italia ricorderanno, ad esempio, l’improbabile obbligo di mandare copia dei siti alla Biblioteca Nazionale di Firenze e le infinite polemiche che ne scaturirono, le nette prese di posizione a favore e soprattutto contro l’iniziativa.

Siamo in uno Stato in cui il Presidente della Repubblica parla di un «mondo aggressivamente multimediale» per motivare i giornalisti della carta stampata a detrimento dell’informazione via Web, ma in cui lo Stato stesso, ormai da tempo orientato sulla strada dell’e-mail certificata, ha nel tempo scoperto i potenziali risparmi che un uso accorto di questi strumenti possono presentare nella perigliosa lotta alla burocrazia e ai suoi costi mostruosi. Noi, però, continuiamo a guardare in maniera preconcetta a qualsiasi decisione statale, senza essere mai convinti davvero della “buona fede” di queste iniziative.

Capita così che nelle stesse ore in cui è stata resa nota una nuova piccola-grande rivoluzione in ambito Giustizia, con un rinvigorito approccio all’uso dell’e-mail certificata tra i Tribunali, la nostra attenzione è andata agli strali di Beppe Grillo contro Visco e la sua idea (teoricamente) anti-evasione. In fin dei conti, il problema non è l’improvvisa impennata della presenza dello Stato sul Web: è l’enorme sfiducia che abbiamo l’uno per l’altro. In un Paese perfetto, non si arriverebbe a parlare di aggressività multimediale e ad esercitarla per accusare lo Stato di essere governato dai mafiosi come ha fatto Grillo.

Tutto bene ciò che finisce bene (dopo aver perso tempo e risorse)

È passato quasi un anno e mezzo da quando, su queste pagine, si gridava vendetta per la brutta vicenda vissuta da commeurope.it: un tempo quasi infinito per i ritmi veloci della Rete, un periodo quasi invisibile per la burocrazia. Riassumendo la vicenda: dopo circa 7 anni di registrazione, il dominio commeurope.it era stato rubato da cybersquatter olandesi; a nulla erano valse le richieste inoltrate alla Registration Authority Italiana per far notare la guerra che si era sviluppata in poche ore intorno al dominio, rapidamente finito sulle pagine pubblicitarie dei domain trader grazie ad un “banale” (ma evidentemente ambito) PageRank 4. Non era bastata nemmeno una denuncia formale presentata alla Polizia Postale: il Nic non si muove a meno di non obbligare la controparte a comparire davanti al giudice.

Da notare che gli estremi per la denuncia e per la revoca del dominio c’erano tutti: i cybersquatter avevano trasformato il dominio in un ricettacolo di link-spam, utilizzando però alcune pagine originali prese da .commEurope per mostrare comunque dei contenuti legittimi ai motori di ricerca. Un caso ai limiti del phishing, insomma: nonostante il blog andasse avanti sul dominio ufficiale e sebbene gli articoli “fotografati” fossero fermi a diversi mesi prima, alcuni lettori di .commEurope scrivevano e-mail del tipo «Come mai il blog non è più stato aggiornato?» (inquietante, bisogna dire). Il buon posizionamento sui motori di ricerca faceva il resto nel portare traffico agli spammer, fin quando dopo qualche mese di agonia Google ha deciso di declassare il PageRank dei link in ingresso e di fatto di far scomparire commeurope.it dall’indice.

I cybersquatter hanno perciò capito l’inutilità di mantenere un dominio ormai spompato e non lo hanno rinnovato. La Registration Authority li ha tutelati come da nuovo Regolamento per ulteriori 3 mesi e mezzo (…) aspettando un loro eventuale ripensamento, poi finalmente ha riaperto (pur con qualche limitazione) la possibilità di registrarlo. Morale della favola: ora commeurope.it è tornato ad avere il suo titolare storico, ma è solo una scatola vuota con un unico redirect a .commEurope, nessuna presenza sui motori di ricerca ed un’inclusione nelle blacklist come splog. Alla fine, evidentemente, è stato solo un grande dispendio di tempo e risorse da parte di tutte le risorse coinvolte: nessuno ha ottenuto vantaggi da questa situazione assurda, il Nic ha dovuto “trattare” decine di fax e .commEurope ha perso qualche visitatore stufo di non vedere l’home page aggiornata (sigh).

