Il re-engagement è nudo

Sarà per il caldo asfissiante di questi giorni, ma quanti di noi hanno davvero voglia di inoltrarsi negli “appassionanti” giochi che le aziende pubblicano sulle pagine Facebook? Quanti di noi, pur con un clima più favorevole, sentono davvero crescere l’affetto nei confronti delle marche che ci obbligano a mettere “like” e poi a passare tempo su applicazioni sciocche?

Queste domande di buon senso sembrano essere sistematicamente fuori dai percorsi decisionali delle agenzie di comunicazione, che convincono le società clienti a mettere in piedi campagne cognitivamente pesanti per gli utenti, inseguendo il mito (purtroppo) imperituro che sia necessario far crescere l’engagement e che il modo migliore per farlo sia far perdere tempo.

Un articolo di Patrick Spenner qualche settimana fa riprendeva i risultati di varie ricerche, più o meno tutte convergenti sulla diversa percezione tra Marketing Manager (“i nostri Clienti vogliono far parte della comunità del nostro brand!”) e utenti (“dove sono i buoni sconto?”), sulla necessità di puntare sulla semplicità come leva per iniziare un timido dialogo.

Studi di discipline differenti hanno negli anni mostrato come gli esseri umani tendano a pensare il meno possibile, di come persino prodotti e servizi costosissimi vengano poi scelti più sulla base di ragionamenti di pancia che di attente analisi costi/benefici. Chissà se nel tempo aziende e consulenti matureranno nell’approccio, smettendola di far stancare i clienti.

Ricerche di mercato un po’ strumentali

Non siamo verginelle: la maggior parte delle imprese per cui lavoriamo ha probabilmente commissionato e utilizzato ricerche di mercato con finalità commerciali. Magari noi stessi, come Marketing Manager, abbiamo ceduto alla tentazione di chiedere a un Istituto di Ricerca una survey per accompagnare la nostra strategia di comunicazione.

Il riferimento qui non è all’adesione a un qualche osservatorio di settore per dimensionare il mercato di riferimento, sebbene talvolta anche questo tipo di ricerche venga poi strumentalizzata; si parla proprio di indagini sui clienti finali in cui si affida a un Istituto di ricerca una tesi e si chiede in tutti i modi di dimostrarla tramite la voce di chi compra.

L’abitudine è ormai diffusa in tutti i mercati, ma è sempre più frequente in ambito Retail. La foto qui sopra ad esempio è dell’evento di presentazione della ricerca intitolata “Alla ricerca della felicità: gli italiani e il valore della Golden Hour” realizzata da Doxa Duepuntozero e “sponsorizzata” da Strongbow Gold, il marchio del sidro di casa Heineken.

L’evento è stato accompagnato da un comunicato stampa ospitato in un’area ad hoc di un sito divulgativo dedicato al sidro insieme ai sorprendenti risultati della ricerca: non solo i nostri connazionali conoscono a menadito il concetto della “Golden Hour”, ma lo associano a elementi positivi come il cielo azzurro, i delfini, la spiaggia, la bella vita a Barcellona.

Sembra che gli italiani tengano a sottolineare la differenza tra “Golden Hour” e “Happy Hour”, ritenendo quest’ultima troppo burina e sex-driven; la maggioranza degli intervistati viene ricondotta al segmento dei “profondi”, contraddistinto dall’entusiasmo di «coltivare le relazioni più vere e sincere e in particolare le amicizie più care ed autentiche».

Si fa fatica a restare seri leggendo i risultati di questa indagine, pur condotta con metodo scientifico tramite questionari somministrati via Internet a un campione di mille italiani rappresentativi della popolazione tra i 18 e 54 anni. Siamo in tempi difficili e se fossimo titolari di Istituti di ricerca accetteremmo ogni commessa. Ma la dignità professionale?

Caro studente di Marketing…

Ti sembrerà strano, ma c’è stato un tempo in cui Microsoft era un’azienda “cool”. I suoi prodotti sembravano terribilmente innovativi, così user friendly e ben pubblicizzati, altro che quelli delle cariatidi tipo IBM, che prosperavano su interfacce che oggi troveresti terribili. L’azienda stessa veniva presentata come il posto migliore del mondo in cui lavorare, studenti di marketing come te e giovani ingegneri informatici facevano carte false pur di avere anche solo uno stage a Seattle.

