Brianza triste, Italia triste

Pare ci sia stata una vera e propria rivolta da parte dei brianzoli nei confronti di Paolo Virzì, colpevole di aver ritratto nel nuovo film Il capitale umano una terra inumana, popolata da poveri arricchiti e ricchi impoveriti dalla crisi pesante che abbiamo vissuto negli scorsi anni, sia sul fronte produttivo che su quello finanziario.

Il film è bello come la quasi totalità di quelli del regista toscano, che riesce sempre a raccontare storie umane in profondità pur nell’alveo ristretto di una storia al cinema; le novità profonde sono il tono giallo/noir e le tre viste diverse sullo stesso plot narrativo, che si sviluppa lungo diversi mesi, tra speranze e rammarichi.

La Padania presentata nel film è fredda dello stesso freddo che stiamo vivendo tutti noi, non solo meteorologico: è uno specchio in miniatura del nostro Paese, con qualche tono più esasperato dal fatto di essere stata una delle locomotive d’Italia e di ritrovarsi oggi stretta dalla morsa di crediti inesigibili e magazzini pieni.

Nel film di Virzì manca quasi del tutto la vena positiva, che pur contraddistingueva gioielli come Ovosodo e faceva capolino nel pur drammatico La prima cosa bella; d’altra parte la scelta è comprensibile, perché non è solo la Brianza a essere triste in questo periodo, lo è tutta l’Italia e lo è purtroppo da troppi anni.

Zalone e Volo

Scorrere le classifiche cinematografiche di questo 2013 guidate dal film di Checco Zalone crea quasi un effetto distorsivo: è un successo talmente fuori scala che per essere raggiunto in termini di numeri di spettatori e fatturato richiederebbe la somma di decine di film italiani usciti negli stessi mesi. Quindi c’è chi dice “il cinema italiano non è morto se può arrivare a 50 milioni di Euro di biglietti venduti” e qualcun altro che dice “Il cinema italiano è morto se l’unico film di successo è Sole a catinelle”.

Se invece si dedica l’attenzione alle classifiche dei libri, spunta più volte il nome di Fabio Volo. I numeri complessivi sono imparagonabili visto il ristretto mercato editoriale italiano, ma l’impatto culturale non è dissimile: quando l’autore bresciano ha scritto su Twitter che gli avrebbero dedicato un volume dei Meridiani, molti sono rimasti sconvolti. Eppure, considerando alcuni dei volumi in finta pelle usciti per la celebre collana, le sue opere non sarebbero poi così stonate. Sicuramente più conosciute.

Il tributo delle masse nei confronti di Zalone e Volo è ampio ed è ormai consolidato da tempo; i critici si sono ritrovati a valutare le opere ed esprimere pareri più o meno positivi per il primo, anche per evitare di sembrare gli alfieri della torri d’avorio; il secondo ha pubblicato un articolo sull’inserto culturale del Corriere della Sera il cui contenuto più o meno era spiegare ai critici il perché meritava di pubblicare un articolo sull’inserto culturale del Corriere della Sera. E tutti i critici giù a parlarne.

Sarebbe bello fare un passo indietro di decennio in decennio per capire come i protagonisti culturali di ogni epoca venivano percepiti dai propri contemporanei. De Sica padre aveva un’accoglienza diversa di De Sica figlio? I marchigiani si strappavano le vesti in favore di Giacomo Leopardi? I filmetti softcore con le attrici discinte oggi tanto rivalutati avevano un’accoglienza positiva della critica? Ogni rappresentazione di Giuseppe Verdi era un successo? Le tirature di Italo Svevo erano così alte?

Non si vuole dire che fatturato da favola al cinema o in libreria sia sinonimo di qualità; i casi negativi in tal senso non mancano di certo, soprattutto in ambito audiovisivo. Si sottolinea solo che se delle opere culturali esprimono lo spirito del tempo solleticando le emozioni di chi ne usufruisce, il successo è meritato e non merita la damnatio memoriae e l’accusa di superficialità. Senza dimenticare che, se le relative industry sono così in crisi, ben vengano i soldini preziosi di Zalone, Volo e si spera molti altri.