La storia è istruttiva per noi, ma non per gli spammer. Con anni di ritardo solo da poche settimane l’ICANN ha iniziato a studiare le dinamche del domain tasting, un fenomeno che ormai riguarda oltre 9 registrazioni su 10 di domini .com e .net (nel resto dei casi, va forte il front running). Un vero e proprio inferno, che toglie qualsiasi voglia di registrare “veri” domini a navigatori privati e ad aziende che non hanno voglia di sbattersi in tribunale per far valere i propri diritti. Un Far West che va molto al di là delle strategie di marketing e che sfocia direttamente nella criminalità: pensiamo a cosa succederebbe se anche nel mondo reale fosse così difficile difendere il proprio buon nome, la propria immagine e i propri marchi. Una volta tanto, insomma, la Rete deve imparare dal mondo fisico. E imparare tanto.

C’è qualcosa che non funziona alla Registration Authority

Che fine ha fatto commeurope.it? Come mai al posto di questo noiosissimo blog appare una pagina verdastra vuota di contenuti ma piena di pubblicità? Pur ammettendo che si sia fatto un salto di qualità tra il nulla pneumatico di questi post e quello fisico dello splog, dispiace un po’ vedere tanti link sparsi sui blog di amici e lettori diretti ad un dominio accaparrato dalla “mala dei domini”, quella specie di mafia diffusa che lucra sui problemi burocratici altrui. Problemi che, si noti, vengono per la stragrande maggioranza dei casi causati dalle Registration Authority di tutto il mondo, con la connivenza dei mantainer. La storia è sempre uguale a qualsiasi latitudine:

  • il legittimo proprietario del dominio richiede il rinnovo o il trasferimento del dominio;
  • la Registration Authority rifiuta la richiesta adducendo futili imprecisioni;
  • gli avvoltoi che tenevano d’occhio il dominio presentano una richiesta di registrazione;
  • la Registration Authority concede la registrazione a questi cybersquatters ed ignora le proteste del proprietario storico ed i nuovi tentativi di registrazione.

Alle lamentele del malcapitato, la Registration Authority di turno risponde con “Non c’è problema, se ce lo dice il giudice le restituiamo il dominio”. In questo, il Nic italiano è maestro: l’abbiamo visto con casi celebri come Cellulari.it, storica rivista digitale che ha perso il proprio dominio (e quindi la ragione stessa del proprio essere on line) a causa di un presunto fax illeggibile e lo ha riottenuto solo dopo una lotta presso il Tribunale, che ne ha riconosciuto la dignità di testata registrata.

Nessuna remora da parte dell’ente toscano né dei mantainer: basta pagare i pochi spicci della registrazione annua e loro si chiudono le narici e registrano tutto a tutti. Da notare che è il nuovo tenutario a decidere se si accetta o meno la procedura di arbitrato irrituale: ovviamente nessuno spammer lo fa e pertanto è implicito che qualsiasi splog dovrebbe essere impugnato davanti al giudice. Chi ha voglia di assumersi le spese, quando il dominio ufficiale https://www.commeurope.com è (toccando ferro) attivo?

Basta scorrere gli innumerevoli tentativi di registrare il dominio commeurope.it da parte di non meglio identificati richiedenti stranieri per comprendere che si è trattato di una guerra per occupare un dominio con un posizionamento decente sui motori di ricerca. A nulla sono valse le lettere di protesta quando la guerra era in corso e le telefonate all’eternamente occupato centralino della Registration Authority: quando finalmente qualcuno ha risposto, lo ha fatto solo per far notare, con molto disprezzo, che il dominio sarebbe stato registrato ad altri. Tanto, come al solito, basta andare dal giudice.

Chi ha inviato il proprio sito a Firenze?

Era proprio l’11 maggio, ma del 2004, la data fatidica in cui lo Stato sembrava prendere il sopravvento sulla Rete: il giorno dopo sarebbe entrata in vigore la Legge 106/2004, quella aveva creato uno scompiglio notevole tra webmaster professionisti ed amatoriali, vista l’ipotesi (anzi, l’obbligo) di dover inviare, su base periodica (entro 60 giorni dalla pubblicazione) copia del proprio sito alla Biblioteca Nazionale di Firenze.

Nei giorni in cui Nick Berg veniva decapitato, ci si chiedeva quali fossero le conseguenze, pratiche e teoriche, di questo soffocante vincolo: molti si sarebbero presto stufati di rischiare multe su multe per tenere in vita il proprio sitarello personale. Ancor peggio per i blog, che essendo aggiornati su base quotidiana rischiavano di venire travolti, nella stessa loro natura, da questo tipo di farneticazione legislativa.

Fu la BNF stessa, qualche giorno dopo, a cercare di calmare le acque, temendo una terribile invasione di CD-Rom contenenti siti di ogni natura: il comunicato della direzione invitava espressamente tutti a deporre le armi e rilassarsi, in attesa del Regolamento attuativo, previsto nei sei mesi successivi. Regolamento che, però, non è mai arrivato.