Poi a un certo punto Microsoft era diventata troppo grossa, arrogante: il Web iniziava a diventare strumento di lavoro ancora più prezioso di Office e compagnia, per non parlare delle possibilità di intrattenimento infinito. A un certo punto un’azienda di estrazione universitaria, chiamata Google, era riuscita a conquistare tutti per la semplicità dei suoi prodotti. Anzi: del suo prodotto, il motore di ricerca più potente del mondo, ma con l’interfaccia utente più semplice dell’universo.

Google in pochi anni era cresciuta così bene da diventare il nuovo paradiso lavorativo dei giovani di tutto il mondo e i suoi prodotti riuscivano a sembrare semplici anche quando nascondevano capacità tecnologiche impensabili fino al giorno prima. Il Marketing funzionava così bene da divenire invisibile: altro che le campagne pubblicitarie miliardarie di quei fanfaroni di Microsoft, lo stile di Google era così riconoscibile e affascinante da ispirare un’intera generazione di designer.

Come dici? Ti viene da ridere pensando a Google Wave o a Google Knol? Comprensibile, un po’ tutto il mondo è perplesso, pensando a quanto possa essere irrazionale la scelta di appesantire Gmail con Google Buzz (e poi ucciderlo) o tarpare le ali a Google Reader per provare a portare traffico su Google Plus, scommessa social dal destino un po’ infelice. Google sembra ormai un gigante irrazionale e incattivito: pensa che sui libri troverai ancora il loro slogan “Don’t be evil”.

Ora adori Apple, sei circondato da dispositivi con la mela sopra e pensi che loro siano davvero bravi a comunicare i loro prodotti disegnati bene e dallo stile inconfondibile. Pensi che Microsoft sia un’azienda senza futuro e Google il mostro cattivo del Web. Non vedi l’ora di andare a lavorare a Cupertino e sei sicuro che Apple conosca davvero il futuro e sarà l’azienda definitivamente più stilosa della storia; fai attenzione, perché i miti passano, soprattutto quelli tecnologici.

C’est le jour de la rentrée

I Francesi adorano il concetto di “rentrée”. Ce ne possiamo accorgere anche in Italia quando i volantini delle grandi catene GDO di matrice francese lo sventolano a supporto delle campagne promozionali comprensive di grembiuli, cancelleria, notebook, motorini, libri, prodotti per la colazione. Per le famiglie con bambini il ritorno a scuola è in effetti un momento importante (e costoso).

È da dire che in realtà queste settimane sono un po’ particolari anche per noi che bambini non lo siamo più da un pezzo e che non contribuiamo a metterne al mondo di nuovi. Gli uffici Marketing se ne sono accorti e giocano molto sui concetti di fuga dalla realtà lavorativa in cui si sta tornando dopo le ferie o di rafforzamento delle capacità psico-fische per affrontare il nuovo “anno”.

Più che a Capodanno, in effetti, per bambini e adulti a settembre si avverte con forza la sensazione di avere davanti un muro da scalare, cui sopravvivere in qualche modo in attesa di arrivare all’estate successiva. In ambito travel si stanno finalizzando le campagne promozionali per la stagione invernale; qualche azienda addirittura propone già di prenotare le ferie dell’anno prossimo.

Buona rentrée a tutti i lettori di .commEurope, anche perché il nuovo “anno” sarà piuttosto difficile dopo i brutti momenti di crisi economica e finanziaria visti soprattutto da giugno in poi. Un augurio particolare a chi si occupa di comunicazione, perché non sarà facile gestire le leve emotive (oltre a quelle razionali) per riuscire ancora a vendere qualcosa a qualcuno, proprio ora.

Farse in legalese

"Abbiamo disegnato questo servizio interessantissimo, tra le altre cose lo puoi sottoscrivere con un click sul sito o comprare dallo scaffale del supermercato!" "No."

