Italo, family day e LGBT

Ci si potrebbe domandare cosa sia peggio nei due messaggi pubblicati oggi su Facebook da NTV: il tono, il contenuto, la finalità. Tutto sbagliato, surreale per una società che vorrebbe presentarsi come innovativa e moderna: un misto di arroganza, supponenza e probabilmente anche modesta visione di business.

I treni Italo viaggiano già semi-vuoti dalla nascita: ora una nuova ondata di utenti insoddisfatti sta correndo a dichiarare il proprio boicottaggio, spesso sottolineando di aver fatto lo stesso dopo le dichiarazioni di Guido Barilla. Non solo gay: stavolta i diritti civili in gioco sono più ampi e NTV è riuscita a scontentare tutti.

Cercare di cavalcare tematiche sociali è piuttosto difficile: i consumatori sono diffidenti e proprio il mondo LGBT è quello più maturo e “scafato” nell’individuare marchi sinceri rispetto a chi vuole solo approfittare di una patina cool. Molti markettari saranno sempre più tentati: ma i diritti civili sono una cosa davvero seria.

Sarebbe interessante vedere se gli sconti concessi per il family day riusciranno a far vendere più biglietti, sufficienti almeno per coprire quelli non più venduta a causa del backlash. Sarebbe bastato non fare nulla, come Trenitalia: se non si riesce a essere empatici e socialmente responsabili, meglio stare sottotraccia.

Acquisition, semplicità e retention

Il 99% dei lanci di nuovi prodotti quest’anno è fallito. Il dato, proveniente dal Breakthrough Innovation Report di Nielsen, emerge dall’analisi di quasi 9.000 nuovi prodotti in tutta Europa: meno di un centinaio dunque sono quelli che probabilmente sopravvivranno sugli scaffali dei negozi.

Un dato che farebbe desistere parecchie società: perché investire in R&D quando potrebbe essere più facile continuare a investire sulle “cash cow”? E soprattutto: perché sforzarsi di innovare quando si potrebbe svendere le cash cow in questione a prospect, per crescere la base clienti?

Sono domande da marketing elementare, eppure non è che si vedano sul mercato europeo delle risposte così precise e soprattutto efficaci. La strategia più comune sembra: butto sul mercato di tutto dando sconti folli a chi non è ancora cliente, poi qualcosa rimarrà attaccato alla rete.

Questa pesca a strascico però non è che dia grandi risultati. I clienti “storici” spesso si accontenterebbero del proprio prodotto di sempre, venduto a un prezzo decente, senza complicazioni non necessarie. Le feature “premium” spesso finiscono per distrarre più che convincere.

Non c’è una ricetta magica per capire in quale quadrante della matrice prodotto tradizionale/innovativo vs. retention/acquisition posizionare la propria azienda o i singoli prodotti; ma è abbastanza certo ormai che piuttosto che provare ad acquisire a vanvera, ha senso coltivare l’orto.

Noooo, logo!

Ogni tanto spunta un articolo come quello di Mental Floss che passano in rassegna casi emblematici di loghi infelici, spesso ri-edizioni di quelli usati per anni da brand di prestigio, amati da tutti e probabilmente proprio per questo ampiamente criticati nel momento del cambiamento.

In questi casi a volte il cambio è dovuto, magari perché il logo storico è relativo a un’azienda oggetto di M&A e si vuole opportuno dare visibilità al nuovo assetto; in altri è voluto dal management per “svecchiare” l’immagine del prodotto o dell’azienda, magari nell’ambito di una nuova brand image.

Ci sono un paio di casi italiani in cui il cambiamento è stato (all’apparenza) così limitato da aver creato malumori tra gli azionisti per il budget di revisione: il passaggio da bpu><Banca, ad esempio, ma soprattutto quello di Alitalia, che passò a una versione inclinata del lettering.

