Più che il tumore potè la malainformazione

Probabilmente la notizia era troppo ghiotta per passare inosservata; un titolo a effetto veniva gratis e molte testate, sia online che cartacee, ne hanno approfittato. Sebbene i risultati pubblicati su Science fossero come sempre molto più complessi, i giornalisti li hanno sintetizzati con titoli come “Tumori, la ricerca shock: ne causa più la sfortuna che lo stile di vita” e similari.

Impossibile non cliccare: da un lato siamo tutti piuttosto spaventati dal cancro, che nelle sue mille declinazioni continua a essere la malattia più misteriosa e spesso incurabile; dall’altro quelli che tra noi adottano comportamenti da sempre ritenuti dai medici “a rischio”, aspettavano la notizia da rinfacciare agli amici alla prossima lamentela o suggerimento “antipatico”.

Qualche giornale più serio ha provato a chiedere conto ad altri ricercatori o sfoderare ricerche che arrivavano a conclusioni opposte, qualcuno ha detto che per “caso” si può intendere anche “fenomeno con valenza scientifica ma che non riusciamo ancora a spiegare razionalmente”. Ma il fatalismo ci piace tanto e i giornalisti sanno come solleticarlo per farci cose da irresponsabili.

Erano anni che medici e ricercatori scientifici si dedicavano a stilare classifiche delle cose da evitare o delle buone azioni quotidiane; ora in un sol colpo molti hanno rimosso la cautela: “se deve succedere…” “tanto…” “dicono che è un caso…” e così via. Non è solo un effetto immediato: tra mesi, forse anni, qualcuno citerà la ricerca a giustificare i propri comportamenti infelici.

Lo strano rapporto tra Italiani e informazione televisiva

Il XXXIII Osservatorio sul capitale Sociale di Demos focalizza la propria attenzione sul rapporto tra Italiani e informazione. I dati sono interessanti soprattutto perché includono un minimo di prospettiva storica, permettendo di ragionare sull’evoluzione dei consumi informativi dal 2007 a oggi. Sorvolando sull’esiguità del campione (appena 1.301 intervistati), la ricerca conferma prima di tutto la forte frequenza di utilizzo della Televisione come fonte informativa quotidiana. Per ben l’83,6% la TV è il canale di riferimento, che cuba quasi 2 volte e mezzo Internet e Radio, 3 volte i quotidiani.

Ma è appunto il dato storico a incuriosire: mentre i valori di TV, radio e quotidiani sono tutti in calo di 3-4 punti tra 2007 e 2011, Internet si staglia aumentando del 50% di preferenze nel periodo, passando dal 24,8% al 37,8% delle citazioni. Un valore quantitativo che però non è l’unico asse di analisi interessante: la Rete viene infatti oggi citata da oltre il 40% degli intervistati come principale canale per avere un’informazione «libera e indipendente», circa il doppio della TV. Un atto di fiducia notevole, forse sopravvalutato, ma probabilmente scevro dall’effetto-Wikileaks degli scorsi mesi.

Le valutazioni qualitative sono sorprendenti sopratutto parlando di televisione. La credibilità di tutti i telegiornali nazionali, a parte quella di La7 e Rai News24, è in caduta libera; questo farebbe presupporre un atteggiamento maturo degli spettatori che premiano servizi informativi che cercano di puntare sulla qualità pur avendo (almeno nella percezione del campione) una connotazione politica verso centrosinistra. Sensazione probabilmente comune a Ballarò e Report, i programmi che ottengono il miglior rating in termini di fiducia (anche se il primo è in calo e il secondo in crescita).

Ma la stranezza implicita nella ricerca non è solo in questa identità tra qualità dell’informazione e voto a sinistra dei giornalisti; è anche e soprattutto nella netta preferenza per Striscia la notizia, che mette d’accordo circa 2 italiani su 3 come programma nel quale aver fiducia, seppur di taglio comico. Il “TG” di Ricci sembra avere una credibilità illimitata su tutti i potenziali spettatori, indipendentemente dal loro colore politico; molti gli riconoscono la dignità di servizio pubblico e appunto una significativa capacità di indipendenza. Forse non fa ridere più nessuno, ma è ritenuto utile (d)a tutti.