Il diniego, ovviamente, è quello del Legale. Product Manager e Consulenti vengono frust(r)ati quotidianamente dagli uffici che si occupano di tutelare l'Azienda da possibili ripercussioni dovute a problemi che prodotti e servizi potrebbero arrecare ai Clienti e quindi dalle possibili cause derivanti. In alcuni settori ad alta regolamentazione il Legale si è addirittura sdoppiato in più anime (cfr. uffici "Compliance", ad esempio).

Il risultato dei vari veti, magari incrociati, è che l'esperienza di ingaggio del Prospect, sia essa fisica o virtuale, viene spesso interrotta da cumuli di carta da firmare o da infinite paginate di scrittine in carattere 6 da scorrere su siti e applicazioni per PC e mobile; sarebbe bello scoprire se esista una persona al mondo che legga davvero ciò che firma o che approva con una spunta su "Ho letto e compreso quanto scritto sopra".

Se questa persona esistesse, probabilmente gli verrebbe diagnosticata una qualche malattia mentale. Se questa persona leggesse veramente quanto sta per sottoscrivere, l'apertura di nuovi servizi (ad esempio una carta fedeltà al supermercato o un'assicurazione in agenzia) durerebbe ore. Se questa persona avesse dei dubbi su quanto letto, non troverebbe dall'altra parte del tavolo un interlocutore preparato a rispondergli.

L'immagine è tratta da DogHouseDiaries

Tutta questa farsa si ipotizza tuteli le Aziende a scapito del Cliente, che rimane lì impassibile a mettere firme su pagine contrattuali dai contenuti misteriosi. In ambito Finance è diventata una barzelletta il concetto di "Trasparenza" imposto dal Legislatore, che le Banche hanno declinato nel tempo con la stampa di ulteriori fascicoletti in legalese all'atto dell'apertura e con l'invio (a pagamento!) di analoga fuffa in seguito.

Non se ne esce in alcun modo, perché anche le modalità più avanzate quali gli acquisti con firma digitale, non prescindono dal fatto che il testo incomprensibile in legalese esista, ma semplicemente minimizzano il numero di firme da apportare o le virtualizzano. Gli uffici legali interni ed esterni continueranno a prosperare sulla paura delle Aziende, i Clienti continueranno a ritenere che le stesse li stiano prendendo in giro.

La crescita vertiginosa del costo di acquisizione Cliente

C’è una cosa che accomuna in maniera evidente Compagnie telefoniche, Banche, Pay TV e progressivamente anche le Utilities che stanno iniziando a operare sul libero mercato dell’Energia: la corsa suicida verso l’aumento del costo di acquisizione Cliente. Una voce che per ogni azienda, anche di medie dimensioni, cuba milioni di Euro, ma che difficilmente si rileva a occhio nudo leggendo i bilanci. Col cappellino del Prospect, siamo felici quando una di queste aziende ci regala uno smartphone, un biglietto aereo, un buono sconto di un centinaio di Euro, o ci abbuona un semestre dei propri servizi. Col cappellino del Cliente, siamo arrabbiati perché alle stesse promozioni noi non abbiamo diritto. Col cappellino del Markettaro, incrociamo le dita che la promozione abbia successo e il Prospect “si converta” a Cliente.

Gianluca Diegoli racconta una vera e propria follia che costituisce l’altra faccia della medaglia, quella degli aggressivi agenti di vendita. Quei personaggi che, vivendo di percentuali sul venduto, non si fanno troppi problemi a gonfiare i propri numeri forzando a proprio piacimento le regole ferree stilate dagli uffici Marketing per trasformare tanti Prospect in Clienti; proprio quelli che poi finiscono su Striscia la Notizia o programma analoghi per le truffe che finiscono per incidere sulla reputazione delle aziende mandanti. Non tutti possono essere incumbent sul mercato della telefonia fissa o godere di altri vantaggi simili, che garantiscono di poter campare sulle cash cow per decenni. La maggior parte delle aziende deve prima costruirsi una base di Clientela massiccia, sperando poi che più che la retention potrà la fatica di cambiare fornitore.

