Saluti da Praga

Lo spirito è quello del post di qualche anno fa che portava ai lettori di .commEurope una “cartolina” da Nizza. Visto che in questi mesi si prevedono diversi giri per il mondo, l’idea è di riprendere l’abitudine di appuntare qui sul blog le osservazioni sul marketing “europeo” visto di volta in volta nei quartieri delle città visitate. Si inizia con Praga, una vera e propria bomboniera per turisti, anche squattrinati. Rispetto alle altre capitali europee si fa fatica a scovare i luoghi ingombranti della democrazia; piuttosto tutto è votato ad attirare l’attenzione di chi passa periodi più o meno brevi in città. Praga è amata dai ragazzini in cerca di alcool come dai vecchietti a caccia di foto dei tanti monumenti.

Le strade della città sono un groviglio di marchi internazionali: non sono solo i fast food e i fast fashion ad aver trovato terreno fertile; la cosa interessante è che si scontrano tutte le catene dell’Europa continentale ma anche i grandi nomi Britannici e Statunitensi. Quindi Paul si mischia con Hooters, mentre le catene locali sono piuttosto sparute e poco coese. Probabilmente qualche anno fa i Marketers di tutto il mondo hanno capito che l’Est Europa era un terreno promettente e così si sono tutti riversati in massa; l’effetto è un overflow di offerta che probabilmente tranquillizza i turisti, ma non sempre riesce ad attrarre i locali. Qualcuno nota che gli stipendi cechi non sono ancora ai livelli occidentali.

Merito o colpa anche del mancato ingresso nell’Euro, che doveva avvenire lo scorso anno e invece pare rimandato a lungo termine contrariamente a quanto già avvenuto nell’amica-nemica Slovacchia. Il rapporto di cambio è relativamente favorevole per i turisti (anche se noi Italiani ci distinguiamo per aver perso la capacità di gestire monete diverse dall’Euro) ma un giro al supermercato fa sorgere qualche legittimo dubbio sulla redditività di chi vuole portare il proprio business in quelle zone. Sugli scaffali si trovano le classiche multinazionali formato-famiglia italiane (Barilla, Ferrero, Saclà, CIS), ma è difficile capirne il posizionamento, sempre in bilico tra premium e tentativo di allargamento del target.

Supermercati per ciechi

I nostri occhi fissi sullo smartphone durante la fila alla cassa del supermercato escludono ormai qualsiasi interesse per la merce ammucchiata nelle vicinanze: in Europa a soffrire sono probabilmente Perfetti o Ferrero, ma negli Stati Uniti sono intere industrie a rischiare.

L’editoria, in particolare, ha perso il vantaggio dell’acquisto di impulso anti-noia: a voglia a fare copertine vistose, i magazine non tirano più nemmeno in quei momenti di infinito tedio. La competizione con la marea di info multimediali (gratuite) sugli schermi è una sconfitta impietosa.

Qualche Specialist ha provato a ipotizzare nuovi scenari per sfruttare quei momenti topici a un passo dalla mano al portafogli, ma probabilmente l’unico mezzo che ancora possa colpirci è la sorpresa e la sorpresa è difficile tirarla fuori, specie quando servirebbe una converision lampo.

Servirebbero davvero queste tanto discusse analisi dei big data, potrebbero magari essere utili coupon un po’ più sensati di quelli che ancora oggi le casse sputano DOPO aver pagato, sperando che uno si ricordi di portarli appresso alla visita successiva. Ma siamo ciechi. E smemorati.

Frullato di grande distribuzione

Questa crisi sta durando talmente tanto che si potrebbero tranquillamente riciclare sui blog dei post di fine 2008 o metà 2011 riuscendo a piangersela tranquillamente per la perdurante sensazione di stallo di consumi e marketing. Una ricerca di AstraRicerche però è riuscita a toccare ulteriormente le corde del pessimismo:

«per il 70% degli intervistati “le cose vanno male o malissimo”. Un dato così vasto di pessimismo non è mai stato registrato dalla seconda guerra mondiale in su. Si pensi che nel 2010, ovvero a due anni dagli eventi della Lehman Brother e quindi dal sorgere della crisi economica mondiale, alla medesima domanda rispondevano in tal senso”solo” il 48% degli intervistati. Lo stato di pessimismo sulla vita del consumatore non si limita ad una previsione per il prossimo anno, bensì è un pessimismo che si proietta nella vita dei prossimi tre anni (addirittura chi ha risposto anche dieci anni) degli intervistati.»