Un Natale triste triste

Il fatto che l’entusiasmo diffuso (…) per questo Natale faccia tornare alla mente i commenti di fine 2008 è un pessimo segno: a primo acchito vuol dire che abbiamo perso 3 anni di sviluppo non solo economico; nella realtà, molti di noi sanno che se in quell’occasione un ultimo trimestre nero aveva fatto da porta di ingresso a un 2009 drammatico, stavolta già il 2011 è stato abbastanza disastroso e nessuno osa davvero fare previsioni per il 2012.

A quei tempi si parlava del cinepanettone di De Sica & C. come spauracchio della crisi “degli altri”, di un atteggiamento di ironia verso la crisi finanziaria di origine statunitense ma con impatti che appunto si sarebbero fatti vedere in Europa qualche mese dopo; ora persino i più stoici amanti del genere hanno dichiarato l’edizione 2012 come estremamente noioso. Molti concorderanno sul “c’è poco da ridere”, ma chi è andato al cinema voleva “staccare”.

Scorrendo gli archivi di quelle settimane di festività “grigie” su .commEurope, si trova anche un amaro augurio di inizio 2009 verso il mondo della pubblicità. Fin troppo profetico: anche se parte del mondo business si è ripreso almeno nel 2010, le agenzie di comunicazione hanno iniziato a dimagrire nel 2009 e di fatto ora sono in piena fase di crisi. Il sempre ottimo Bad Avenue pubblica vademecum per licenziati e sempre più specialist rimangono a casa.

Alcuni di noi vorrebbero cancellare questi mesi, che hanno in molti casi azzerato patrimoni e/o redditi; altri vorrebbero chiudere gli occhi e risvegliarsi a Natale 2012, sperando di festeggiare i germogli di quella che al momento sembra essere un’improbabile ripresa o quantomeno un nuovo-2010-alias-anno-appena-decente. In Francese si dice “Joyeux Noël”; di gioia però, in Europa al momento se ne vede davvero poca. Siamo invasi dalla tristezza.

Autarchia culturale edizione 2011

Una classifica musicale composta da 13 artisti italiani nelle prime 15 posizioni: no, non post-Sanremo, ma prima di Sanremo. Una lista guidata da Jovanotti, con nomi ormai consolidati come Ligabue o Antonacci, con qualche nome più recente come Mengoni o i Negramaro; una lista non troppo dissimile a quella attuale, in cui sono apparsi i nomi dei principali protagonisti del Festival, ovviamente italiani.

Oggi il mix tra cantautori e interpreti "da reality" è molto omogeneo: un personaggio come Alessandra Amoroso ormai ha fatto un percorso professionale fuori dalla scuola di Amici sufficiente a levarle (o quantomeno limarle) la lettera scarlatta; stasera, che quel talent show è alla finale, è previsto un intervento di Roberto Vecchioni, la cui immagine pubblica ha avuto un cambio radicale dopo Sanremo.

In questa sorta di compattamento inter-generazionale di pubblico e artisti, è appunto la canzone italiana a trionfare, rispetto ai grandi nomi internazionali. Qualcosa di simile a quanto avvenuto nel cinema: appena poche settimane fa ha fatto scalpore l'arrivo di Che bella giornata di Zalone/Nunziante al secondo posto per incassi storici nei cinema italiani, incastrato tra Avatar e Titanic di James Cameron.

In entrambi i campi il trionfo dell'italianità era abbastanza imprevedibile: il cinema italiano ogni anno sembrava schiacciato sul cinepanettone come unico film nostrano di successo; Sanremo fino a pochi anni fa produceva fuochi fatui più che successi commerciali. A metà strada tra i due percorsi, attingendo in entrambi i campi (e dalla televisione) persino il musical italiano ha conosciuto una nuova giovinezza.