Il “problema” (diciamo così, provando a pensare a chi un tempo dormiva sonni tranquilli mentre i canoni mensili scorrevano tranquilli) è che le Normative antitrust in tutti i settori cercano di smontare le rendite di posizione e oggi cambiare operatore telefonico mobile o fornitore del mutuo è abbastanza facile. E quindi sì, scateniamoci tutti a cercare di rubare Clienti alla concorrenza. Facciamo lievitare i costi di acquisizione nell’ordine delle centinaia di Euro, tanto l’Arpu (o il Minter, per chi si occupa di Banche) prima o poi andrà a regime, magari nel giro di un lustro o di un decennio o (è il caso di alcuni prodotti destinati ai giovani) di un ventennio. Periodi sufficientemente lunghi perché un altro concorrente, magari arrivato sul mercato dopo di noi o ancora più aggressivo, si lanci a sua volta in un’iniziativa acchiappa-Clienti.

Il mea culpa lo dobbiamo fare tutti, Manager e Consulenti, perché non abbiamo saputo costruire relazioni commerciali sufficientemente solide con i Clienti già acquisiti, puntando più sulla loro ignavia che su un reale interesse verso le aziende e la loro offerta. Quando si sono svegliati dal letargo, non abbiamo fatto altro che costruirci trappole a vicenda, tanto per raggiungere i budget del semestre che, tipicamente, includono proprio il numero di Clienti acquisiti tra i KPI. Alcuni di noi dicono che è colpa della Rete che ha amplificato le dinamiche della concorrenza feroce, altri la ringraziano proprio per l’aumento delle opportunità di entrare in contatto coi Prospect. In un certo senso, hanno vinto i Clienti, ma non nel senso di aver ottenuto migliori servizi da parte nostra: hanno vinto qualche cellulare e qualche buono sconto.

Che aria tira nei programmi di loyalty

Anche quest’anno il tradizionale Convegno sul Micromarketing dell’Università di Parma ha regalato spunti interessanti. Dietro la cattedra, i migliori ricercatori italiani su loyalty e dintorni e qualche esempio di azienda virtuosa; tra i banchi, diverse centinaia di addetti marketing, consulenti vari e professionisti della grande distribuzione. Il miglior meeting sul tema disponibile in Italia, peraltro gratuito.

Nei convegni markettari anche l'acqua è sposorizzata :-)

Ascoltando interventi pubblici e spunti dei partecipanti, è evidente come nell’ultimo anno il panorama italiano sia profondamente mutato rispetto a quello presentato un anno fa. Il movimento è stato spinto soprattutto dai cambiamenti in ambito Grande Distribuzione Organizzata, ma anche dall’aumento esponenziale nel nostro Paese dell’attenzione dei markettari verso i social network.

Si è iniziato a discutere anche del futuro, in qualche modo simboleggiato dalla tecnologia mobile, che tutto sembra ammantare: il cellulare come strumento di raccordo tra consumatori e aziende, ma soprattutto tra clienti della grande distribuzione e catene, che piano piano stanno capendo opportunità e minacce del mezzo, anche se le sperimentazioni non sono sempre così convincenti.

Bisogna anche dire che i grandi numeri stanno ancora sulle iniziative tradizionali, raccolte punti in primis; la cosa notevole è che le ricerche presentate dimostrano un interesse modesto da parte dei sottoscrittori che, nemmeno a dirlo, sembrano attratti soprattutto dalle promozioni di prezzo più che dagli altri fattori. In un certo senso, non c’è loyalty che tenga davvero in tempi di crisi.

Nei prossimi giorni gli atti del Convegno verranno pubblicati sul portale che raccoglie le iniziative dell’Osservatorio della Facoltà di Economia dell’Università di Parma e dei suoi partner. La registrazione è gratuita, la visione dei documenti è consigliata anche a chi non c’era. Per tutti i lettori di .commEurope: ci vediamo a Parma il prossimo anno, non si può mancare.