In un simile contesto, ovviamente, in campo alimentare vanno fortissimo le private label, quantomeno quelle “moderne”, che trovano un equilibrio tra qualità e prezzi limitati. Ma è soprattutto negli altri settori che si vede il cambiamento maggiore. Basti guardare chi sono i vincitori di Retailer of the Year 2012:

  • Retailer of the Year Ikea
  • Arredamento Ikea
  • Articoli per la casa Mondo Convenienza
  • Articoli sportivi Decathlon
  • Borse e accessori Carpisa
  • Calzature Pittarello
  • CD, Dvd e videogiochi Media World
  • Elettronica Media World
  • Erboristeria Bottega Verde
  • Fai da te Leroy Merlin
  • Giocattoli Toys Center
  • Gioielli e bigiotteria Stroili Oro
  • Informatica Media World
  • Intimo e lingerie Tezenis
  • Libri e riviste la Feltrinelli
  • Moda bimbo e prima infanzia Ovs
  • Moda Donna H&M
  • Moda Uomo Conbipel
  • Ottica Salmoiraghi & Viganò
  • Profumeria Yves Rocher
  • Prodotti per animali Pet’s Planet
  • Ristorazione veloce McDonald’s
  • Supermercati Esselunga
  • Telefonia Media World.

La stragrande maggioranza delle insegne citate puntano sul pricing come leva distintiva: Media World in diverse categorie, Ovs o Tezenis nell’abbigliamento, Pittarello tra le calzature, per non parlare di McDonald’s o Carpisa. Forse solo la Feltrinelli o Yves Rocher, tra le catene citate, provano un mix diverso.

Se la succitata previsione di crisi perdurante si avvererà, sempre più il panorama della grande distribuzione si auto-frullerà in qualcosa di sempre meno riconoscibile, in cui catene insignificanti vendono prodotto insignificanti a prezzi livellati, a detrimento dei dipendenti e con minimi vantaggi per i clienti. Se non il prezzo.

Carrefour tenta il rilancio del marchio

Per molti di noi, per anni, il marchio Carrefour è stato il simbolo della spesa conveniente. Altro che i discount: gli ipermercati Carrefour erano la destinazione da sogno di chi voleva risparmiare sulla spesa pur acquistando prodotti di qualità. Essendo peraltro ipermercati di solito abbastanza ampi, il concetto di “spesa” andava ben oltre alimentari e detersivi.

La crescita in Italia era stata portentosa, con diverse acquisizioni: Carrefour era diventato un marchio “vicino” anche in luoghi remoti, lontani dai capoluoghi. In maniera meno evidente al pubblico esisteva in realtà anche un percorso di sviluppo basato sul progressivo assimilamento di GS e Dìperdì, marchi storici italiani della distribuzione di prossimità.

Poi si è rotto qualcosa. Qualche scivolone di PR come la storiaccia del bambino disabile maltrattato o l’infausta campagna Risparmiaaaaaa su Twitter, ma soprattutto la declinazione italiana della strategia internazionale del marchio unico: tutti i punti vendita di qualsiasi dimensione hanno assunto il marchio Carrefour, con sottili differenziazioni sui punti più piccoli.

L’effetto sulla comunicazione quotidiana è stato devastante. Nelle case degli italiani sono arrivati contemporaneamente volantini con prodotti simili e prezzi diversi ma entrambi col logone Carrefour sopra; le campagne televisive sui prezzi civetta degli ipermercati hanno perso senso e non è difficile immaginare sciure arrabbiate contro i commessi degli ex-Dìperdì.

Ora sembra che Georges Passat abbia preso la decisione di buon senso di abbandonare la strategia del marchio unico, travolto dal fatto che i consumatori abbiano ormai perso fiducia nell’assioma Carrefour = convenienza che ne ha guidato lo sviluppo internazionale. Nel frattempo proseguono le dismissioni e le chiusure di alcuni punti, anche di grandi dimensioni.

Carrefour nei prossimi anni sarà dunque un’azienda diversa, sia a livello mondiale che italiano. Sarà un bel caso di studio capire come potrà uscire dal terribile empasse commerciale cui è stata costretta proprio negli anni in cui avrebbe potuto puntare decisa alla leadership mondiale della GDO. Ora l’obiettivo è tenersi stretto il secondo posto, Wal-Mart è lontana.