Longitudini parastatali

Trotterellando nelle lounge di Trenitalia nelle ultime settimane era possibile trovare delle copie omaggio di Latitude. Un piccolo evento da cogliere al volo, non tanto per il prezzo di copertina del mensile (12 Euro in versione cartacea, 8,99 Euro su iPad), quanto per la sua fama, tra gli addetti ai lavori, di introvabile rivista fantasma. Longitudine è nato all’inizio di quest’anno sotto l’egida di Franco Frattini, Ministro degli Esteri che al lancio elogiò la «coraggiosa e indipendente iniziativa editoriale che punta ad illustrare la nostre decisioni in politica estera» ma non chiarì affatto i rapporti editoriali ed economici tra la rivista e il suo Ministero.

Nel corso dei mesi Longitude ha alternato begli articoli di approfondimento sulle dinamiche internazionali e obbrobriosi spazi lasciati all’ego dei politici al potere. Il tutto in lingua inglese, accompagnato con una grafica curata, da magazine di vocazione internazionale. Un prodotto editoriale tutto sommato interessante, anche se dalla diffusione piuttosto dubbia: da un lato può aver senso il non trovarlo in nessuna edicola italiana in quanto prodotto teoricamente rivolto all’Estero; dall’altro sorgono seri dubbi su chi possano essere i veri destinatari di un simile prodotto editoriale e quali i canali di distribuzione più adatti e/o in effetti adottati.

Ipotizzando dunque una diffusione prossima allo zero e comunque non sostenuta da acquisti di cittadini e studiosi di politica internazionale, si può ipotizzare che il business model di Longitude, ufficialmente prodotto da una omonima startup di Roma e dal service editoriale Koiné di Milano, sia basato sulla pubblicità: non frequentissima rispetto al totale della foliazione, ma decisamente caratterizzata. In questo numero di novembre 2011, oltre a marchi prestigiosi dell’economia italiana come UniCredit, Ferragamo e Versace, i posti d’onore sono occupati da Ferrovie dello Stato (questo spiegherebbe la presenza…), Enel, Eni e Finmeccanica.

Aziende parastatali, insomma, che in qualche modo potrebbero aver ricevuto “l’input” dal Ministero degli Esteri di contribuire a fondo perduto a questa iniziativa imprenditoriale di Pialuisa Bianco e dei suoi soci. Cosa succederà a queste aziende e soprattutto alla rivista col nuovo Governo? Longitude continuerà le pubblicazioni come se nulla fosse cambiato, con gli editoriali di Giulio Terzi di Sant’Agata al posto di quelli del suo predecessore? Verrà finalmente messo online il sito ufficiale? Si chiarirà una volta per tutte il rapporto tra rivista e Ministero? E soprattutto, Longitude troverà dei canali distributivi e un business model sensati?

Nepotismi giornalistici

De Sica, Gassman, Tognazzi, Amendola: cognomi di grandi interpreti del passato, ma anche di attori celebri di oggi. Un’intera generazione di attori cresciuta all’ombra dei padri, mostri sacri del cinema italiano; ad ogni intervista, la sensazione comune di essere cresciuti sgambettando per i set cinematografici, di aver trovato lo sbocco “naturale” della propria carriera (e della propria vita) sullo schermo.

È un po’ la logica del circo: cresci nel tendone, pensi che quella sia l’unica strada per il tuo futuro e l’ambiente circostante ti appoggia in quanto “figlio di”. La trasmissione da genitore a figlio della stessa professione (e si immagina della stessa passione) è d’altra parte cosa comune in Italia e sicuramente ha un suo senso industriale nel caso degli imprenditori che cercano di affidare l’azienda familiare ai figli.

La perversione del meccanismo appare quando si esce da spettacolo e imprenditoria: è luogo comune che i figli di notai diventino notai, che i figli dei docenti universitari seguano le tracce dei genitori in Facoltà. Negli ultimi anni lo si è visto con i giornalisti: i cognomi sono sempre gli stessi e in questo caso ci sono poche giustificazioni, a meno che non si scopra esista un gene ereditario del talento giornalistico.

In alcune testate, specie televisive, appare poi un fenomeno ancora più inquietante, quello dei “figli di”, ma non di giornalisti. Sono cognomi di politici, imprenditori importanti, altri personaggi “pesanti” attuali o del passato, che si difendono dietro il classico meccanismo retorico del «volete mettere in discussione la nostra professionalità perché “figli di” genitori ingombranti?» (la risposta sarebbe sì, ma vabbè).

La vera questione da porre loro sarebbe relativa al perché siano arrivati lì. Perché, pur capacissimi come pochi altri, i pochi altri comunque ci sono e probabilmente si disperano nelle redazioni di periferia con contratti imbarazzanti o semplicemente hanno cambiato mestiere. Il giornalismo dovrebbe essere sempre libero, indipendente, mai servizievole. Implicitamente o esplicitamente, poco importa.