Il 2009? Meglio dimenticarlo

Una piccola tradizione su .commEurope è il post di fine anno, quello che cerca di commentare i trend visti nel corso dei mesi. Consuetudine comoda anche per poter poi tornare indietro a scorrere gli archivi e capire cosa è successo dal 2004 ad oggi. Basta rileggere l’articolo di chiusura del 2008, ad esempio, per sentire di nuovo il brivido di un anno che ha cambiato molte carte in gioco, in cui la crisi ha iniziato a mietere vittime nascendo in ambito finanziario internazionale ed iniziando a maturare effetti sulla vita quotidiana.

Quegli effetti si sono poi librati in tutta la loro drammaticità nel corso di questo terribile 2009. Come si era previsto ad inizio anno, pubblicitari e consulenti di comunicazione sono stati abbondantemente falcidiati: nel migliore dei casi, molti di noi hanno fortunatamente mantenuto la propria occupazione, pur lavorando in contesti fortemente colpiti dalla crisi come quello finance. Il segreto è stato quello scritto da Gianluca Diegoli nel suo bilancio di fine anno: trovare il coraggio e cambiare, lasciare per ricominciare.

Il marketing quest’anno ha sostanzialmente giocato in difesa: non tanto e non solo per il taglio dei budget, quanto per la necessità di adottare un tone of voice adeguato al clima di tensione quotidiano. Pochi i settori che hanno mostrato un minimo di vivacità: quello automobilistico, fortemente drogato dagli incentivi statali; quello televisivo, con le prime adozioni di massa del digitale terrestre e la necessità degli incumbent di mantenere le posizioni consolidate; quello delle TLC, grazie alle prospettive offerte da Internet in mobilità.

Per il resto, mestizia come se piovesse. Un anno da dimenticare, anche e soprattutto per coloro che tra noi hanno avuto problemi personali, tanto per condire fatturati in crollo e un generale clima di sfiducia legato a fatti di cronaca truci ed incredibili. Molti di noi hanno trovato conforto su FriendFeed, che è stata la piattaforma simbolo del 2009 per tutti i geeks, proprio nell’anno in cui il mass market scopriva Twitter dopo l’ubriacatura di Facebook. Per il resto, meglio dimenticare quanto successo e quanto non successo.

E ora, che si fa con gli UGC?

Non c’è consulente di comunicazione e dintorni che in questo periodo non si stia arrovellando sui dubbi che le aziende clienti pongono, in maniera crescente, riguardo agli User generated contents ed alla loro valenza in chiave di marketing. I consulenti furbetti tirano fuori idee improbabili tanto per fare budget; quelli un po’ più coscienziosi esplorano strade magari un po’ “alternative”, ma che cerchino di posizionare le aziende in un panorama in cui partono perdenti.

Finita la fase dell’incoscienza, in cui le aziende minimizzavano i contenuti dei blogger, pochi ed elitari, è ora il momento della passione collettiva per il monitoraggio degli spazi pubblici. Fioccano strumenti di analisi semantica, rinverdiscono passioni sopite verso strumenti prematuramente definiti morti come i Forum ed oggi riabilitati grazie alla visibilità che i motori di ricerca continuano a riservare loro.

In quest’orgia di monitoraggio collettivo, c’è chi decide di passare all’azione. C’è chi lo fa con trasparenza, inglobando le risposte alle osservazioni dei clienti nei doveri del customer care e proponendosi con profili pubblici sui social network; c’è chi lo fa in maniera fraudolenta, con quella tecnica terribile chiamata infiltration che, è bene ricordarlo periodicamente, è illegale in tutta Europa, Italia compresa, non solo quando serve a danneggiare i concorrenti.

Nel secondo scenario, il rischio di figuraccia per l’azienda “scoperta” è tale che solo un marketing manager molto aggressivo potrebbe crogiolarsi nei possibili risultati positivi. Nel primo, invece, l’azienda che interviene pur a voce bassa nelle discussioni tra privati rischia di venire percepita come invasiva, anche se si limita a segnalare le caratteristiche dei propri prodotti. E così si torna al dubbio iniziale: cosa fare con questi benedetti/maledetti contenuti nati “dal basso”?