L'unico campo in cui l'italica autarchia culturale è ancora sfumata sembra essere quello della letteratura. Negli anni recenti si sono affermati blockbuster italiani come quelli di Giorgio Faletti, ma il mercato è ancora abbastanza variegato e i mattoni internazionali per ragazzetti sono le opere che vanno per la maggiore. In ogni caso, è bene che continui la contaminazione piuttosto che ci si chiuda del tutto.

Fa infatti piacere che artisti giovani e meno giovani trovino successo in patria, ma il vero successo sarebbe portare tutti questi capolavori musical-cinematografici fuori confine. Ciò tuttavia è ancora piuttosto raro e forse fa sorgere qualche dubbio sul rapporto tra qualità e aspettative del pubblico. Non sia mai che tutto quest'innamoramento per le produzioni italiane derivi da pigrizia intellettuale verso il mondo…

I videogiochi stracciano i film

Sebbene siano ormai passati diversi lustri da Titanic e dalle sue notti stellate fatte col Paintbrush di Windows 3.1, ancora oggi non è così infrequente trovare film realizzati anche con budget importanti, ma con effetti speciali terribili: i film in 3D in questo senso non brillano per naturalezza e fluidità dei panorami. La bellezza e il successo di Inception forse derivano anche dall’uso contenuto di effetti speciali.

Negli scorsi anni, una tipica battuta all’uscita del cinema era «Sembra di aver visto un videogioco», con riferimento ai giochi che ci avevano abituato a texture tridimensionali e scenari un po’ finti, ma in qualche modo derivanti dalla potenza limitata dei nostri calcolatori. In realtà, negli ultimi anni la qualità grafica dei videogiochi ha raggiunto vette eccezionali. Ora si sente dire: «Questo videogioco sembra un film!»

Escono i film e contestualmente vengono rilasciati videogiochi che riprendono atmosfere e sceneggiature complesse, ispirate ai film stessi; allo stesso tempo, sempre più frequentemente film di successo vengono tratti dai videogiochi, un po’ come un tempo avveniva con i fumetti. In qualche modo anche lo sviluppo qualitativo dei film in animazione (Pixar insegna) ha contribuito a questa progressiva convergenza.

In un simile contesto, fa sussultare ma non sorprende che Call of Duty Black Ops, un nuovo videogame tridimensionale di Activision Blizzard, abbia battuto i record di incassi sui primi cinque giorni, arrivando a 650 milioni di dollari. Si badi: i record sono quelli per l’intero settore dell’entertainment, quindi il gioco in questione ha superato in scioltezza anche qualsiasi film o album musicale uscito nella storia.

Per avere un metro di paragone, si può osservare il successo di Avatar: negli scorsi mesi ha superato il Titanic come film con maggiori incassi della storia e dopo circa un anno dall’uscita ha incassato 2,7 miliardi. È probabile che Call of Duty Black Ops non arrivi a un incasso totale di simili dimensioni, ma c’è un fattore che il film non potrà mai superare rispetto al film: il tempo speso per usufruirne.

Pur assumendo che qualche fanatico dallo stomaco forte abbia visto Avatar più di una volta, non potrà mai aver speso nemmeno una frazione del tempo che un utente medio del videogioco passerà, giocando in locale o in multiplayer, con la puntata in questione (la settima) della saga Activision Blizzard, con le precedenti o con quelle che sicuramente usciranno nei prossimi anni, con tempi di logorio lunghi del marchio.

Non è difficile immaginare che le console di gioco saranno un must delle prossime vacanze natalizie. Nonostante i tre modelli principali (Wii, PS3 e XBox 360) abbiano ormai diversi anni sulle spalle, tecnologie come Kinect stanno riuscendo a far breccia anche nel pubblico un tempo poco sensibile al videogaming. Magari quello che un tempo spendeva il tempo (e i soldi) al cinema o ascoltando musica.