Nel Comunicato della Biblioteca Nazionale, d’altra parte, si indicava che, insieme alle consorelle di tutto il mondo, anche la nostra aveva dato avvio all’International Internet Preservation Consortium, un sistema di crawling utile per “salvare” memoria delle informazioni pubblicate sula Rete. Le notizie, sul sito ufficiale, si fermano proprio al maggio 2004. Cosa è avvenuto, nell’ultimo anno? Finita la voglia di memorizzare il memorizzabile (e non)? Fortunatamente, l’Internet Archive continua a funzionare, nel silenzio, ma con discreta efficacia.

Berlusconi vende? Si vende Berlusconi

Prove tecniche di cybersquatting: nel giorno in cui Berlusconi vende Mediaset, è possibile comprare Silvio Berlusconi e Forza Italia. A prezzo di costo della gestione annuale del dominio .biz, ovviamente: non per guadagnarci, ma per fare una sorta di “esperimento” in vista dell’avvio delle assegnazione dei domini .eu.

Qualcuno ancora sostiene il cybersquatting? Tutti ne siamo stati vittime e difficilmente si ha simpatia per chi compra domini solo per rivenderli: cosa accadrà con i domini .eu? Quanti casi di corsa allo stockaggio ci saranno?

Riuscirà il foro di Praga a sbrogliare tutte le matasse? Riuscirà il fantomatico consorzio EURid a mantenere fluente la procedura di registrazione, gli arbitrati, i cambi, le assegnazioni o finirà sepolto dalla burocrazia tipica del socio Nic.It?

Chi avrà il coraggio di attribuire domini di senso comune come house.eu o cheese.eu o pomodoro.eu? I domini avranno successo commerciale o faranno la stessa fine ingloriosa delle “nuove estensioni” di qualche anno fa o di quelle in via di definizione?

Per investire nel mondo delle comunicazione europee ed avendo un po’ di soldi in più, forse sarebbe meglio acquistare televisioni che domini: il business, “qualcuno” lo dimostra, tira sempre molto di più di quello in Rete.

Basta un’e-mail, basta pagare

Secondo Stanca, mandare una comunicazione allo Stato costa 20 Euro. Con la nuova normativa sulla Posta elettronica certificata, approvata oggi dal Consiglio dei Ministri, il prezzo della comunicazione dovrebbe arrivare a circa 2 Euro. Con tutti i vantaggi, economici e non, che l’uso della posta elettronica comporta.

Vantaggi che, tuttavia, non sono poi così immaginifici: tutta la flessibilità che ha reso l’e-mail prima lo strumento principe nella comunicazione aziendale e poi l’ha travolto per l’eccessiva presenza di virus e spam, si perde definitivamente tra i meandri della burocrazia. È vero, le comunicazioni saranno “protette”, di fatto blindate: ma l’uso quotidiano di questi strumenti è praticamente fuor di luogo. Il vantaggio di uffici pubblici e privati paperless si scontra con l’uso proibitivo del mezzo.

Il Ministero usa più volte la metafora della posta raccomandata, con ricevuta di ritorno: il mezzo più vetusto per comunicare formalmente con enti pubblici, aziende e cittadini, eppure l’unico riconosciuto dalla Normativa. Accettando la metafora, l’e-mail tradizionale sarebbe equiparabile alla posta tradizionale, lo spam alle direct mail non troppo targetizzate che intasano le caselle postali nel meatspace. Il dubbio, allora, è: perché non proporre una via di mezzo, una sorta di posta prioritaria?

Ognuno di noi, soprattutto nella burocratica Europa, ha la necessità di comunicare velocemente anche con istituzioni ed aziende. Ma non sempre, ad esempio, si potrebbe aver voglia di comunicare al proprio capo una giornata di malattia utilizzando i fantasiosi kit proposti dai certificatori, di fatto tutti soggetti riconducibili al mondo bancario, sebbene la fase di sperimentazione aveva visto interagire aziende di tutte le dimensioni, anche private, magari specializzate in e-business e dintorni.

Basterebbe un’e-mail un filo più sicura di quella tradizionale: qualcosa di pagabile pochi centesimi (millesimi, magari) di Euro, ma che di sicuro arrivi al destinatario senza essere scambiata per spam, anche allegando documenti pesanti o eseguibili. Ed invece no, la via europea (soprattutto quella italiana) all’e-mail certificata non ammette vie di mezzo: o un’e-mail gratuita senza nessuna valenza legale, o un pacchetto blindato che, si spera, forse verrà letto da quegli impiegati che, prima, dovrebbero imparare ad utilizzare quella base.