La fine ingloriosa della coda lunga

Visto che in Rete tutto si muove per simpatie/affetti/innamoramenti, persino quando si parla di economia/marketing/trend di mercato, non è difficile ricordare le migliaia di messaggi eccitati a proposito di Chris Anderson e della sua coda lunga. Lettori o meno di The Long Tail, tutti ci sentivamo in diritto di esprimere il nostro parere su un’idea rivoluzionaria: che sarebbero stati i micro-gusti, le decisioni individuali, le tendenze sotterranee e non più le imposizioni dall’alto a guidare le evoluzioni dei principali settori economici, industria culturale in primis.

Mentre ci imbottivamo di gadget tecnologici uguali per tutti (leggi iPod) e rendevamo di massa anche quelli nati come “di élite” (leggi iPhone), dichiaravamo che li avremmo riempiti di materiali sonori di gusto sopraffino e peculiare, finendo poi per saturarli di hit estive e tormentoni della pubblicità. Lo stesso fenomeno poi visto anche in termini di libri e film: leggermente più guidati dal passaparola i primi, totalmente guidati dai gusti di massa i secondi. Qualche piccola stellina in ambito editoriale, le solite stellone in ambito cinematografico.

Negli scorsi giorni, The Economist ha evidenziato che il re è nudo. Con un dossier equilibrato e non gridato, ha rilevato il successo del vampiresco New Moon e ha ipotizzato un probabile successo di Avatar, a confermare la rinascita dei grandi blockbuster rispetto al previsto boom delle produzioni alternative. I numeri riportati dal giornale sono impressionati e dovrebbero far fischiare le orecchie a Chris Anderson che, nel frattempo, fa finta di aver parlato sempre e solo di “altro”, concentrando la sua attenzione sul mercato delle news.

Può essere che il destino florido della coda lunga sia stato limitato dai limiti cognitivi dell’uomo, più propenso a seguire il gregge piuttosto che individuare nicchie appassionanti. Il problema è che le evoluzioni del mercato per inseguirla hanno esiti imprevedibili: ad esempio, si lancia il digitale terrestre per aumentare il numero di canali a disposizione dell’utente, poi li si nasconde ancora di più di come avveniva sulle frequenze analogiche. Abbiamo inseguito il mito del meglio per ognuno, siamo finiti sotto il giogo del meno peggio per tutti.

I quotidiani si agitano e si aggregano

Il primo step gli editori italiani lo hanno fatto nel momento in cui hanno iniziato ad aggreggare la versione online di tutte le proprie testate sotto un unico dominio. Prima utilizzando il dominio dell’editore o di un’iniziativa specifica per il canale (pensiamo alla genesi di Kataweb), poi quello della testata principale del gruppo.

Hanno così prevalso i grandi quotidiani, sotto i cui domini, con esiti spesso bizzarri in termini di naming, sono finite anche tutte le iniziative editoriali dei gruppi non riconducibili ad una testata specifica: dai siti promozionali agli annunci di lavoro, tutto ha trovato casa sotto tre-quattro cappelli principali e conosciutissimi.

Questo ha fatto sì che, nelle statistiche pubbliche, questi domini cappello esplodessero in termini di pageviews. La tendenza, peraltro, si è poi vista anche a livello internazionale: è notizia recente la scomparsa del sito dell’International Herald Tribune in favore del New York Times, con clamorosi danni all’indicizzazione dei contenuti.

Quella che invece è una peculiarità del tutto italiana è l’agitazione che ha contraddistinto il mercato a partire dall’annuncio della nascita di Premium Publisher Network, il consorzio fondato inizialmente da Rcs Mediagroup e Gruppo Editoriale L’Espresso poi arricchitosi con l’ingresso dell’Editoriale La Stampa e recenemente di Athesis.

L’agitazione deriva forse dall’entusiasmo di aver osato sfidare, a livello nazionale, i giganti internazionali della pubblicità a performance. In barba a qualsiasi normativa a tutela della concorrenza, il prossimo passo potrebbe essere un bel super-dominio che aggreghi tutti gli editori del consorzio. Tanto, se la concessionaria è la stessa per tutti…

Europeana, simbolo delle grandi sfide culturali contemporanee

Sala gremita, auditorium universitario di una grande città: il docente che sta esponendo le sue slide ad un certo punto cita Europeana. Con la coda dell’occhio nota il viso perplesso di uno studente e gli sorge un dubbio. Si interrompe e chiede a tutta la platea, formata da docenti e studenti, quanti conoscano Europeana. Qualche docente bofonchia, solo uno studente annuisce.