Requiem per Blockbuster e i suoi fratelli

L’etichetta di “zombie” venne affibbiata a Blockbuster a inizio 2006 da Edward Jay Epstein; sebbene i debiti fossero ancora sotto controllo, la puzza di cadavere iniziava ad aleggiare, soprattutto negli Stati Uniti. Netflix erodeva già fette consistenti del mercato del noleggio DVD e WalMart era ormai il primo player nella vendita di film, ma il peso della catena si sentiva ancora sulle decisioni più importanti nell’industria cinematografica. Non a caso l’aver dismesso il formato HD DVD da parte di Blockbuster era stato uno degli eventi che aveva dato via libera al Blu-Ray.

In Europa le cose andavano un po’ meglio, ma i tempi in cui i videonoleggi erano le attività presentate come “più promettenti” sui cataloghi di franchising, seppur distanti pochissimi anni, erano anche “culturalmente” lontani. Blockbuster si dedicava nel frattempo alla compravendita di videogiochi usati come sorta di business anticiclico, ma senza abbattere in maniera sensibile il pricing del core business. Al contrario, Blockbuster negli ultimi anni ha sì lanciato qualche promozione sui film in stock, ma si è ben guardata dal togliere balzelli come la multa per le consegne in ritardo.

Quando nella primavera dello scorso anno Alberico Tremigliozzi ha parlato di Chapter 11 sul suo blog, ha avviato una discussione tra Clienti e Dipendenti dei punti vendita Blockbuster, quasi tutti concordi nel definire fuori mercato il modello economico dell’azienda e ancor più della filiale italiana. Nel frattempo negli ultimi mesi sono spariti decine di punti vendita da città grandi e piccole, a causa di un mercato quasi del tutto asfittico come quello italiano, in cui la già flebile richiesta di cinema “premium” è servita (per chi può permetterselo) da TV satellitari e digitali.

La vetrina delle offerte di un videonoleggio a Reggio Emilia

Oggi che il fallimento di Blockbuster è più di un’opzione, più che la prevedibile morte della catena piangiamo anche l’imminente dipartita delle videoteche indipendenti che, come dimostrano vetrine così, ormai sopravvivono solo con offerte super-stracciate per i cinefili. Persino i film hard o le cibarie, come si nota, sono in saldo: i videonoleggi sono ormai di attività economiche rare, addio alle piccole miniere utili a chi volesse rivedere film magari vecchi, o magari comprare e conservare un disco cui si era particolarmente affezionati, magari non esattamente una pellicola di cassetta.

I Blu-Ray non avranno lo stesso successo del DVD proprio perché stanno lentamente sparendo i punti vendita propensi a vendere contenuti su disco, musicali o cinematografici. Muore Blockbuster come qualche anno fa morivano i negozi di dischi, spariscono i reparti dalla GDO e rimangono disoccupati migliaia di dipendenti e piccoli imprenditori. È un trionfo dopo l’altro della “bassa definizione”, è uno iato che si ampia tra chi può permettersi di andare quando vuole al cinema e chi si accontenta di quello che passa la TV di sera in sera, senza più opzioni alternative sotto casa.

La fine ingloriosa della coda lunga

Visto che in Rete tutto si muove per simpatie/affetti/innamoramenti, persino quando si parla di economia/marketing/trend di mercato, non è difficile ricordare le migliaia di messaggi eccitati a proposito di Chris Anderson e della sua coda lunga. Lettori o meno di The Long Tail, tutti ci sentivamo in diritto di esprimere il nostro parere su un’idea rivoluzionaria: che sarebbero stati i micro-gusti, le decisioni individuali, le tendenze sotterranee e non più le imposizioni dall’alto a guidare le evoluzioni dei principali settori economici, industria culturale in primis.

Mentre ci imbottivamo di gadget tecnologici uguali per tutti (leggi iPod) e rendevamo di massa anche quelli nati come “di élite” (leggi iPhone), dichiaravamo che li avremmo riempiti di materiali sonori di gusto sopraffino e peculiare, finendo poi per saturarli di hit estive e tormentoni della pubblicità. Lo stesso fenomeno poi visto anche in termini di libri e film: leggermente più guidati dal passaparola i primi, totalmente guidati dai gusti di massa i secondi. Qualche piccola stellina in ambito editoriale, le solite stellone in ambito cinematografico.