In queste settimane proprio la (ex) compagnia di bandiera è alle prese con una revisione della propria immagine: ci è stato promesso un nuovo logotipo ma anche qualche intervento più radicale sul modo di comunicare dell’azienda, che per fortuna non è dovuta passare da una tragedia à la Germanwings.

Aspettiamo incuriositi, sperando che i manager internazionali che la guidano siano un po’ più illuminati dei “padri” dei drammatici cambi di logo visti negli ultimi anni. In ogni caso poi li giudicheremo a valle per la capacità di innovare radicalmente il business, che è molto più importante del resto.

La centralità dello staff di contatto

Eataly è un po’ il caso limite: eccellente assortimento di alta qualità sugli scaffali, staff per la maggior parte poco qualificato e spesso demotivato. Fa forse un po’ parte del business model pagare poco i ragazzi in t-shirt bianca, in modo da avere più fondi per far crescere ancora la catena, ormai piuttosto diffusa nel mondo. Ma Eataly non è l’unica a trovarsi in questa situazione di “dissociazione” tra quanto vuole comunicare e quanto riesce a trasmettere attraverso il suo staff di contatto: decine di piccole e medie imprese commerciali, specie se orientate a un target “premium”, si trovano a vivere quotidianamente questa situazione.

Peraltro, in un mercato in cui spesso il consumatore sa (o pensa di sapere) più del venditore, quest’ultimo deve riuscire a comunicare competenza senza arroganza, cortesia senza fretta di chiudere. Nei negozi di elettronica di dimensioni maggiori gli specialist oscillano tra discussioni appassionate con clienti interessa(n)ti e indicazioni banali sulla dislocazione delle ciabatte; nei contact center non è difficile passare dal cliente sovreccitato di una chiamata di lamentala inbound alla calma necessaria per effettuare una chiamata a freddo in outbound. E il tutto, quasi sempre, con incentivi molto limitati o legati a obiettivi arbitrari.

Le catene internazionali stanno sperimentando modelli in cui il cliente possa contattare lo staff di contatto per sfruttarne le competenze, in modo riservato o talvolta tramite social network. In tutti i casi, la competenza è cruciale, visto che non ci si riferisce più a un generico addetto della società, ma alla persona che riveste quel ruolo specifico nel quel punto vendita, magari identificato per nome e cognome. A fronte di una possibile crescita nella loyalty del cliente, si tratta di un potenziale aggravio nei compiti dello staff, che peraltro deve acquisire anche nuove competenze, ad esempio tecnologiche, che vanno molto oltre il consueto.

Micah Solomon ha parlato provocatoriamente di “bad customer service on purpose” identificando diverse leve da curare nel setup e soprattutto nel mantenimento di un livello di servizio adeguato alla clientela: nella prassi quotidiana le vediamo costantemente disattese, sia quando siamo dall’altra parte in veste di clienti, sia quando quelle leve dovremmo curarle all’interno di strategie di marketing che, al di là degli slogan sulla customer-centricity, siano davvero efficaci. Sorge il sospetto che sia più facile lambiccarsi con prodotti e campagne attraenti che poi curare l’ultimo miglio di vendita e post-vendita, fatto di esseri umani.

Dammi il tuo nome

Quando lo scorso anno Starbucks aveva iniziato a regalare bicchieri di latte macchiato in cui il nome della catena era sostituito con quello dell’acquirente, il debranding sembrava ancora una cosa innovativa. D’altra parte la medusa è ormai un simbolo talmente riconosciuto e riconoscibile che la manovra ricordava un po’ l’adozione della M dorata come logo unico di McDonald’s, senza scritte superflue.

Proprio la catena di fast food in estate aveva estremizzato la propria distintività lanciando in Francia una campagna in cui TBWA puntava tutto sulla riconoscibilità di un Big Mac o di un Sundae: in fin dei conti se riusciamo a riconciliare le immagini pubblicitarie perfette di questi prodotti con i loro sciupati alter ego reali, vuol dire che i prototipi ce li abbiamo bene impressi in mente. Comunque erano avvisaglie.