Ci sarebbe da scommettere che lo studente conoscerà Europeana più per le difficoltà incontrate al tempo del rilascio lo scorso novembre che per un effettivo utilizzo in prima persona della piattaforma a fini di ricerca e approfondimento. Eppure, Europeana sembrerebbe fatta apposta per accompagnare studenti e docenti nella conoscenza della cultura europea.

Il progetto è infatti ambizioso: Europeana vuole censire e condividere fino a 10 milioni di opere culturali e artistiche prodotte nel corso dei secoli nei vari Stati dell’Unione Europea. Una volta risolti i problemi tecnici legati all’eccessiva curiosità dei cittadini ai tempi dell’annuncio, dovrebbero già essere consultabili oltre 2 milioni di opere, a titolo completamente gratuito.

Europeana è diversa da Google Book Search e da Wikipedia: si tratta di un progetto internazionale senza scopo di lucro (ciò la differenzia dall’iniziativa di Google e dai vecchi tentativi di Microsoft) ed è seguito da un gruppo di professionisti (ed in questo diverge dalla seconda). Una sfida enorme, che ben rappresenta opportunità e difficoltà di questo tipo di progetti.

L’Unione Europea sembra aver deciso di accettarla, insieme ad altri investimenti culturali finalizzati alla condivisione dell’enorme patrimonio proprio di questo Continente. La preoccupazione è che, spaventati dai risultati di pubblico prevedibilmente marginali, i gestori della piattaforma possano desistere dal portarla avanti. Costa solo 2 milioni di Euro annui, vale la pena.

2008, l’anno della caduta dei miti

Assodato il clima di crisi (andiamo avanti, o non parliamo d’altro), è possibile tirare una linea e provare ad annotare alcuni dei fenomeni visti nel corso del 2008, ovviamente dal punto di vista del loro impatto su marketing e comunicazione in Europa e dintorni. Uno in particolare, che potremmo definire “la caduta dei miti”, sembra riassumerne la maggior parte.

Pensate al mondo dello sport: doveva essere un anno mirabolante, fatto di Olimpiadi ed Europei di calcio, di record ed emozioni. Si è trattato in realtà dell’anno in cui il re si è rivelato in tutta la sua nudità. Le Olimpiadi di Pechino, in particolare, sono stati un evento freddo e poco riconducibile allo spirito olimpico: sono rimasti delusi gli investitori pubblicitari e soprattutto gli sportivi.

L’altro grande mito crollato, ovviamente, è quello degli investimenti finanziari ad alto rendimento. Il sogno, oggetto di decine di campagne pubblicitarie negli ultimi anni, di ricorrere a promotori finanziari-maghi al fine di far lievitare i propri risparmi, è andato molto al di là degli hedge fund: le piccole scritte sul rapporto rischio/rendimento non le ha lette nessuno e si son visti i risultati.

Ci sono poi altri due trend che, seppure abbiano mostrato traccia in tutta Europa, in Italia hanno assunto toni molto più decisi: da un lato, il crollo dei movimenti politici di sinistra; dall’altro, la progressiva discesa nelle vendite dei quotidiani. Due “cadute” che, al di là delle apparenze, sembrerebbero avere radici comuni nella disaffezione di un certo tipo di elettorato verso il proprio “mito” politico.

Infatti, il risultato dei partiti di sinistra (e di centro-sinistra) alle Elezioni Politiche in Italia era prevedibile, seppure non in termini così disastrosi, grazie alla ripida discesa delle vendite di quotidiani di quell’area politica: La Repubblica negli ultimi mesi, ma soprattutto la triade L’UnitàIl ManifestoLiberazione, scesa sotto la soglia cumulativa di 100mila copie già nella prima parte dell’anno.

Ripensate a voi stessi ad inizio 2008: probabilmente le vostre visioni di sport, finanza, politica ed editoria erano abbastanza (o magari profondamente) diverse. Il 2008 ha cambiato molte carte in tavola e il marketing 2009 dovrà adeguarsi. Prima, però, bisognerà che ci si adegui tutti noi: abbiamo qualche difficoltà ad orientarci, prima ancora di iniziare a pensare a comprare qualcosa.

