Tutti odiano i buoni pasto?

Basta accennare agli amici il tema dei buoni pasto per incontrare visi contrariati e ascoltare storie inverosimili di tentativi di spenderli, corse contro il tempo rispetto alla scadenza, viaggi di decine di chilometri per raggiungere supermercati che (raramente) li accettano. Il sospetto è che anche chiedendo agli esercenti non si riscontri un maggior entusiasmo: tempo perso, margini distrutti, rapporti coi clienti deteriorati. Non che le cose vadano meglio nelle aziende: è vero che grazie agli sconti sempre maggiori (la concorrenza non perdona) si risparmia qualche centesimo su ogni tagliandino, ma nelle grandi aziende non è da sottovalutare il costo di determinare ogni mese il numero di buoni, organizzarne la distribuzione e ascoltare le lamentele dei dipendenti sul valore solitamente limitato dal massimo di non tassazione, pari a poco più di 5 Euro.

Il processo, peraltro, non è virtualizzabile e questo crea ulteriori problemi nel momento in cui, in modo lungimirante, la maggior parte delle aziende sceglie di migrare al cedolino elettronico; i buoni pasto rimangono stoicamente cartacei sia per le aziende che per gli esercenti, a loro volta vittime della burocrazia e dei tempi di rimborso (volutamente?) lunghi da parte dei circuiti; spesso la soluzione è chiedere anticipi alle banche. A dire il vero negli anni qualche tentativo di innovazione si è visto sul mercato, ma come spesso avviene in ambito pagamenti, nessuno vuole assumersi i costi di cambiare il modello complessivo. Al contrario, la continua corsa al ribasso da parte delle amministrazioni pubbliche ha solo l’effetto di esacerbare gli animi degli esercenti e degli stessi circuiti di buoni pasto, che si sono riuniti in un’associazione di rappresentanza unitaria.

I dati di questa organizzazione, l’ANSEB, sono molto interessanti. Si scopre che circa due terzi (oltre 13 milioni) dei lavoratori pranzano regolarmente a casa, che il fenomeno dei buoni pasto riguarda poco più di due milioni di utenti. Numeri che fanno riflettere chi è in mezzo all’angoscia quotidiana del buono pasto: fa parte di una minoranza per la quale difficilmente le forze parlamentari avranno voglia di cambiare regole. È un’occasione persa: i buoni potrebbero rappresentare un mezzo alternativo di pagamento rispetto ai fastidiosi contanti, potrebbero essere utilizzati anche in contesti di commercio elettronico via Web o Mobile. Ma il mercato italiano è così ingessato che il meccanismo non decolla: persino la piattaforma del leader di mercato, Compliments Store, non rappresenta una case history significativa, nonostante sia tecnicamente affidabile.

All’estero la commissione sui buoni pasto è nell’ordine del 3%, in linea di massima paragonabile con le fee che i circuiti di credito riservano ai piccoli esercenti. In Italia si parla sempre di double digit e questo rende obiettivamente impossibile non solo l’estensione dei circuiti a un numero significativo di esercenti food-related, ma ancor di più l’avvio di circuiti alternativi in settori a bassa marginalità (leggi: elettronica e similari). Ci lamentiamo che l’economia “non gira”, che i consumi si riducono invece di esplodere cercando di intercettare i piccoli segni di ripresa che si vedono all’estero; è un peccato, perché il gioco senza vincitori dei buoni pasto è una proxy dei problemi che esercenti fisici e digitali incontrano quotidianamente con tutto ciò che non è contante. E senza moneta elettronica e circuiti di pagamento ben rodati, addio speranze di sviluppo.

Viva le donne manager

Si tratta di un bel ritorno positivo alla propria immagine pubblica, quello che Microsoft, Ikea, Unicredit, Luxottica, Astra Zeneca, Fiat, Intesa SanPaolo e diverse altre aziende nazionali e branch italiane di multinazionali, sotto la guida sapiente di McKinsey & Company, hanno ottenuto dall’ampia pubblicizzazione ricevuta dall’iniziativa Valore D – Donne al Vertice per l’Azienda di Domani.