Il debranding ha fatto un salto epocale con la campagna Coca Cola che un po’ in tutto il mondo ha visto sostituire il logotipo su lattine e bottigliette con i nomi delle persone con cui la bevanda veniva condivisa. Un’idea che ha letteralmente invaso il Web, ma soprattutto ha avuto un riscontro universale nella vita quotidiana, tra clienti di tutte le età e le estrazioni sociali, anche negli eventi sul territorio.

Poi sono iniziate le imitazioni. La più clamorosa è stata quella di Nutella, che con una versione un po’ cheap (etichette da appiccicare su barattoli standard, pacchetti dono inviati a blogger e altre amenità da manuale) ha cercato di riprodurre il successo dell’iniziativa globale della bibita gasata, suscitando tanti “tu quoque” e sbadigli tra gli utenti italiani, che solo in parte hanno aderito all’iniziativa.

Non è difficile immaginare che ci saranno altri emuli, anche se ormai il giochino del nome è stato abusato. Rimangono invece grandi potenzialità sul debranding, in un mondo in cui i brand “pesanti” hanno sì fatto storia, ma rischiano ora di diventare pesanti. Una mela morsicata o uno swoosh sono ormai simboli più che riconoscibili, sarà curioso vedere se scompariranno anche essi dai relativi prodotti.

Saluti da Praga

Lo spirito è quello del post di qualche anno fa che portava ai lettori di .commEurope una “cartolina” da Nizza. Visto che in questi mesi si prevedono diversi giri per il mondo, l’idea è di riprendere l’abitudine di appuntare qui sul blog le osservazioni sul marketing “europeo” visto di volta in volta nei quartieri delle città visitate. Si inizia con Praga, una vera e propria bomboniera per turisti, anche squattrinati. Rispetto alle altre capitali europee si fa fatica a scovare i luoghi ingombranti della democrazia; piuttosto tutto è votato ad attirare l’attenzione di chi passa periodi più o meno brevi in città. Praga è amata dai ragazzini in cerca di alcool come dai vecchietti a caccia di foto dei tanti monumenti.

Le strade della città sono un groviglio di marchi internazionali: non sono solo i fast food e i fast fashion ad aver trovato terreno fertile; la cosa interessante è che si scontrano tutte le catene dell’Europa continentale ma anche i grandi nomi Britannici e Statunitensi. Quindi Paul si mischia con Hooters, mentre le catene locali sono piuttosto sparute e poco coese. Probabilmente qualche anno fa i Marketers di tutto il mondo hanno capito che l’Est Europa era un terreno promettente e così si sono tutti riversati in massa; l’effetto è un overflow di offerta che probabilmente tranquillizza i turisti, ma non sempre riesce ad attrarre i locali. Qualcuno nota che gli stipendi cechi non sono ancora ai livelli occidentali.

Merito o colpa anche del mancato ingresso nell’Euro, che doveva avvenire lo scorso anno e invece pare rimandato a lungo termine contrariamente a quanto già avvenuto nell’amica-nemica Slovacchia. Il rapporto di cambio è relativamente favorevole per i turisti (anche se noi Italiani ci distinguiamo per aver perso la capacità di gestire monete diverse dall’Euro) ma un giro al supermercato fa sorgere qualche legittimo dubbio sulla redditività di chi vuole portare il proprio business in quelle zone. Sugli scaffali si trovano le classiche multinazionali formato-famiglia italiane (Barilla, Ferrero, Saclà, CIS), ma è difficile capirne il posizionamento, sempre in bilico tra premium e tentativo di allargamento del target.

Addio fiducia nel marketing

Periodicamente The Fournaise Marketing Group vuole far parlare di sé e quindi pubblica delle bombe sul proprio sito che poi inevitabilmente coinvolgono e fanno discutere i markettari di tutto il mondo. Si tratta solitamente di ricerche condotte su top manager di grandi e medie aziende, chiamati a giudicare il lavoro dei loro uffici Marketing o delle Agenzie fornitrici.