Un anno di Max

Qualche mese fa era possibile abbonarsi ad un anno di Max per la modica cifra di 9,90 Euro più spese di spedizione (?) e ricevere così a casa propria il periodico maschile più diffuso in Italia. Un investimento interessante per comprendere cosa attrae così tanti lettori in un mercato editoriale asfittico.

Ciò che emerge da un anno di Max è che il mensile è in realtà molto diverso da ciò che, da esterni, immaginiamo esso sia. Siamo mediamente sicuri che si tratti di un giornalino semi-erotico e bisogna dire che le copertine difficilmente smentiscono questa fama. Ma non è così; o, almeno, non è solo così.

Mediamente ogni numero contiene un servizio fotografico con belle donne discinte. Ma le altre 200 pagine della rivista hanno una vocazione molto diversa: si possono leggere abitualmente dossier su temi caldi, indagini sui consumi, rubriche umoristiche e aggiornamenti su eventi culturali e politici.

Proprio quest’ultima parte, a dire il vero, è il punto debole della rivista. Solleva parecchie perplessità veder parlare ancora, con un mese e mezzo di ritardo, degli eventi minimi della vita quotidiana nazionale. Causa parecchi sbadigli leggere editoriali, magari satirici, basati su avvenimenti ormai vecchi.

Sarebbe perciò più interessante leggere un mensile completamente sciolto dalle vicende politico-economiche di tutti i giorni. Una rivista che continui su una strada di approfondimento dei temi caldi, ma che voli altra rispetto alle banalità che ogni giorno gli altri media ci raccontano con intensità.

Con i tempi della Rete, infatti, ormai un mensile rischia di diventare un dinosauro che fa capolino una volta al mese: qui siamo di fronte ad una redazione coi fiocchi, con ampie possibilità di crescita. Perché le vendite sex-based non potranno durare in eterno: meglio puntare su cultura e intrattenimento.

Intelligence in Lifestyle, troppo lungo per essere vero

Scrive Antonio Sofi a proposito dell’uscita di IL – Intelligence in Lifestyle, il nuovo magazine della casa editrice Il Sole 24 Ore dedicato ad un pubblico maschile di fascia alta:

«non mi sembra che in molti abbiano parlato del nuovo magazine mensile del Sole 24 Ore. Chissà forse è colpa anche del nome complicatissimo da cercare su Internet: IL (Intelligence in Lifestyle). Il primo numero a me è piaciuto: si legge con piacere, ha pagine ben costruite, con belle fotografie (straordinarie per esempio quelle del reportage di Marco Beck Peccoz, quel biliardino sulla piattaforma…) e rubriche che funzionano (”Luoghi non paralleli” per esempio). Con le storie e gli incontri più o meno tradizionali messi a sandwich tra due pancarrè global (Report e Agenda).»

Commenti forse ancora più positivi a casa di Fabrizio Verrocchi

«Nonostante sia una sorta di XL per ometti cresciuti, con un rapporto pubblicità/contenuti forse anche peggiore, gli articoli scorrono via piacevoli alla lettura. Anche quelli meno ben scritti vengono aiutati da un impatto visivo decisamente fludio, minimale senza essere scialbo, elegante senza apparire snob. Insomma, per quanto riguarda la grafica e – a tratti – la scelta degli articoli, è indubbiamente un bel lavoro. Pur non essendo mai stato un lettore di riviste simili (ho abbandonato XL dopo i primi numeri e ne compro uno ogni tanto, pentendomene sempre) sono convinto che al momento non ce ne siano di altrettanto ben fatte in giro, almeno per quanto riguarda l’Italia.»

Un po’ troppo enfatici, invece, i toni della presentazione ufficiale, a cura di Walter Mariotti.

«Pensato come supplemento maschile del giornale, IL s’iscrive nella linea di sviluppo editoriale della casa editrice, varata con Ventiquattro e proseguita con le felici esperienze di House 24 e de I Viaggi del Sole. Come gli altri mezzi, anche IL vuole contribuire ad ampliare gli orizzonti culturali ed esistenziali del lettore del Sole, proponendosi come un giornale capace di compiere una piccola, grande svolta editoriale: innovare il segmento delle passioni declinando l’alfabeto dell’uomo contemporaneo in un approccio giornalistico di standing superiore.» 

