Ossessionati dal retargeting

Un giorno dovremo cospargerci il capo di cenere e riconoscere che con l’invasione del retargeting a 360° in giro per il Web il digital marketing ha fatto il salto dello squalo. Nel frattempo certo godiamoci i numeri che da più parti sembrano essere positivi: evidentemente i clienti sono pure contenti di essere ossessionati.

L’idea di fondo non è certo sbagliata: tutti noi disseminiamo carrelli mezzi pieni sulle piattaforme di e-commerce e avere un metodo per ricordarcene (e magari come spesso accade un piccolo incentivo per farlo) potrebbe essere quasi comodo, soprattutto se siamo già loggati e abbiamo dato consensi sensati.

Certo, avere la sfortuna di aprire un link su un social network su un item di Amazon e poi trovarsi quell’item in qualsiasi banner dell’universo non è esattamente piacevole. Eppure al gigante statunitense non dovrebbe mancare la tecnologia per capire che un articolo visto di sfuggita può essere davvero poco interessante.

Qualcuno l’ha interpretata in maniera ancora più aggressiva: basta cercare un volo su Alitalia.it da NON loggati e ricevere sull’e-mail associata al proprio profilo Alitalia un invito a riprendere la ricerca; per la cronaca, i link sono generici al sito, quindi in ogni caso la ricerca va reimpostata, senza garanzia di continuità sui prezzi.

Sono tentativi legittimi, ci mancherebbe, per incentivare un commercio elettronico in costante ascesa, ma che sembra sempre sotto il potenziale che non è difficile riconoscergli. Basta che poi gli editori non si lamentino del successo universale degli ad-blocker, quasi indispensabili per non impazzire con diagnosi ossessiva.

Fiat negli USA

Mentre si affastellano notizie sul titolo FCA e sull’eventuale quotazione di Ferrari in Borsa, le attività delle innumerevoli case automobilistiche (o forse bisognerebbe dire dei marchi, vista la virtualizzazione del concetto originale) appartenenti alla galassia Fiat-Chrysler continuano con alti e bassi, in un mercato ormai probabilmente in decrescita strutturale e non sufficientemente ancora sostenuto dalle alimentazioni alternative al petrolio.

Per il mondo ex-Chrysler l’avvicinamento a Fiat è stato un toccasana per ripartire dopo il semi-fallimento e penetrare più profondamente in Europa; per Fiat e le sue sorelle di matrice italiana per ora la strada ritsulta molto più in salita. Lo sbarco negli Stati Uniti è sembrato sino ad ora più un’iniziativa di natura finanziaria che l’effettivo ritorno in massa su un mercato più volte testato e abbandonato; ma non si può dire che non ci stiano provando.

In autunno il mercato d’oltreoceano era rimasto decisamente colpito dallo spot di una 500 che “prende” una pillola di Viagra e diventa un mini-SUV; lo spot si è visto girare parecchio in Rete e poi è approdato anche in Europa. Prima era stato il momento delle Gif animate: dopo aver lanciato un tumblelog mantenuto ben aggiornato ancora oggi, Fiat USA aveva realizzato anche degli spot assemblando Gif prodotte low cost ma molto d’effetto.

Una bella dose di innovazione rispetto alle tracce di comunicazione pubblicitaria degli scorsi anni: qualcuno ricorderà il pomposo lancio della Grande Punto una decina di anni fa, Richard Gere santone per Lancia, o il tremendo spot con Oh Marie remixata. Oggi finalmente siamo di fronte a una multinazionale che comunica in maniera professionale su tutti i canali, con accento internazionale. Chissà come andranno le vendite, almeno negli Stati Uniti.

Commercianti low cost made in Italy

In questo strampalato mese di agosto nelle metropolitane milanesi sono apparse le affissioni del circuito di parrucchieri L’Italiano. Bruttine ma efficaci: alla promessa di spendere 10 Euro per un taglio di capelli molti uomini saranno andati a curiosare sul sito. L’avrebbero forse fatto anche se la pubblicità fosse stata fatta da stranieri: tuttavia, in quel caso forse il prezzo sarebbe stato meno sorprendente.