Questi erano alcuni findings degli studi dello scorso anno

«80% of CEOs were not very impressed by the work done by Marketers and believed Marketers were poor business performers. CEOs thought Marketers: (1) could not adequately prove the positive business impact their marketing activities had, (2) had lost sight of what their job really was (i.e. to generate more customer demand for their products/services), and (3) were not business performance-obsessed enough. […] 69% of CEOs admitted that over time, they had stopped imposing specific business-focused Key Performance Objectives (KPOs) and Key Performance Indicators (KPIs) for Marketers to achieve.»

E questi alcuni spunti emersi oggi.

«78% of CEOs around the world believe Ad & Media Agencies are not performance-driven enough and do not focus enough on helping to generate the (real and P&L-quantifiable) business results they expect their Marketing departments to deliver. […] 76% of CEOs feel Ad & Media Agencies are not business-pragmatic enough, are too inward-looking, talk too much about “creativity as the saviour” without really being able to unquestionably prove or quantify it, and are often too opportunistic. […] 74% of CEOs think Ad & Media Agencies are too disconnected from the short- and medium-term business realities […] 72% of these CEOs admitted they soon realised Ad & Media Agencies were not as data- and science-driven as they had expected, relied too much on gut-feelings, hearsay, wrong methodologies and questionable information»

L’azienda che pubblica le ricerche si occupa di marketing performance management e inutile dirlo ha in tasca la ricetta per far invertire la rotta alle aziende insoddisfatte grazie a una maggiore responsabilizzazione dei propri Marketing Manager. Pur tenendo in conto questa tara metodologica, comunque, non ci si riesce a meravigliare tanto dei risultati delle indagini.

Chiunque tra noi sia stato in momenti diversi da una parte e dall’altra delle classiche barricate Account Manager vs. Marketing Manager o Cliente vs. Consulente ha probabilmente cambiato idea sulla capacità di agenzie e società specializzate nell’indirizzare correttamente gli investimenti di marketing anche a causa di troppi comportamenti opportunistici, meschini.

L’agenzia fa i propri budget vendendo progetti di comunicazione che stanno in piedi con gli stecchini a Manager insicuri che di conseguenza i budget aziendali non li fanno proprio. Molti hanno iniziato a parlare di “digital” come soluzione misurabile, salvo poi tirar fuori KPI del tutto scorrelati con l’effettivo andamento del business aziendale, col ritorno sugli investimenti.

È indubbiamente un far west e la crisi perdurante esaspera i comportamenti opportunistici; ma è davvero paradossale che non si abbia il coraggio di investire in campagne di marketing pagate sulla base della performance, piuttosto che continuare a rosicchiare centesimi dai costi. Dobbiamo tutti vendere di più, dobbiamo avere il coraggio di metterci in gioco.

Bentornati salatini, addio miglia

Dopo meno di un anno e mezzo Alitalia è tornata a offrire il mini-snack sui voli nazionali. Non solo in questi mesi la compagnia ha preso schiaffi a iosa da parte di Trenitalia e NTV, ma ha ormai anche perso il monopolio sulla rotta Linate-Fiumicino, che era stata l’unica ancora di salvezza dei bilanci durante i primi anni di vita di CAI. C’è poi stato un altro evento che ha contribuito al suicidio: la fine del programma Millemiglia 2008-2012 e l’avvio di una nuova edizione.

Alitalia ha posto l’accento sulla necessità per legge di dare una scadenza anche al più lungo dei programmi, ma i frequent flyers sanno bene che nel passato si son trovati espedienti per esaurire formalmente un’edizione e lasciare agli utenti più fedeli la possibilità di ritrovare i punti sull’account del nuovo programma. Questa volta si è puntato tutto sul far consumare le miglia accumulate da lustri, di edizione in edizione, per ripartire con un credito zero rispetto ai Clienti.