Si tratta di una serie di iniziative di formazione declinate esclusivamente al femminile, nate con l’intento di migliorare, in termini quantitativi e qualitativi, la presenza delle donne nelle posizioni di middle e top management delle grandi aziende. I dati della ricerca presentata in occasione dell’inaugurazione parlano chiaro: ROE e EBIT crescono vertiginosamente nelle aziende “multigender”.

Che le donne siano generalmente più brave e preparate degli uomini è cosa nota a chi si occupa profesionalmente di Risorse Umane. Ciò che è altrettanto lampante, però, è il senso di inadeguatezza e passività che molte manifestano, forse costrette da ruoli maschili predominanti e orari stupidamente declinati all’infinito, senza rispetto per le famiglie. Cosa che, alle donne, non piace per definizione.

L’obiettivo di questa iniziativa, oltre ovviamente a quello di migliorare l’immagine pubblica delle aziende promotrici, è quello di affidare alle Risorse di genere femminile ad alto potenziale strumenti e ruoli in azienda con cui dimostrare le proprie capacità e quindi, come ha scritto qualche tempo fa Roger Abravanel, diventare l’antidoto per sopravvivere in questi momenti di terribile crisi economica.

Dal punto di vista delle aziende, sarà necessario accompagnare questa nobile iniziativa con attività di comunicazione interna che facciano cogliere il potenziale dell’iniziativa come miglioramento per l’intera società, piuttosto che come minaccia per gli uomini arroccati da tempo nelle posizioni chiave. Si tratta di una sfida importante, che le grandi aziende coinvolte nell’iniziativa possono e devono affrontare.

La vittoria del business casual

Se c’è una cosa davvero sciocca nel mondo aziendale è il dress code formale che accompagna in tutte le stagioni i manager in diversi Paesi del mondo. Giacche e cravatte combinate in maniera differente, ma con lo stesso risultato stantio di sempre. Uomini frustrati che vagano da una riunione all’altra osservando colleghe elegantissime eppure senza tailleur.

Si tratta soprattutto di un vizio europeo e italiano in particolare. Ci sentiamo in dovere di esportare eleganza con lo stesso tatto con cui gli Stati Uniti esportano la democrazia. Quando un manager illuminato come Paolo Scaroni un paio di anni fa impose (!) il business casual ai dipendenti ENI almeno durante l’estate, furono più le critiche che i complimenti ricevuti.

Negli Stati Uniti, tuttavia, le cose vanno diversamente da tempo. Persino nell’era dell’abbonatissima Presidenza Bush Jr., un’interessante ricerca Gallup è riuscia a dimostrare una crescita sostenuta del business casual rispetto ad un sempre più marginale uso del classico abbigliamento formale: la differenza è nell’ordine di 43% verso 9% del panel.

Non si pensi che reddito e posizione influenzino sensibilmente le classifiche: la stessa ricerca arriva a notare come abbigliamento formale e business casual crescano entrambi una volta superata la soglia dei 50.000 $ di reddito. E non è nemmeno una questione di stile: è noto come gli Statunitensi si vestano eleganti ai funerali, ma poi li vivano come un party.

La speranza è insomma che anche in Europa si inizi a vivere più serenamente la vita in ufficio. Se persino Barack Obama toglie la giacca nello Studio Ovale, noialtri che continuiamo a voler comunicare il nostro presunto “status” a botte di cravatte firmate potremmo anche fermarci per una serena riflessione su quanto siamo ridicoli, riunione dopo riunione.

Il principio di Peter e le agenzie di comunicazione

Recita, sinteticamente, il principio di Peter:

«In ogni gerarchia, un dipendente tende a salire fino al proprio massimo livello di incompetenza.»

Il principio, da decenni, fa fischiare le orecchie a parecchi professionisti: spesso risulta essere un campanello di allarme per la propria carriera, ma anche una consolazione per le vessazioni dei propri capi e uno strumento di analisi delle carriere dei propri colleghi.