Probabilmente la risposta è prematura e solo le aziende con una forte cultura di marketing possono lanciarsi in sperimentazioni, magari fallimentari, ma utili per costruirsi un ruolo nell’ecosistema complessivo. Per le altre, forse è opportuno aspettare un momento e continuare a monitorare gli spazi pubblici in maniera non ossessiva, raccogliendo domande dalla discussione e dando risposte nei prodotti. La prossima volta, almeno, saranno gli utenti stessi a parlarne bene.

Le tesi del [mini]marketing eretico

Provate a leggere queste affermazioni…

«Il marketing è morto in quanto sono esaurite le due condizioni che lo nutrivano: primo, che le persone non potessero parlare facilmente e direttamente tra loro, secondo, che il canale di trasmissione fosse concentrato, semplice e direttamente controllabile.»

«Ogni cosa è commentabile, che lo vogliate o no. Per esempio, pensate se il vostro payoff fosse commentabile: cosa ci scriverebbero sotto le persone? Tenetevi forte: lo è.»

«La media dei vostri clienti pensa a voi un centesimo di quanto voi crediate. Fatevene una ragione, l’atto di acquisto non è la loro sola attività, né la più emozionante.»

«Il danno provocato dal venditore incapace sarà più alto del risparmio che avete ottenuto con il suo contratto a basso costo – chi avrà avuto contatti deludenti, non lo terrà per sé. Se vendete al telefono, ogni trucco vi si ritorcerà contro come passaparola negativo. E no, i report di vendita non tengono conto di questo.»

«Se pensate che vendere su Internet non fa per voi, perché l’esperienza fisica della vendita per il cliente è ineguagliabile, avete ragione. Altri lo faranno volentieri al vostro posto.»

«Se credete realmente che i vostri clienti sono i negozi o i distributori che rivendono i vostri prodotti, siete nella stessa situazione di un veicolo condotto da un cieco. Fatevi guidare da chi usa davvero i vostri prodotti, ora che potete farlo.»

«Sappiamo che ciò che chiamate “carta fedeltà” è soprattutto un espediente per raccogliere dati su ciò che acquistiamo: se invece condividete con ognuno di noi ciò che vi interessa sapere, a che scopo, e ciò che sapete già, possiamo collaborare. In ogni caso la vostra reputazione migliorerà – e di conseguenza la nostra fedeltà.»

Siete rimasti insensibili? Probabilmente, sebbene siate lettori di .commEurope, non vi occupate in maniera prevalente di marketing, sales management e comunicazione aziendale. Altrimenti, gli spunti di cui sopra vi avrebbero toccato nel profondo: perché vengono toccati (e sconfessati) tutti gli strumenti di lavoro principali.

Si tratta solo di alcune delle riflessioni contenute in [mini]marketing – 91 discutibili tesi per un marketing diverso di Gianluca Diegoli, l’e-book che da qualche giorno sta ampiamente facendo discutere la Rete italiana. E, si badi, non solo di quella parte formata da professionisti che abitualmente si occupano di marketing: anzi, soprattutto di chi non lo fa.

Chi è a digiuno di questa disciplina e delle sue sorelle, infatti, trova le tesi di Gianluca “semplicemente” lineari, spontanee, quasi “ovvie”. Al contrario, chi conosce teoria e soprattutto prassi di questo ambiente, ne coglie la forza rivoluzionaria e, purtroppo, la difficoltà di accoglierle nella propria vita professionale.

Per quanto ciò sia contrario ad ogni principio di buon senso, il mondo del marketing è negli anni diventato tradizionalista, poco aperto e difficilmente innovativo. Viene da pensare che la necessità di affermare una propria scientificità abbia fatto irrigidire i professionisti su posizioni sufficientemente “sperimentate” per essere credibili.

Ora, con la contrazione dei mercati, la tentazione sarà quella di continuare a riciclare all’infinito le 3 idee che hanno mediamente funzionato negli anni passati. Al contrario, forse, dovremmo avere il coraggio di ascoltare Mr. Diegoli ed azzardare qualche cambiamento importante. Coraggio e capacità di ascoltare. Argh.