Qui la promessa dell’italianità dei coiffeur è una sorta di garanzia sulla qualità del servizio e dei prodotti usati. Il nemico dichiarato è infatti la marea di parrucchieri cinesi che negli ultimi anni ha attratto molti utenti “mass market”, suscitando la classica reazione dei corrispondenti italiani con accuse di prodotti pericolosi per la salute (tinture in primis) e scarsa professionalità degli addetti.

Nel momento in cui gli immigrati iniziano ad andare via dall’Italia per la crisi fin troppo esasperata, questo non è l’unico settore in cui nelle città si gioca questa eterna sfida tra autoctoni e stranieri, con i secondi che si accontentano solitamente di meno soldi, ma magari emettono ricevuta e sono persino (…) dotati di Pos, come dovrebbero fare (senza storcere il naso) i loro concorrenti autoctoni.

Mentre alcuni Italiani in ambito B2B cercano nuove forme per “vendere ai cinesi“, sul B2C non è difficile immaginare che iniziative di matrice “nazionalistica” come quelle dei parrucchieri italiani inizieranno a fiorire: sono gare sul low cost, ma si giocano soprattutto sul fronte della differenziazione reale, non solo percepita. C’è poco da fare gli schizzinosi, è la legge della domanda e dell’offerta.

Branded entertainment e native advertising

A proposito di “televendite glamour” qualche mese fa, si scriveva

gli show prodotti non lasciano spazio a misunderstanding sulla vera natura della comunicazione televisiva, al contrario del tanto branded entertainment che si legge sui palinsesti. Ma su questo si tornerà un’altra volta, perché merita

e questo momento è arrivato, visto che nel frattempo sugli schermi italiani son passati programmi terribili, descritti dalla critica come segue

Scanditela in coro, questa amabile verità: aprite bene i polmoni, avvicinate il miglior megafono, e certificate che “Hotel cercasi” (ogni giovedì alle 22.30) è solo e soltanto una telepromozione degli hotel Best Western. Aggiungendo, già che ci siete, che tutto il resto è noia califfiana, suppellettile, orpello (in)giustificativo della più somma marchettitudine.

Non che sia stato l’unico caso imbarazzante passato in Italia; reti come La5, DeejayTV e la stessa RealTime, che pure in passato ha prodotto contenuti interessanti, ormai riconducono tutte le nuove produzioni a iniziative promozionali. E se alcune un po’ si salvano grazie alla forza dei protagonisti (cfr. il Jack on Tour sostenuto da un manipolo di rocker opportunamente alcolizzati), altri come Bye Bye Cinderella fanno passare la voglia di masticare una Daygum per tutta la vita.

Ma la sensazione di fastidio per i contenuti editoriali prodotti a quattro mani tra editori e investitori esplode nella parola scritta, ove i casi di native advertising lasciano qualche dubbio a chi purtroppo pur riconoscendo la drammatica crisi dell’economia, difficilmente vede gli advertorials come via di uscita:

If brands are so confident about the quality of their “content,” why don’t they proudly slap their name on it instead of camouflaging it to look like third-party mediated editorial?

C’è chi ostenta la qualità dei propri prodotti ibridi e chi se ne vergogna, così l’articolo di Michael Sebastian su AdAge sul tema fa sorridere accostando i baldanzosi siti di moda che svendono le proprie editor e Conde Nast che rifiuta sdegnatamente il modello produttivo e poi si lancia in “casuali” iniziative di presentazione dei propri contenuti nello stile degli investitori pubblicitari. In questo forse le TV commerciali sono più chiare, visto che è più evidente che la sopravvivenza deriva dalla pubblicità.