Ma, usciti dal proprio giardinetto, possiamo utilizzare il principio di Peter soprattutto per provare a comprendere il perché i nostri interlocutori nelle aziende partner, fornitrici o clienti esse siano, risultino spesso clamorosamente fuori luogo o poco contenti del proprio ruolo aziendale.

Ci sono alcune professioni per cui l’ascesa non comporta drammi eccessivi: il migliore degli amministrativi, se dotato di un minimo di leadership, potrà diventare il coordinatore degli amministrativi. Ma il principio di Peter assume risvolti quasi drammatici nel mondo delle professioni creative.

Perché all’Account Manager della vostra agenzia di comunicazione si illuminano gli occhi quando parla di un’headline e scende la saudade quanto si tratta di concordare gli emolumenti? Perché probabilmente era il migliore dei copywriter e la “promozione” lo ha portato al nuovo ruolo manageriale.

Si tratta di un meccanismo perverso, che imperversa nella maggior parte delle agenzie di comunicazione italiane, siano esse tradizionali o legate ai nuovi media. Orde di professionisti della comunicazione che devono improvvisarsi venditori provetti, maree di creativi che devono reinventarsi una carriera pur di fare carriera.

Non si esce dal labirinto: se si è creativi, si soffre per la mancanza di possibili evoluzioni per la propria vita professionale. Se si è responsabili di agenzia, si cerca di dare loro opportunità di carriera come sviluppatori di business. Ossia, si spalanca loro le porte dell’inferno pensando di mandarli in paradiso.

TamTamy, il social networking all’italiana

A volte fa piacere poter parlare bene del lavoro di amici: si è consci di essere un po’ di parte, ma se si prova a mantenere un minimo di obiettività, si può riuscire a scrivere post informativi e non inni fini a sé stessi. Obiettivo, questo, che anche queste righe vorrebbero avere: spiegare a chi non la conoscesse cos’è TamTamy e perché questa piattaforma italiana è un piccolo orgoglio nazionale.

A dire il vero, Pino Fondati su Il Sole 24 Ore, la scorsa settimana, ha già riepilogato bene le coordinate di TamTamy: si tratta di una piattaforma prodotta da Reply per offrire a privati, piccole e grandi aziende una serie di strumenti tecnologici 2.0 integrati in un unico contesto. Basta immaginare WordPress MU mescolato con forum, wiki, chat e ricoperto da uno strato user-friendly che permette di utilizzare i vari strumenti in maniera “lineare”.

TamTamy è gratuitamente testabile, in versione Alpha, da parte di chi volesse avviare un proprio social network. Aziende, club e anche gruppi di amici possono interagire tramite una piattaforma abbastanza versatile, sfruttandone tutti o alcuni degli strumenti disponibili: si tratta di un progetto del tutto italiano, anche se il lancio internazionale degli scorsi mesi ha fatto sì che l’interfaccia attuale sia in lingua inglese.

Gli iscritti di questa versione Alpha che hanno avviato un proprio network sembrano già essere diversi e sorge una certa curiosità su quale sia il feedback dei “pionieri”. Al contrario, è noto che chi ha vissuto TamTamy nella sua prima installazione, quella di Intranet Reply, ha un buon ricordo fatto di persone, storie e dialoghi, prima ancora che di tecnologia.

Per quanto paradossale, più una tecnologia riesce ad essere invisibile all’utente finale, più ha la possibilità di venire adottata in maniera “naturale” anche da chi non ha particolari competenze tecniche. TamTamy gode di questo paradosso, visto che riesca ad agire silenziosa in sottofondo offrendo strumenti diversi in maniera discreta, non oppressiva: usi solo ciò che ti serve.