E ancora…

«Proprio come il lettore del Sole, anche il lettore di IL appartiene a un’élite. Di spirito e pensiero, però, prima ancora che di censo e frequentazioni. È un protagonista della tradizione, certo, ma caratterizzato da un’innata propensione al rischio, al cambiamento, che gli permette di anticipare la realtà. Sempre all’avanguardia dell’economia, della finanza, delle professioni, non può che trovarsi all’avanguardia delle idee, dello status, dei consumi culturali e materiali.»

Un commento anche su .commEurope? Bel prodotto editoriale, ma incapace di giungere al target di elezione. Non è credibile l’idea che un professionista dai tratti descritti sopra possa muoia la voglia di aspettare un mese per ricordarsi di acquistare ilsuomensilepreferitissssimo, ma soprattutto che riesca a dedicargli il tempo infinito necessario anche solo a scorrere le oltre 300 pagine, o almeno guardare le pubblicità.

Il primo numero di IL ha una bella grafica e una bella impostazione generale, sebbene pecchi spesso di banalità nel cercare di essere originale (es. non tutti i brani musicali segnalati sono all’altezza/hanno una correlazione con l’articolo in cui sono citati). Si tratta di un bell’esperimento, che però rischia di soccombere sotto l’eccessiva attesa di cui è rivestito: forse sarebbe bastato un (leggero) allegato al quotidiano, forse sarebbe bastato rieditare Ventiquattro.

Un popolo di poeti, saggisti ed editori

Non è vero che tutti gli Italiani abbiano un libro nel cassetto: alcuni, infatti, lo hanno anche pubblicato. Lo hanno fatto, nella stragrande maggioranza dei casi, a proprie spese: volumi di prosa e poesia di vario genere, ma anche saggi sulle più svariate discipline, da regalare (o vendere, nei casi più disperati) a familiari, amici, colleghi, conoscenti. Una mania dilagante che ha radici antiche: molte minuscole case editrici di provincia hanno basato esclusivamente i propri bilanci su questo narcisismo creativo. Nemmeno le case di media dimensione sono state immuni: in questo caso, i libri pubblicati sono stati quelli “sponsorizzati” dalle aziende, che poi li regalano a clienti e fornitori.

Ma poeti di provincia e manager da regalo natalizio hanno sempre avuto uno scoglio insormontabile davanti: le loro opere non sono mai state acquistate volontariamente dai lettori e perciò difficilmente lette davvero. La loro diffusione è sempre stata limitata e soprattutto ha risentito dell’aassenza dell’arma di marketing più importante in ambito editoriale: il passaparola entusiasta dei lettori, vale a dire (nemmeno a farlo apposta) il sale stesso di Internet. Era prevedibile, perciò, che questi due mondi prima o poi si sarebbero incontrati: Produttori di contenuti da una parte, potenziali lettori dall’altra e soggetti economici predisposti a intermediarli riducendo all’osso i costi industriali di produzione.

Si spiega così il successo internazionale di Lulu.com, la piattaforma che negli anni si è saputa distinguere per essere diventata un buon sistema di e-commerce prima ancora che di self publishing. Si spiega ancora di più lo spazio di mercato di Ilmiolibro.it, iniziativa patrocinata dal Gruppo L’Espresso che riassume tutti gli elementi vincenti di questo business model: costi limitatissimi per gli autori, prezzi decenti per gli acquirenti e una comunità che li coinvolge e serve a mettere in primo piano i testi più meritevoli. Un buon sistema che fa della flessibilità e non della produzione industriale il suo cardine: una copia di un libro ha lo stesso prezzo di un centesimo di un lotto di cento copie.

Siamo abbastanza lontani dagli eccessi di Amazon ma siamo sopratutto distanti dal livello “professionale” di TuttiAutori di LampiDiStampa, il primo operatore specializzato in Italia, che però ha sempre presentato costi minimi all’apparenza insormontabili per gli scrittori alle prime armi. Ilmiolibro.it sembra essere un sistema più amatoriale, ma proprio per questo dalle prospettive rosee. Chissà che presto, tra un panino e l’altro, il Gruppo L’Espresso non decida di portare in edicola i libri che avranno avuto maggior successo sulla sua piattaforma: sarebbe il trionfo di un nuovo modo di intendere l’editoria, la voglia di scrivere e soprattutto l’opportunità di leggere.