Se il filo conduttore di branded entertainment e native advertising è il tentativo di manipolare l’utente finale, non è difficile immaginare che il crescente profilo smaliziato di spettatori e lettori garantirà una condanna sicura a chi cercherà di prenderlo in giro. Come diceva Luca Sofri parlando del passaggio da pubbliredazionali a native advertising, è un peccato che Internet non abbia creato innovazione nei formati pubblicitari, pur se come la TV commerciale campa solo di investimenti pubblicitari.

Carosello re-re-re-reloaded

L’ormai cinquantennale nostalgia collettiva per Carosello non viene coltivata solo nelle edicole con le iniziative dei maggiori quotidiani (qualche anno fa La Repubblica, nel 2013 Corriere della Sera e Gazzetta dello Sport); ogni tanto Rai e Sipra (ops, Rai Pubblicità) ripropongono su Rai1 un programma con lo stesso nome dell’originale.

Di solito i tentativi avevano visto tranvate in termini di ascolto; ma Carosello Reloaded sembra avere successo tra il pubblico: i numeri delle varie puntate sono stati piuttosto alti, anche se sorge il dubbio che siano derivati più che altro dai contenuti in cui sono stati framezzati, dall’access prime time all’immarcescibile saga di Montalbano.

I critici sono andati giù pesanti, a buona ragione: creatività modesta, qualche spot già visto in altri contesti riproposto o al massimo stiracchiato, senza storytelling orizzontale tra una puntata e l’altra. Giusto qualche timido accenno positivo all’ENI, che ha provato a presentare delle storielle animate, pur non particolarmente animate.

Tra gli investitori pubblicitari già si parla di un possibile ritorno in autunno, anche se sono veramente pochi i player disposti a investire su questo formato, che alla fine è uno spottone allungato, al massimo riproposto anche al cinema. La tanto acclamata interazione col second screen non si è vista affatto, c’è ancora tanto lavoro da fare.

Illimitatamente Elio e le storie tese

Sorvoliamo sul fatto che quaggiù si fosse parlato di un collegamento tra politica e Sanremo già negli scorsi anni, in occasione della rivolta degli orchestrali o della stralunata edizione dello scorso anno; il risultato delle elezioni politiche di quest’anno ha non solo confermato la solita tendenza populistica degli italiani, ma anche il solito amore per il male minore.

Come è avvenuto praticamente sempre negli ultimi anni, anche quest’anno sul podio sono arrivati personaggi imbarazzanti (stavolta era il turno dei Modà) e ancora una volta abbiamo tirato un sospiro di sollievo per la vittoria di un meno peggio (Mengoni). La novità rispetto agli altri anni era la presenza tra i finalisti di Elio e le Storie tese, ancora condannati all’argento.

Non che le loro canzoni sanremesi fossero un capolavoro: alcuni tra noi fans siamo rimasti un po’ perplessi sebbene non sia mancato il prevedibile apprezzamento degli orchestrali e di parte del pubblico. Qualcuno ha ironizzato sul fatto che percentualmente il risultato di Elio sia sembrato quello del Centrosinistra alle elezioni politiche ed effettivamente il target è simile.

Il loro vero successo sul grande pubblico è stato il jingle dello spot Vodafone. Il pinguino Pino spopola tra ragazzini e adulti grazie alle sue strofe surreali e agli arrangiamenti efficaci. È un corto circuito mediatico/culturale lontano anni luce dalla vittoria di Vecchioni o da L’Italia dei cachi: è il genio musicale prestato alla pubblicità e dimenticato sul palco di Sanremo.

La maledizione del jingle Wind

Della schizofrenia della comunicazione pubblicitaria del Gruppo Wind si è già scritto un paio di anni fa e le cose sono tutt’altro che migliorate: è cambiato l’azionista di riferimento, ma accanto ai filoni Fiorello & soci vs. Panariello e Incontrada vs. comunicazione istituzionale-emozionale, si è progressivamente affermato quello di Aldo, Giovanni e Giacomo.