Negli scorsi giorni, The Economist ha evidenziato che il re è nudo. Con un dossier equilibrato e non gridato, ha rilevato il successo del vampiresco New Moon e ha ipotizzato un probabile successo di Avatar, a confermare la rinascita dei grandi blockbuster rispetto al previsto boom delle produzioni alternative. I numeri riportati dal giornale sono impressionati e dovrebbero far fischiare le orecchie a Chris Anderson che, nel frattempo, fa finta di aver parlato sempre e solo di “altro”, concentrando la sua attenzione sul mercato delle news.

Può essere che il destino florido della coda lunga sia stato limitato dai limiti cognitivi dell’uomo, più propenso a seguire il gregge piuttosto che individuare nicchie appassionanti. Il problema è che le evoluzioni del mercato per inseguirla hanno esiti imprevedibili: ad esempio, si lancia il digitale terrestre per aumentare il numero di canali a disposizione dell’utente, poi li si nasconde ancora di più di come avveniva sulle frequenze analogiche. Abbiamo inseguito il mito del meglio per ognuno, siamo finiti sotto il giogo del meno peggio per tutti.

Baarìa e l’epica fai da te

Baarìa, il film definito “kolossal” girato negli ultimi due anni da Giuseppe Tornatore, sicuramente sbancherà i botteghini. Notizia probabilmente positiva, visto che gli unici film che realmente riescono a fare mercato in Italia sono quelli natalizi a base di battute insulse. Il film di Tornatore e quei film, comunque, qualcosa in comune ce l’hanno: la presenza asfissiante di vip e starlette di chiara matrice televisiva. Parte del successo quindi sarà anche merito loro, più che della presupposta liricità dell’opera ambientata a Bagaria.

Il film non è brutto, ma è lontano anni luce da Nuovo Cinema Paradiso. In quell’occasione, Tornatore aveva girato una pellicola capolavoro e vinto un meritatissimo Oscar. Stavolta, ha cercato di girare una pellicola da Oscar, ma difficile da definire capolavoro. Baarìa sembra più l’unione di un paio di puntate delle serie televisive che vanno tanto di moda in Italia, più che un film da 30 milioni di Euro. Ovviamente è piaciuto a Silvio Berlusconi che l’ha prodotto e sostenuto pubblicamente: è un buon ritratto dell’Italietta da cartolina.

In questo film i Comunisti sono buoni ma sciocchi, ottimisti ma corrotti. I mafiosi sono invisibili ma potenti, negativi ma utili. Si va avanti così, di luogo comune in luogo comune, riuscendo solo in parte a restituire la magia culturale che ha dato vita a Renato Guttuso, Dacia Maraini, Ignazio Buttitta e Giuseppe Tornatore stesso. Si va avanti e indietro nel tempo per due ore e mezzo, con un montaggio che fa fatica a inseguire la visione onirica del regista e una fotografia che non brilla certo per originalità (qualcuno li ha definiti “omaggi”).

Sopra tutto questo e sopra le musiche di Ennio Morricone, c’è tuttavia un fattore che è veramente, ma veramente debole. Baarìa racconta la storia di un uomo qualsiasi, troppo qualsiasi per essere interessante. Tutti noi vorremmo raccontare in un libro o in un bio-pic le storie dei nonni partigiani o dei genitori migranti e può essere che alcuni di noi riuscirebbero a scrivere storie appassionanti ed auto-conclusive, magari epiche pur se vissute da gente comune. Tornatore non ci riesce, concentrato com’è ad esaltare le figure dei propri parenti.