Ci sono spazi di miglioramento, come per tutte le piattaforme in Alpha. La possibilità di giocare sull’asse “contenuto pubblico vs. contenuto privato”, ad esempio, permetterebbe probabilmente di superare in scioltezza soluzioni similari, non relegando TamTamy a puro strumento di comunicazione interna; l’integrazione di un CMS leggero permetterebbe di creare tumblelog ed altri spazi di condivisione “veloci”.

Qualunque siano le dimensioni di sviluppo, comunque, massimo rispetto per il TamTamy Team, che una volta tanto ci fa sentire orgogliosi della professionalità italiana anche quando si parla di tecnologia. Cosa affatto scontata, per chi è capitato agli eventi Web 2.0 in Stati Uniti e Germania dove Reply era presente come sponsor: una piccola isola tricolore in un tripudio di stelle e strisce.

Unified Communications, il tormentone che turberà le vostre notti

Se è vero che le indicazioni di Gartner sono il verbo supremo di ogni manager ICT sparso per l’Occidente (nel resto del mondo tale preponderanza andrebbe verificata), possiamo stare tranquilli che il tema “Unified Communications” diventerà il tormentone collettivo nelle aziende medio-grandi nei prossimi mesi. Già da qualche anno gli analisti di questa società pubblicano report in cui posizionano in un «Magic Quadrant» i principali competitor nella creazione di soluzioni complete in questo ambito: uno scenario che cambia periodicamente e che negli ultimi mesi ha visto attori tradizionalmente forti nel mondo delle telecomunicazioni (basti citare Cisco o Ericsson) finire nel campo dei «challengers» a favore di nuovi «leaders», capitanati al momento da Microsoft.

Quest’ultima società, in effetti, ha dei piani aggressivi ed una visione integrata utile per conquistare questo promettente mercato: non punta a sostituire le reti telefoniche esistenti con soluzioni VoIP (strategia spesso seguita dai concorrenti), ma cerca di virtualizzare il collegamento tra tecnologie differenti (telefono fisso, mobile, e-mail, segreteria telefonica, IM, videoconferenza, etcetera) apponendovi sopra un ampio strato software che è progressivamente integrato a monte con i sistemi informativi aziendali ed è comodamente omogeneizzato a valle con le interfacce care all’utente finale (Microsoft Office in primis). Le campagne pubblicitarie del gigante di Redmond sulla stampa specializzata sono già partite: non è difficile immaginare grandi investimenti per tutto il 2008.

L’unico concorrente che al momento sembra aver accettato la sfida a livello globale è IBM, che ha scelto una via meno proprietaria di quella Microsoft: da un lato ha infatti siglato un’alleanza a 360° con Cisco (integrando le applicazioni e le tecnologie di quest’ultima nella propria offerta), dall’altro ha lanciato la piattaforma UC² (Unified Communications and Collaboration), basata su standard aperti ed ampliabile a piacere anche da parte di attori terzi grazie ad un sistema di interfacce sia a livello applicativo (vedi Lotus Sametime e dintorni), sia infrastrutturale (alias sistemi e servizi, sia voce che video, di Cisco). Tuttavia, se IBM vola alto, Cisco non rinuncia alla sua origine di fornitore di hardware e perciò pone al centro dello sviluppo dei suoi piani di business la presenza di reti e telefoni proprietari.

Ci aspettano mesi intensi, insomma. I professionisti del settore si stanno spingendo in scenari avvincenti, sebbene verosimili solo nel lungo termine: c’è persino chi, nelle ultime settimane, ha parlato di «morte dell’hardware». Nell’ambito di questa lotta tra giganti alla ricerca dell’eldorado della riduzione di costi a tutti i costi, prima o poi anche gli attori più piccoli dovranno scegliere una strada: molti guardano a Skype e si aspettano una presa di posizione chiara, vista la posizione preminente nell’ambito del mercato VoIP ma del tutto debole in quello aziendale. Persino lo strano annuncio della partnership tra Skype e 3 di oggi assume una luce diversa se letto in un’ottica Unified Communications: che i manager (ICT e non) tengano gli occhi aperti, perché avranno tante possibilità di risparmiare, ma anche tante scelte difficili da fare.