Gli spot del trio sono tutti un po’ uguali: una scena slapstick con effetti speciali e una canzone di sottofondo, trasmessa sulle principali reti televisive; poi tante versioni ridotte dello stesso spot, con la stessa canzone, ripetute all’infinito, ovunque. È così che le canzoni e gli spot diventano indissolubili, persino per coloro di noi che non guardano la TV. Arriva comunque.

L’effetto è devastante. Era successo l’anno scorso con Back It Up di Caro Emerald, canzone nata semi-clandestina, promossa a brano cool dai canali musicali specializzati, sbracata come colonna sonora dello spot di Aldo Giovanni e Giacomo (e pare anche delle danze delle veline a Striscia la notizia). Sta succedendo in queste settimane col nuovo singolo dei Planet Funk.

Probabilmente gli artisti sono contenti, è comunque un modo per ottenere visibilità. Succede anche con altre aziende: qualcuno dice che il vero successo di Lady Gaga in Italia è nato con gli spot Tim, i più curiosi hanno imparato a conoscere The Asteroid Galaxy Tour con lo spot dell’Heineken lo scorso anno così come scovavano gruppi rock nei ’90 con Levi’s.

Eppure l’effetto degli spot Wind è diverso da tutti gli altri. Non si capisce perché, ma ogni canzone che transita sotto le scenette di Aldo, Giovanni e Giacomo diventa antipatica per molti, clienti e non. Sarà per come vengono tagliati i brani, sarà per l’associazione con il contenuto delle scene, sarà per le ripetizioni infinite. Artisti scappate se Wind vuole “utilizzarvi”.

Disease marketing? Sempre più pervasivo

Sono passati ormai un po’ di anni da Big Bucks Big Pharma, il documentario che aveva cercato di sensibilizzare tutto il mondo, Stati Uniti in primis, su quanto stessero diventando pervasive le campagne di comunicazione delle grandi aziende farmaceutiche. Negli stessi mesi era uscito Sicko di Michael Moore, maggiormente incentrato sul sistema sanitario statunitense.

Entrambi i film dipingevano una realtà parecchio stonata per noi europei; da un lato, pubblicità di psicofarmaci trasmessi a spron battuto in televisione; dall’altro, una sanità completamente in mano ad assicurazioni e case farmaceutiche, lontana dallo stato sociale tipico dei nostri Paesi. A poco più di un lustro di distanza, oggi però alcuni dei messaggi presentati non suonano più così alieni.

In particolare, negli ultimi anni è cresciuta in maniera evidente anche in Europa la visibilità delle campagne pubblicitarie delle case farmaceutiche. Non è più solo questione di block notes sponsorizzati col nome di medicine o di qualche spot di sciroppo OTC: la crisi ha ucciso i budget pubblicitari dei grandi spender storici, così di farmaci, malattie e disagi vari si sente parlare sempre di più, ovunque.

Anche sul below the line, infatti, spadroneggiano le campagne di sensibilizzazione verso malattie diffusissime o al contrario rarissime: campagne istituzionali, ma soprattutto tanti messaggi legati al fundraising, 5 per mille in primis. In alcuni casi i messaggi fanno leva sulla paura di chi li riceve (“Potrebbe succedere anche a te”), in altri su malattie misteriose (“aiuta il bimbo africano a non morire di XYZ”).

Quotidianamente ci sono personaggi con un camice bianco che con ragionamenti simil-medici supportano le campagne di marketing di prodotti e servizi. In ogni supermercato compaiono decine di prodotti che dichiarano di supportare a campagne di lotta contro malattie note oppure fanno leva sulle proprietà benefiche contro disagi diffusi (magari “in abbinamento con una regolare attività fisica”).