Subvertising, il mensile di cui avevamo bisogno

Ferve l’attesa per l’uscita, prevista tra qualche giorno, del terzo numero di Subvertising, il mensile prodotto da giornalisti free lance ad uso e consumo di pubblicitari e markettari alternativi italiani che negli ultimi due mesi ha attirato grande e meritata attenzione. In chiave promozionale, si riporta il testo di uno degli articoli tratti dal numero 2, dedicato interamente all’azione “Moonities” di Boston: si tratta solo di una riproduzione non autorizzata, che si pubblica su .commEurope al solo scopo di far venire l’acquolina collettiva per ulteriori download. In bocca al lupo a tutta la redazione!

«Ceci n’est pas un bomb: l’azione entrata nella storia del marketing non convenzionale

Di Wolverine, redazione@subvertising.it

Torino. Questa è la città italiana forse più simile al teatro che mercoledì 31 gennaio 2007 ha visto andare in scena lo spettacolo Mooninites. Non era il Piemonte, con il suo buon vino e le pasticcerie, ma Boston, capitale del Massachusetts, Stati Uniti. Una città di quasi 4 milioni di abitanti leader economico-culturale della propria regione. Ore 8,05 del mattino: un passante nota uno strano oggetto sulla statale 93, nei pressi di Sullivan Square. L’avvistamento viene comunicato alle autorità competenti. Fino a qui, tutto bene. Tempo due ore cominciano però a giungere sul luogo pompieri, ambulanze, blindati degli artificieri, forze di sicurezza, perfino i robot per la deflagrazione. Tutti lì per neutralizzare quello che si valuta un pericoloso ordigno, come immediatamente rilancia il Boston Globe. Il traffico viene bloccato, in puro stile stelle e strisce: ponti come il Longfellow e il Boston University Bridge chiusi, paralizzata la statale, i quartieri isolati e tutto il delirio di spiegamento mezzi e uomini che avete sempre visto nei film di Bruce Willis.

Nella sola città di Boston, grazie alle segnalazioni che si accavallano man mano che la notizia si diffonde, vengono individuati cinque dispositivi elettronici; tutti identificati come ordigni esplosivi a causa del loro posizionamento in prossimità di punti d’afflusso e del loro corredo di fili, batterie e nastro isolante ben in vista. Gli elicotteri delle reti televisive si sono intanto alzati in volo e sui principali network nazionali rimbalza la notizia meritandosi una diretta mattutina di tutto rispetto. La CNN decide di puntare le proprie telecamere sulla vicenda tramite continui “breaking news”. Solo in un secondo momento si scoprirà che sono nove le città americane colpite dalla stessa fantomatica minaccia terroristica.

L’omino a LED che alza fiero il dito medio si rivelerà per quello che è solo tra le due e le tre del pomeriggio, cinque ore dopo il primo avvistamento: Bin Laden non c’entra, si tratta semplicemente di un’originale campagna pubblicitaria avviata due settimane prima in diverse città americane dall’agenzia Interference Inc. per conto della Turner Broadcasting System – che, sottolineano i maligni, è curiosamente proprietaria anche della CNN/Fox. Obiettivo dell’azione, preparare il pubblico all’uscita del lungometraggio della serie animata Aqua Teen Hunger Force, in onda su Adult Swim, fascia di programmazione notturna della rete Cartoon Network. Ignignokt, l’omino lunare raffigurato a LED sul circuito stampato autoalimentato intanto se la ride, con quel suo dito medio alzato alla polizia che lo mette sotto sequestro.

Più passano le ore e più risulta evidente come le autorità di Boston e dello stato del Massachussets siano cadute in un tremendo equivoco procedurale, tanto è vero che le stesse istallazioni non avevano ricevuto altrettanta attenzione da parte delle stesse di New York, Los Angeles, Chicago, Atlanta, Portland, Austin, San Francisco e Philadelphia. Intuendo il volume della figuraccia fatta, a qualcuno nei palazzi che contano comincia a gonfiarsi la vena del collo. Phil Kent, CEO e presidente della Turner Broadcasting System presenta subito in due dichiarazioni scritte solenni scuse pubbliche nei confronti dei cittadini di Boston. La Turner rassicura la cittadinanza di aver avvisato le forze dell’ordine sui luoghi prescelti per il posizionamento degli oggetti e di aver già provveduto a farli rimuovere. Il procuratore generale dello stato del Massachusetts Martha Coakley giudica l’installazione dei Mooninites un crimine a tutti gli effetti e fa arrestare, con l’accusa di procurato allarme cittadino, due giovani videoartisti, Peter Berdovsky (intervista in questo numero di Subvertising, ndr.) ed il suo amico Sean Stevens, braccia operative bostoniane dell’azione di guerriglia marketing.