Panorama: perché?

Le copertine dei primi dodici numeri di Panorama disponibili su iPad

Questo post potrebbe esaurirsi col titolo e con l’immagine di cui sopra: si tratta delle copertine degli ultimi dodici numeri di Panorama, come vengono presentate sull’applicazione iPad del magazine. Basta guardarle: tre presentano ministri del Governo in carica sorridenti, a introdurre le agiografie presenti all’interno; tre, consecutive e volutamente brutte (più due richiami sui numeri successivi) sono dedicate ai presunti illeciti del Presidente della Camera Gianfranco Fini, caduto in disgrazia politica rispetto al Governo di cui sopra; le altre… Si commentano da sole.

C’è un pregiudizio diffuso che vuole che i grandi periodici italiani siano popolati da donnine nude e trattino esclusivamente argomenti scabrosi; quanto ciò sia vero è statisticamente visibile nelle copertine di cui sopra, ma tendenzialmente si può dire che la moda del “donna nuda in copertina a tutti i costi” sia un po’ passata. Panorama, come L’Espresso, sono oggi magazine più completi ed eleganti (anche dal punto di vista grafico) di ciò che erano una decina di anni fa. In qualche modo sono riusciti a ricostruirsi un ruolo in un’era difficile per questo tipo di editoria.

Ad esempio, oggi le applicazioni dei due periodici, o quella di Internazionale, sono tra i contenuti più interessanti tra quelli in lingua italiana per iPad. È un piacere consultarli nei tempi morti e proprio l’app di Panorama è quella che forse merita un plauso per uso delle multimedialità e comodità di utilizzo. Ma il dubbio sui contenuti rimane: perché? Perché uno dei più prestigiosi magazine italiani deve sottostare in maniera così supina ad una determinata parte politica, in particolare quando la parte in questione è al Governo, invece di lanciarsi nel giornalismo di inchiesta?

Fa male scorrere le pagine della rivista e leggere gli editoriali supini di Vespa, Ferrara, Buttafuoco, a precedere articoli “a senso unico” frammisti a saltuari dossier interessanti, consoni alla storia del settimanale su cui scrissero i più importanti giornalisti e scrittori italiani. Non è sempre stato così, visto che a metà anni Novanta, pur sotto proprietà Fininvest, Panorama continuava a pubblicare copertine contrarie al Governo Berlusconi, se necessarie. Oggi invece continua a inseguire Il Giornale su terreni imbarazzanti e poco intellettualmente autonomi. Perché?

E tutti twittavano “Al lupo! Al lupo!”

Se nel mondo “reale” la morte di Mike Bongiorno ha rappresentato la fine di uno degli ultimi personaggi residui di un mondo che sta sparendo, in Rete si è assistito ad una sorta di rivisitazione italica della scomparsa di Michael Jackson vista attraverso i social network. Come era avvenuto in quell’occasione negli Stati Uniti, molti di noi hanno appreso la notizia curiosando in Rete, magari approfittando della pausa pranzo per fare un giro sulle piattaforme sociali.

I primi che hanno tweettato la notizia, a dire il vero, l’hanno comunque appresa da media tradizionali. Quelli che l’hanno letta, sono corsi a verificarla sui quotidiani online e, in assenza di riscontro immediato, hanno iniziato a retweettarla a mo’ di scoop del secolo. In realtà sono bastate poche decine di minuti per permettere ad agenzie e quotidiani di togliere dal freezer i coccodrilli, con molti particolari sulla carriera del presentatore e pochi sulle circostanze della morte.

La notizia si è quindi incanalata sui social network “di approfondimento”, quali FriendFeed e similari. I tweet hanno cambiato leggermente tono, passando dallo “sto dando una notizia in anteprima” a “mi dispiace per la morte di Mike Bongiorno”. Il focus del giorno quindi non è stato più il decesso in sé, ma le emozioni suscitate dall’evento in chi lo stava commentando a poche ore di distanza. Con tanto di commenti sull’efficacia di Twitter nel diffondere notizie.

Uno sviluppo tutto sommato equilibrato della vicenda, lontano da quello cui si assiste ogni volta che si è di fronte ad una notizia che si vorrebbe “far crescere dal basso”. Che si sia testimoni di una piccola o grande scossa di terremoto nel quartiere, di un treno che deraglia o di un violento acquazzone, lo spirito da reporter ci pervade rendendoci inconsciamente obbligati a gridare al mondo quanto sia importante ciò cui stiamo assistendo, alla faccia dei media silenziosi.