Tra crisi e crasi

Crisi, crisi, crisi. Non si sente parlar d’altro né nei notiziari economici che in quelli di attualità. L’agenda setting non perdona e così anche per noi “crisi” sta diventando il termine più frequente nei nostri dialoghi tra amici, parenti e colleghi. C’è paura diffusa e si dice che sia dovuta alla crisi. Paura di cosa? Difficile a dirsi: alcuni ovviamente vivono in prima persona le difficoltà del mercato e quindi soffrono davvero subendo casse integrazioni, chiusure di contratti temporanei, cambi drammatici di condizioni economiche. Per gli altri, si tratta soprattutto di temere il futuro.

Se tutti comunicano incertezza, il futuro diventa grigio ancor prima che nero. Le aziende non hanno nemmeno il coraggio di approntare i budget, i manager si bloccano impauriti, i subordinati partono per le vacanze natalizie come se fossero l’ultimo momento di felicità prima del baratro chiamato 2009. Esiste però ovviamente un’industria che deve cercare di rimanere immune dal pessimismo ed è quella che opera sul mercato dell’intrattenimento. Può scherzare con la crisi, può ridicolizzare i comportamenti più irrazionali per dar fiducia a chi ancora può… Ma non può chiudere baracca e burattini.

Ecco così uscire a Natale i film preparati da mesi e lanciati con cura in questo periodo per allietare gli Italiani: Madagascar 2, Aldo Giovanni e Giacomo e soprattutto l’ennesimo cine-panettone con De Sica e conmpagnia. Bisogna pur far ridere le folle e non si può rinunciare agli schemi consolidati della comicità. Entra così in scena la parola più citata in recensioni cinematografiche, trailer e presentazioni di Natale a Rio sugli altri media: si tratta di “crasi”. Che è il termine che dovrebbe riassumere la distanza culturale tra Ghini e De Sica, tra l’Italia “acculturata” (?) e l’Italia dei furbi-simpaticoni-fai-da-te.

La cosa notevole è che l’ormai stra-nota battuta sul misunderstanding del termine “crasi” non verrà capita dai furbi-simpaticoni-fai-da-te che guarderanno il film, cioè la maggior parte degli spettatori di questo filone cinematografico nonché principali vittime della crisi economica attuale. Siamo insomma di fronte ad un delirio collettivo: la popolazione che soffre la crisi va al cinema per sorridere e scopre di dover sorridere fingendo di comprendere battute espresse nel film da un rappresentante dell’altra parte della barricata, quella che si ritiene colpevole del disastro economico. Che incubo.

Tutti al Milano Film Festival!

Furoreggia da qualche ora a Milano la tredicesima edizione del Milano Film Festival, la maratona cinematografica che anche quest’anno terrà svegli i milanesi sino a tarda notte grazie a proiezioni, dibattiti, dj set, concerti. Un evento assolutamente imperdibile per chiunque graviti in Lombardia e dintorni: che si sia raffinati cinefili o adolescenti in calore, si noterà che gli spunti non mancano per nessuno.

L’ampio cartellone, infatti, spazia dal tradizionale concorso di cortometraggi ad una selezione poliedrica di lungometraggi (opere prime), passando per diversi percorsi tematici sponsorizzati e da una retrospettiva su Terry Gilliam che non ha precedenti nella storia: lo stesso regista, presente oggi al Teatro Strehler, si è meravigliato per un tributo talmente ampio e per il notevole affetto del pubblico.

Interessante notare che il pubblico del Milano Film Festival non è variegato solo in termini di interessi culturali, ma anche di età: la coesistenza di film d’essai e di aperitivi all’aperto riesce ad attrarre allo stesso tempo liberi professionisti e studenti universitari come raramente avviene in una città così grande e frammentata come può essere Milano (specie in periodo di ripresa delle attività dopo l’estate).

Per il resto, la bella cornice di Brera (gli eventi si svolgono tra Piccolo, Parco Sempione e Del Verme) ed un abbonamento da 20 Euro (in convenzione con la card de La Feltrinelli) meritano di visitare la rassegna con occhio curioso, anche solo per i corti: alcuni di una bruttezza allucinante, altri romanticamente deliziosi, in particolare le animazioni che si stagliano un palmo sopra gli altri corti in concorso.