Anche il sindaco Thomas Menino reagisce alla campagna pubblicitaria definendola oltraggiosa e dichiarando di ritenere le scuse pubbliche della Turner non abbastanza soddisfacenti per la cittadinanza. Menino afferma di aver appreso solo alle 17,30, tramite fax, i posizionamenti dei vari oggetti e di aver ricevuto solo alle 21 una chiamata da un semplice responsabile dell’ufficio pubbliche relazioni della Turner e di non aver risposto alla comunicazione, giudicando il comportamento della società televisiva come una mancanza di rispetto verso l’istituzione comunale.

Qualche settimana dopo (il 9 febbraio), Jim Samples, general manager di Cartoon Network rassegna le dimissioni nel silenzio dei suoi superiori entro Turner, con l’attuale e fortissimo sospetto di pressioni subite da parte delle autorità che richiedevano all’azienda una testa da tagliare in sacrificio rituale. Jim toglie il disturbo, prende qualche mese di vacanza, ed eccolo spuntare di nuovo, al soldo questa volta di HGTV (Scripps Network), una rete dedicata al mondo dell’arredamento, del giardinaggio, del fai da te, seguita in qualcosa come 89 milioni di case americane.»

Viva Carosello, abbasso i panini

Si completa nei prossimi giorni la pubblicazione di Carosello, l’iniziativa dell’Editoriale L’Espresso che in quattro DVD ha sistematizzato e condiviso i migliori siparietti andati in onda lo scorso secolo (fa un certo senso dirlo, in effetti). Una scelta ardua, visto che il programma nato 50 anni fa ha presentato nel corso degli anni oltre 40.000 mini-film, realizzati in 35 mm: l’opera in edicola è stata ben curata ed effettivamente riesce a sintetizzare bene i punti più alti di quella esperienza. Tanta creatività e buona produzione cinematografica: assolutamente da vedere per chi si occupa di pubblicità e comunicazione in genere. Inutile continuare a fare guerre di religione come ha cercato di fare Il Velino: proviamo ad astrarli dal contesto sociopolitico, se proprio è necessario apprezzarne stile e tecnica.

Il costo dell’opera è tutto sommato interessante: come recita il sito, ogni DVD è stato venduto «a soli 8,90 Euro con La Repubblica e L’Espresso», per un totale di poco più di 35 Euro. Peccato per i “con” ed “e”, visto che andando in edicola per chiedere il DVD, il Cliente deve uscire con

  • DVD Carosello
  • La Repubblica con R2 (ed eventualmente Affari & Finanza il lunedì)
  • L’Espresso
  • D – La Repubblica delle Donne (al sabato)
  • Venerdì (al venerdì)
  • volantini pubblicitari assortiti

in uno dei più impressionanti “panini” della storia editoriale italiana. Alla modica cifra di 13 Euro, il Cliente occasionale dei giornali del Gruppo L’Espresso ottiene tanta carta (pur interessante) non richiesta, portando il costo complessivo dell’opera a 52 Euro, cioè 1,5 volte il costo dei soli DVD.

Fa sempre piacere leggere dei quotidiani (ma il tempo latita), può essere un piacere leggere D – La Repubblica delle Donne (c’è sempre da imparare) ed è interessante sfogliare L’Espresso (sebbene la maggior parte dei contenuti interessanti li si è già letti on line): perché fare a tutti i costi ogni settimana un’imboscata al povero appassionato di cose pubblicitarie che va a rendere onore ai suoi sacri penati? Non esiste un modo più sobrio per vendere qualche copia in più dei propri giornali? Non si potrebbe piuttosto garantire una promozione più sensata alle opere collaterali (vedi il piano dell’opera sul mini-sito, mai aggiornato dopo la prima uscita), magari promuovendo forme di interazione che coinvolgano proprio i giornali cartacei e quindi facciano venire voglia di comparli, senza vederla come un’imposizione?