Grazie a Dio, raramente i nostri drammi sotto casa sono davvero rilevanti per il resto del mondo. I nostri contatti sui social network però si fidano della nostra percezione ed amplificano le notizione che diffondiamo a rotta di collo. Con tutta calma, le agenzie di stampa valutano l’accaduto, lo formalizzano con il livello di allarme che gli è proprio e lo immettono nel circuito tradizionale dei media. Solo in pochi casi la notizia ha davvero l’entità che percepiamo noi.

Una volta si diceva grassroots journalism e si faceva sui blog, ora bastano 140 caratteri per lanciare un urlo che, se il nostro network è abbastanza grosso e abbastanza suscettibile, non rimarrà solo. Dovremmo però imparare ad evitare di gridare “Al lupo! Al lupo!” e sconfessare i media se non premiano  la nostra voglia di protagonismo. Bene per la nascita dal basso dell’informazione; male, anzi malissimo, per il volersi sentire centro dell’universo.

Giornalisti, blogger e redattori di Wikipedia

Metà dei quotidiani al mondo hanno ironizzato sul fatto che l’altra metà abbia ripreso, senza nessuna verifica, una citazione errata da Wikipedia inserita appositamente da uno studente dublinese per evidenziare a tutto il mondo esattamente il tranello in cui i giornali sono caduti ed in cui, in effetti, cadono con preoccupante frequenza. Molti blogger hanno così iniziato a dubitare della qualità delle voci di Wikipedia, rischiando il tipico fenomeno del bambino gettato via con l’acqua sporca.

Il circolo vizioso è auto-evidente: un redattore qualsiasi, magari un anonimo in malafede, inserisce un contenuto falso o comunque non documentato su Wikipedia su una voce che, qualche tempo dopo, risulterà particolarmente di attualità. In quel momento la voce verrà consultata da milioni di lettori in tutto il mondo, blogger e giornalisti compresi. Questi ultimi lo riprenderanno sui propri articoli e presto un altro redattore citerà quegli articoli come fonti “attendibili” su Wikipedia stessa.

Un vero e proprio circuito, che permette ai blogger di lanciarsi in invettive contro i giornalisti. Il problema riscontrato è nella scarsa fiducia che i giornalisti hanno in sé stessi e la loro dimestichezza con ricrca e verifica delle fonti. Preferiscono, stressati dai tempi e dalle gerarchie dei giornali contemporanei, confondersi con gli utenti “qualsiasi” della Rete, abbandonarsi alle placide consuetudini che, nel tempo, si sono sedimentate tra blogger ed altri cittadini di queste terre.

Un'immagine da toothpastefordinner.com ripresa da Enrica Garzilli sul suo tumblelogQuesto ha inevitabilmente ibridato i ruoli e spinto molti blogger a considerarsi di pari dignità o addirittura più attendibili dei giornalisti, ritenuti superati e inutili come i loro giornali. Posizione del tutto sciocca, che deriva da una colpa di fondo di entrambe le parti in causa: i giornalisti hanno peccato di faciloneria, i blogger hanno peccato di presunzione. Questo scenario ha messo in luce i redattori di Wikipedia come enti terzi ed eterei, superiori a tutto e tutti, seguaci del santo Neutral point of view e della correttezza delle fonti. Posizione che però cozza col fatto che non siano onniscenti e pertando che Wikipedia non vuole e non debba essere l’unica fonte attendibile su questa Terra.

Forse sarebbe il momento che tutti tornassimo a fare il nostro mestiere o, quantomeno, a inseguire i nostri interessi senza volerli a forza trasformare in un lavoro. I giornalisti dovrebbero riscoprire il fascino del proprio lavoro, i blogger dovrebbero divertirsi nel tenere i propri diari e i redattori di Wikipedia dovrebbero concentrarsi sulla qualità delle voci piuttosto che sulle rigidità burocratiche. Poi, ognuno di noi potrebbe svolgere le tre attività nel corso della propria vita. Mai nello stesso momento, però.

La Pasqua dei terremotati e dei giornalisti invadenti

Difficilmente si ricorda una Pasqua tanto amara in Europa. Il ricordo di 300 vite spezzate è vivido e le difficoltà viste negli occhi di persone troppo simili a noi per essere ignorate hanno segnato profondamente questi giorni di (presunta) festa.