Intel e i cubicoli ammazza-comunicazione

Grande risalto, nell’home page di Corriere.it, ad un articolo che presenta “Zero e-mail Friday, l’iniziativa avviata da Intel al fine di garantire un giorno di pace ai collaboratori statunitensi della multinazionale informatica. L’obiettivo è quello di costringere con gentilezza 150 dei propri collaboratori ad alzarsi dalla sedia per chiedere informazioni ai colleghi dell’ufficio vicino oppure di intrattenersi telefonicamente con quelli più lontani. L’ipotesi di fondo è quella che l’interazione dal vivo (o quanto meno vocale) abbia la stessa portata informativa di quella mediata dal PC, ma è potenziata da aspetti soft che migliorano la qualità della vita in azienda.

Per capire la rilevanza di questo esperimento, bisogna comprendere ciò di cui non parla l’articolo italiano, cioè il motivo di fondo per il quale Intel ha avviato questo programma. Lo possiamo ritrovare in un articolo che parla di un’inchiesta nemmeno tanto ironica di Conan O’Brien, che pure è il figlio professionale di Jay Leno:

«In April, Conan O’Brien filmed a visit to the Intel headquarters in Santa Clara, Calif., mockingly praising the working environment. He called the color scheme of gray, gray and grayish-blue “imaginative” and the signs on columns such as B9 and H10 defining cubicle sections, “like you’d see in a parking garage.”

“It makes people feel as though they’re all basically the same. There’s no individuality, there’s no hope, there’s no sense that life has possibilities,” joked O’Brien as he wandered through a seemingly endless maze of identical cubes.»

Uno scenario del tutto terrificante, che richiama alla mente il riso amaro delle strisce di Dilbert: ingegneri ed impiegati costretti in pochi metri quadri, che incontrano dal vivo i loro colleghi solo in pause caffè nelle quali, per ovvi motivi, non hanno alcuna voglia di discutere di problematiche lavorative. Ciò fa sì, tra l’altro, che la qualità dei gruppi di lavoro si abbassi sensibilmente: non è un caso che le e-mail oggetto del programma sul “venerdì libero” non siano tutte, indiscriminatamente, ma solo quelle interne ai team (sconsigliate, ma ovviamente non vietate), non quelle che permettono a gruppi diversi di interagire e lavorare insieme.

Si tratta di un esperimento interessante, che fa parte di un programma più ampio contro l’information overload. L’iniziativa precedente, Quiet Time“, è stata lanciata ad agosto in maniera ancora più ambiziosa: 300 collaboratori si isolano per mezza giornata ogni martedì, deviando le telefonate in segreteria, chiudendo la porta del cubicolo e non consultando l’e-mail. Un tentativo di azzerare del tutto la comunicazione interna, per poi farla rifiorire 3 giorni dopo dal vivo, qualcosa da tenere d’occhio, visto che noi Europei siamo ancora nella fase “confusione negli open space“: quando a qualche manager illuminato verrà in mente di sostituirli con i cubicoli, sapremo già in partenza come sopravvivere…

Segnalazioni ed auguri (pasquali e non)

Il logo dei Marketing blog Playoffs 2007La prima segnalazione la merita sicuramente l’iniziativa Marketing blog Playoffs 2007: una bella idea figlia di [mini]marketing, con una missione chiara ed una conduzione snella e divertente. Già ora, quando sono ancora in corso le iscrizioni da parte dei blog “giovani” (quelli nati da gennaio 2006 in poi, spesso gestiti da studenti o neolaureati), è piacevole scorrere le liste dei partecipanti e scoprire nuovi blog personali, di gruppo, specializzati o tuttologi. Si preannunciano settimane di piacevole discussione su contenuti e forma della blogosfera italiana markettofila: purtroppo il tempo da dedicare all’iniziativa durante i giorni lavorativi è poco o nullo… Ci aspettano notti insonni!