Ormai di collaterali si discute da anni: negli anni d’oro dei libri de La Repubblica, effettivamente, sono stati la “terza gamba” dell’editoria, accanto a pubblicità (in lenta crescita) e diffusione (in rapido calo). Dall’introduzione dell’Euro in poi, i prezzi per il cliente finale sono velocemente aumentati, rendendoli meno appealing rispetto ai loro esordi: iniziative come quella su Carosello riescono però ad interessare nicchie specifiche e disposte ad aderire a piani editoriali anche più lunghi di soli 4 DVD. Peccato per le imboscate: sarà anche vero che quelli che vivono in nicchie di questo tipo sono ricchi (?) e dal profilo culturale elevato, ma proprio per questo non sono scemi. Le costrizioni non piacciono a nessuno e persino un quotidiamo può diventare spam, se non è ciò che si voleva comprare.

La Repubblica & R2: voglia di cambiamento, tentativi di modernità

Dopo tanta enfasi sui (presunti) cambiamenti a stile e formato del TG1, anche La Repubblica ha dato una rinfrescata al proprio aspetto: titoli più leggeri, interlinea più ampia, box di approfondimento, persino qualche spazio bianco. Un look leggero che, verrebbe da dire, sembra quello di un sito Web, sebbene l’assenza di link non sia un problema da poco, per un quotidiano cartaceo letto con i nostri occhi ormai abituati a cercare le sottolineature. Un buon lavoro, che sarebbe carino fosse imitato anche dall’elefantiaca versione digitale del quotidiano, Repubblica.it, altrimenti destinata a morire sotto il novecentesimo box pubblicitario consecutivo delle iniziative editoriali del Gruppo L’Espresso.

La vera novità di questi giorni, in realtà, l’aveva segnalata Mr. Wittgenstein la scorsa settimana: si tratta di R2, il nuovo dorso nazionale che non brilla per originalità nel nome (Luca indica The Guardian e il suo G2 come fonte autorevole, ma a noi plebei viene in mente anche l’affaire Virgin Music vs. V2), ma sicuramente rappresenta un’iniziativa originale nel sonnolento mondo dei quotidiani italiani. L’idea, ci spiega l’editoriale di Ezio Mauro, è quella di uno spazio editoriale

«che raccoglierà ogni giorno i servizi speciali di Repubblica con le sue grandi firme. Un giornale di inchieste, storie, dossier, reportage e racconti per approfondire fatti e protagonisti della grande cronaca italiana e internazionale, della cultura, degli spettacoli. Con questa offerta informativa originale e autonoma, non si potrà più dire che i giornali sono tutti uguali. E anche la politica dovrà guadagnarsi il suo spazio nella nuova sezione, con questo semplice criterio: no alla politica che parla di se stessa, sì alla politica che parla delle persone e del mondo.»

Si tratta di un programma ambizioso, soprattutto nel voler instaurare un nuovo rapporto col mondo politico (anche se questo passaggio suona piuttosto simile al proclama di Riotta in occasione della presentazione del “nuovo” telegiornale). Si tratta di un tentativo apprezzabile di mettere su carta ciò che si pensava da tempo, cioè che esiste uno shift tra le funzioni d’uso dei vari media: in un certo senso, La Repubblica implicitamente attenta all’esistenza del giornale gemello, L’Espresso. Infatti, in un mondo in cui le notizie si leggono massivamente via Web e vengono sorbite belle farcite via TV, la funzione dei quotidiani è quella che una volta svolgevano i periodici: l’approfondimento di qualità.

Il problema principale di R2 (ma è un po’ quello dei quotidiani contemporanei in generale), però, è proprio il tempo che il lettore medio (alias tutti noi) può dedicare a tale attività di approfondimento: viene sicuramente voglia di leggere l’articolo di Roberto Saviano pubblicato oggi, sul binomio Sarkozy e architettura forse si può impiegare un po’ di tempo, ma l’approfondimento su Madeleine McCann è fuori portata. Col tempo, c’è da sperare, la selezione dei contenuti sarà più omogenea: apprezziamo comunque la voglia di cambiamento di Mauro e dei suoi, ma soprattutto i tentativi per risvegliare un quotidiano che ha solo una trentina di anni, ma in questi anni è invecchiato rapidamente, proprio come la popolazione italiana che cerca di rappresentante e cui tenta di parlare.