È uno stile di comunicazione sempre più mainstream, è un modo di comunicare per cui persino gli yogurt assumono proprietà mediche o per cui la possibilità di trovare soluzioni alle malattie più gravi dipende esclusivamente dal nostro contributo volontario. Messaggi tutti mixati tra loro, che puntano tutti sul senso di maggiore attenzione rispetto alla salute, ma offrono poche soluzioni davvero efficaci.

Biscotti avvelenati

I markettari hanno discusso per mesi su quanto risulti “stupida” la Cookie directive, che i Paesi devono recepire entro maggio. La posizione più critica è quella di chi vede i cookies come una technicality necessaria per il funzionamento dei siti moderni, sostenendo che sì, magari i grandi operatori Internet hanno un po’ esagerato, ma ormai i contenuti personalizzati sono IL Web.

Come spesso accade, l’Unione Europea ha annunciato una normativa corretta nelle sue linee guida, ma non necessariamente calata nella realtà quotidiana di consumatori e imprese. I confini tra attività lecita e non sono spesso labili: anche ipotizzando di bloccare i servizi (spesso amati dagli utenti) dei grandi operatori, si segano le gambe a forme di comunicazione tra aziende e propri clienti.

Già oggi in molti Stati europei è difficile disegnare piattaforme “riservate”: fin quando si è siti pubblici c’è un po’ di flessibilità e ci sarà anche una volta cancellati i cookie di terzi; quando però si cerca di inserire un messaggio promozionale post-login bisogna fare i conti con i consensi privacy negati magari a cuor leggero dai Clienti. L’assenza di cookie darebbe il colpo mortale a questi servizi.

L’alternativa c’è, ovviamente. Già oggi diversi siti europei includono disclaimer scritti nel solito legalese che in qualche modo servono a chiedere il permesso all’utente (memorizzandolo su cookie?) per memorizzare cookies sul suo PC. Ora sembra che finirà come una tempesta nel bicchiere, con gli operatori del settore sempre più convinti che l’Europa non sappia rapportarsi con l’industria del Web se non bacchettandola.

Un Natale triste triste

Il fatto che l’entusiasmo diffuso (…) per questo Natale faccia tornare alla mente i commenti di fine 2008 è un pessimo segno: a primo acchito vuol dire che abbiamo perso 3 anni di sviluppo non solo economico; nella realtà, molti di noi sanno che se in quell’occasione un ultimo trimestre nero aveva fatto da porta di ingresso a un 2009 drammatico, stavolta già il 2011 è stato abbastanza disastroso e nessuno osa davvero fare previsioni per il 2012.

A quei tempi si parlava del cinepanettone di De Sica & C. come spauracchio della crisi “degli altri”, di un atteggiamento di ironia verso la crisi finanziaria di origine statunitense ma con impatti che appunto si sarebbero fatti vedere in Europa qualche mese dopo; ora persino i più stoici amanti del genere hanno dichiarato l’edizione 2012 come estremamente noioso. Molti concorderanno sul “c’è poco da ridere”, ma chi è andato al cinema voleva “staccare”.

Scorrendo gli archivi di quelle settimane di festività “grigie” su .commEurope, si trova anche un amaro augurio di inizio 2009 verso il mondo della pubblicità. Fin troppo profetico: anche se parte del mondo business si è ripreso almeno nel 2010, le agenzie di comunicazione hanno iniziato a dimagrire nel 2009 e di fatto ora sono in piena fase di crisi. Il sempre ottimo Bad Avenue pubblica vademecum per licenziati e sempre più specialist rimangono a casa.

Alcuni di noi vorrebbero cancellare questi mesi, che hanno in molti casi azzerato patrimoni e/o redditi; altri vorrebbero chiudere gli occhi e risvegliarsi a Natale 2012, sperando di festeggiare i germogli di quella che al momento sembra essere un’improbabile ripresa o quantomeno un nuovo-2010-alias-anno-appena-decente. In Francese si dice “Joyeux Noël”; di gioia però, in Europa al momento se ne vede davvero poca. Siamo invasi dalla tristezza.