Tanto per augurare ai giovani protagonisti di questa iniziativa di festeggiare la Pasqua con la speranza di nuovi lavori affascinanti ed interessanti, l’altra segnalazione arriva via LinkedIn: si tratta di due posizioni offerte su Milano. L’azienda è XYZ Reply, l’agenzia creativa del Gruppo Reply che qualche settimana fa ha attirato l’attenzione di molti di noi con la pubblicazione della versione italiana del noto articolo di O’Reilly sul Web 2.0. Questo è un estratto dell’offerta di XYZ Reply, pubblicata da GianMario Motta, per due Digital Marketing Junior Consultant.

XYZ Reply (www.xyz.reply.it), division of the Reply SpA Group, provides cross media communication consulting and development services.

We currently have two internship opportunities within the consulting and project management division.

Qualifications:

  • Undergraduate or recently graduated in Economics or Marketing max 26 years old
  • Excellent verbal and written communication skills
  • Strong presentation skills
  • Strong positive mental attitude
  • Knowledge of classical marketing and statistics theory
  • Good knowledge of the most common programs as MS Office (Word, Excel, Powerpoint)
  • HTML and web environments knowledge is a plus

We offer:

  • 6 months of internship (stage). Our offices are located in Milan (Italy)
  • strong tutorship

Auguri a tutti: per Pasqua, per i Marketing blog Playoffs 2007, per la ricerca di un nuovo lavoro…

Comunicare le idee alle aziende

È un terreno interessante, quello che si trova all’intersezione delle practice più valide di comunicazione interna e knowledge management: si tratta di quello spazio ricco di potenzialità ove confluiscono le idee più brillanti degli stakeholders aziendali. Frontiera non troppo conosciuta in Europa, che tuttavia sta trovando nuovi adepti nel resto del Mondo e, c’è da augurarselo, progressivamente prenderà piede anche nei nostri Paesi. Lo farà, forse, anche grazie ai testi sull’argomento ed ai manager brillanti che li leggono.

Valorizzare le idee, sapere costruire un flusso di comunicazione che le porti da un lato ai piani decisionali, dall’altro alla Ricerca & Sviluppo, sono competenze che i manager dovranno apprendere e far evolvere: ne va di mezzo non la scoperta del Grande Prodotto Che Farà Esplodere Il Fatturato Aziendale, ma il consolidamento della conoscenza e dell’esperienza su passato e presente in qualcosa di molto utile per il futuro. Le piccole aziende, almeno quelle non troppo devote al figlio del titolare come unico vate (tipico caso italiano), lo fanno da sempre: grazie alla comunicazione orizzontale tra i pochi collaboratori, le idee fluiscono rapide ed incisive.

Non è questione di positività o negatività degli effetti: a volte persino un pettegolezzo su un dipendente dell’azienda concorrente è più utile di un sofisticato sistema di monitoraggio del mercato. Le grandi organizzazioni continuano a lottare con la burocrazia ed invece di esserne avvantaggiate, ne sono sistematicamente vittime: quando le parole viaggiano su moduli intestati, le idee rimangono incastrate nei blocnotes (virtuali, magari), di chi le possiede. Rendere fluida la comunicazione pluridirezionale garantisce qualcosa di più della gratificazione dell’individuo, interno od esterno, che quelle idee le ha partorite: permette di valorizzarle e renderle valore.

Chi della comunicazione e delle idee fa il suo mestiere, sa cogliere il punto: esempio intelligente è quello di Open-Nòva, l’area open source de Il Sole 24 Ore che è appena stata aperta ai contributi dei lettori più giovani, escludendo gli over – 26. Una scelta che sa dove andare a parare: saper cogliere le idee non vuol dire creare calderoni di ideuzze ed informazioni, ma individuare chi potrà apportare quelle opportune, nel momento corretto, offrendo gli strumenti ed i megafoni per farlo. Liceali ed universitari attuali hanno molto da dire ai lettori del quotidiano economico: restiamo in ascolto, apriamo le orecchie alle nostre aziende.