Bel modo di recidere il cordone che legava i più fedeli alla compagnia di bandiera. Come scriveva Ana Andjelic, non solo è complicato seguire nel tempo i programmi delle compagnie, ma è anche triste ricominciare ogni anno ad accumulare miglia qualificanti. Una tendenza masochistica per cui da un anno all’altro il Cliente può passare tranquillamente dal paradiso della fascia top a essere trattato come un novellino, indipendentemente dalla sua storia nei confronti dell’azienda.

Il nuovo programma Millemiglia è simile al precedente, con fasce più alte per ritirare biglietti premio; i Clienti aspettano sospirando l’adesione al programma Flying Blue di Airfrance KLM, contrassegnato da soglie elevate per l’accesso ai club premium. Nel frattempo non è difficile pensare che, più che l’intrattenimento di bordo, per molti la nuova arma di fidelizzazione saranno i prezzi bassi. E su questo fattore Easyjet e Ryanair son lì a godere dell’harakiri di Alitalia.

Generazioni in guerra

Se la distanza dei ricchi dal resto dalla popolazione è un fenomeno storico e al massimo accentuato dalla crisi, la contrapposizione tra anziani benestanti e giovani senza futuro è una triste realtà attuale, che potrebbe condizionare in profondità lo sviluppo macroeconomico di intere generazioni, di interi mercati nazionali.

Molti under-30 oggi guardano con disperazione a Bernardo Caprotti che tiene il suo impero sotto chiave o ai suoi coetanei miliardari che controllano le principali aziende europee. Più prosaicamente, conoscono vicini di casa in pensione da lustri con assegni mensili superiori agli stipendi dei loro (sognati) apprendistati.

Gli impatti sono profondi: il Washington Post ha sottolineato la crescita sostenuta della depressione, il ritardo nel setup delle famiglie e ovviamente seri problemi di natalità, attuale e prospettica. Di consumi nemmeno a parlarne, visto che non c’è modo di spendere quello che non si ha e non si è meritevoli di credito.

Il paradosso peggiore? È che le giovani generazioni senza futuro superano di gran lunga in termini di competenze hard e di soft skill genitori e nonni, cui spesso sembrano alieni onniscienti ai quali non sanno vendere prodotti e servizi. Anzi, cui non sanno più nemmeno vendere la speranza di un futuro sostenibile.

Ma i ricchi cercano di stare bene (in Europa?)

Mentre le famiglie “normali” si dimenano tra acquisti di base e rate del mutuo sempre più insostenibili, con redditi e patrimoni arretrati di 20 anni, c’è un target che sembra non soffrire molto: basti dire che la produzione Lamborghini va a gonfie vele, visto che non mancano acquirenti di tutto il mondo disposti a spendere qualche centinaio di migliaia di Euro per auto-bomboniere.

Basterebbe osservare la società italiana: gli High Net Worth Individual sono più o meno stabili in questi anni di crisi, nonostante i crolli dei mercati. Certo, sono appena 170.000, un numero piuttosto limitato rispetto al totale della popolazione, che difficilmente può salvare l’economia italiana con tasse alle stelle secondo la ricetta francese (si parla di imposte nell’ordine del 75%).

Al contrario, si tratta dei tipici personaggi che al crescere della pressione fiscale cambiano proprio aria, fiscalmente e fisicamente. Come ha notato Paola Bottelli, la priorità di questo target, più che la rincorsa ai beni fisici, è in questo momento «vivere bene» e quindi l’experiential luxury, la ricerca del benessere psicofisico mentre dietro la finestre impazzano crisi e manifestazioni di piazza.

L’Europa occidentale è indecisa se diventare il paradiso ideale di questo tipo di paperoni e risollevare le sorti della popolazione residente. Non è facile trovare un equilibrio, ma d’altra parte sarebbe sciocco continuare a pensare di poter essere una potenza industriale, specie nel momento in cui non si riesce a trovare una sintesi politica, sociale, economica tra Paesi egoisti e diffidenti.