Non può evidentemente esistere nessun altro tema meritevole oggi di riflessioni profonde se non quello del terremoto e così anche .commEurope si adegua: ovviamente, il focus è verso il tema principale di questo blog, cioè la gestione della comunicazione.

Il terremoto a L’Aquila, d’altronde, rimarrà impresso nelle nostre menti anche per il pessimo servizio che i giornalisti di tutte le testate e di quelle televisive in particolare hanno reso agli abitanti delle zone terremotate prima che a noi spettatori.

I giornalisti hanno infatti abbondantemente intralciato i lavori di salvataggio e di soccorso ai terremotati. Va bene il diritto di cronaca e grazie per il sacrificio (…) dei viaggi su e giù tra Roma e L’Aquila, ma forse si poteva evitare di far precipitare la situazione.

La sensazione che si è diffusa in Rete è quella che i telegiornali abbiano dimostrato un tale interesse per gli ascolti da essere diventati poco credibili quando hanno cercato di dimostrare compassione e pietà per le vittime e supporto ai soccorritori.

Ascolti, peraltro, del tutto inutili a fini pubblicitari. La Rai, in particolare, ha bruscamente ridotto la trasmissione di spot e reso pertanto inutile la corsa all’audience. Corsa che, a questo punto, si sospetta essere un esercizio di auto-esaltazione fine a sé stesso.

Eluana Englaro, Enrico Mentana, il Grande Fratello

La morte di Eluana Englaro addolora o rasserena: a seconda della propria posizione etica su eutanasia e stato vegetativo, è dificile non “schierarsi” su tempi e modi della vicenda. Lo abbiamo fatto tutti noi, al di là della professione esercitata e dell’esperienza nel campo: lo hanno fatto anche i giornalisti, che di questa storia ci hanno parlato in abbondanza.

Più di una voce obietta che questa copertura sia stata eccessiva. Alcuni pongono l’accento sui vari media confrontandone comportamenti e livelli di approfondimento, altri evidenziano l’imbarazzante livello di spettacolarizzazione che una vicenda tutto sommato privata ha assunto. Qualche giornalista forse è andato oltre, soprattutto in televisione.

Quando Enrico Mentana ha presentato le proprie dimissioni ai manager Mediaset, ormai le polemiche avevano cambiato natura: dal ruolo dei giornalisti nella vicenda alla reazione dei media al decesso. Mentana è diventato il paladino del silenzio rispettoso vs. chi ha voluto mettere in onda i vari Grande Fratello e X-Factor poche ore dopo la notizia.

I risultati del Grande Fratello, in qualche modo, sembrano avergli dato torto. La massa non ha il suo stesso senso etico e forse, memore della super-copertura giornalistica dei giorni precedenti, ha abbandonato il cadavere dell’Englaro al suo destino e si è concentrata sui “drammi” di Cinecittà. Più che l’etica, poté l’assuefazione. Più della morte, lo spettacolo.

Quando tutto diventa “storico”

Quanti momenti “storici” ci sono nelle noste vite terrene? Quanti ne viviamo in prima persona, quanti ne vediamo tracciati sui vari media, quanti ci sono raccontati da conoscenti, parenti, amici, colleghi? Quanti meritano davvero l’epiteto di “storico”, quanti in effetti lasceranno un  solco nella coscienza comune e quanti nella storia personale?

A leggere i giornali, viviamo ogni giorno nuovi, emozionantissimi, momenti storici. Tutto merita questo aggettivo: la decisione di un consigliere provinciale, il record olimpico di un atleta, gli aerei sul World Trade Center, la cresima del figlio di un attore, lo share di un programma televisivo. Tutto insieme giù nel calderone, tutto indelebilmente (?) “storico”.

La comunicazione politica, poi, si diletta a enfatizzare questa tendenza. La nascita di ogni partitino sembra essere la svolta che porterà la democrazia italiana verso un glorioso futuro, ogni risultato delle elezioni statunitensi viene letto come momento imprescindibile per il salvataggio delle sorti del mondo. Con buona pace degli “storici” risultati di Obama.

La verità è che i nostri giorni procedono con una noia terribile e senza grosse svolte significative. Potrà far parte della Storia il primo passo dell’Uomo sulla Luna, ma tra qualche centinaio di anni di tutto periodo storico rimarrà poco o nulla. Perché la comunicazione va veloce e la cronaca è diversa dalla storia. Altri momenti “storici” si succederanno.