La comunicazione di Eataly in tempi di crisi

La telenovela più lunga degli ultimi anni in ambito Retail è quella di Eataly Roma al Terminal Ostiense: uno spazio enorme per accogliere il consueto “mercato” di cibi di alta qualità, accompagnato stavolta da una quindicina tra ristoranti, birrificio, gelateria, friggitoria etcetera. Un notevole sforzo economico per la compagnia di maggior successo degli ultimi anni, una bella occasione di lavoro per molti romani.

Eataly non fa certo beneficenza, visti i margini importanti applicati su prodotti di tipo e qualità eterogenei, ma tendenzialmente più elevati rispetto agli standard della grande distribuzione. Eataly sicuramente fa cultura: ogni punto vendita ospita periodicamente eventi che vanno al di là del semplice corso di cucina for dummies. Eataly fa anche comunicazione a modo suo, nello stile “originale” di Oscar Farinetti.

Si consideri ad esempio il testo del manifesto intitolato «Almeno mangiamo e beviamo bene» presente attualmente nei suoi punti vendita

«In questo periodo di crisi conviene tenere alto il morale e reagire. Ormai il cibo rappresenta meno del 25% della spesa. Conviene risparmiare sul rimanente 75%. Inoltre il cibo ha subito meno rincari di altri prodotti in questi ultimi anni. Quello di alta qualità costa poco di più. Se decidi poi di mangiare e bere meno (che ti fa solo bene) spendi addirittura meno. Quindi vieni da Eataly, mangi e fai la spesa. Impari pure qualcosa e stai in buona compagnia.»

oppure un altro testo tratto da un altro manifesto visto più volte nei pressi degli ingressi Eataly

«Esiste un modo di magiare e bere di meno. I cibi di alta qualità di assaporano di più, si masticano più lentamente per trattenere i sapori. La sensazione di sazietà arriva prima e alla fine si mangia di meno. Lo stesso vale per il vino, la birra e le bibite di qualità. Conviene nutrirsi di alimenti buoni e conoscere ciò che mangi. Conviene venire da Eataly. Alla fine si risparmia, si gode e si è più in forma. Stupido non farlo… vero?»

il cui stile di comunicazione è inequivocabilmente quello del fondatore o quantomeno del suo staff, che sembra averlo introiettato fino in fondo fino a proporlo in ogni iniziativa di Farinetti come ad esempio il manifesto 7 mosse x l’Italia: sferzante, diretto, ottimistico. Forse la differenza tra manifesti come quelli citati sopra e altri sparsi negli anni nei punti vendita è proprio sui contenuti, particolarmente provocatori.

È decisamente forte, in tempi di crisi profonda, sostenere che da Eataly «si risparmia», che il cibo «di alta qualità costa poco di più». Eataly è sicuramente il tempio della spesa dei gourmet, ma difficilmente può essere spinto come supermercato di prossimità in cui fare la spesa quotidiana. Sicuramente l’alta qualità merita un’adeguata retribuzione; però è un po’ un peccato che rimanga terreno di una nicchia di fortunati.

Tutti odiano i buoni pasto?

Basta accennare agli amici il tema dei buoni pasto per incontrare visi contrariati e ascoltare storie inverosimili di tentativi di spenderli, corse contro il tempo rispetto alla scadenza, viaggi di decine di chilometri per raggiungere supermercati che (raramente) li accettano. Il sospetto è che anche chiedendo agli esercenti non si riscontri un maggior entusiasmo: tempo perso, margini distrutti, rapporti coi clienti deteriorati. Non che le cose vadano meglio nelle aziende: è vero che grazie agli sconti sempre maggiori (la concorrenza non perdona) si risparmia qualche centesimo su ogni tagliandino, ma nelle grandi aziende non è da sottovalutare il costo di determinare ogni mese il numero di buoni, organizzarne la distribuzione e ascoltare le lamentele dei dipendenti sul valore solitamente limitato dal massimo di non tassazione, pari a poco più di 5 Euro.

Il processo, peraltro, non è virtualizzabile e questo crea ulteriori problemi nel momento in cui, in modo lungimirante, la maggior parte delle aziende sceglie di migrare al cedolino elettronico; i buoni pasto rimangono stoicamente cartacei sia per le aziende che per gli esercenti, a loro volta vittime della burocrazia e dei tempi di rimborso (volutamente?) lunghi da parte dei circuiti; spesso la soluzione è chiedere anticipi alle banche. A dire il vero negli anni qualche tentativo di innovazione si è visto sul mercato, ma come spesso avviene in ambito pagamenti, nessuno vuole assumersi i costi di cambiare il modello complessivo. Al contrario, la continua corsa al ribasso da parte delle amministrazioni pubbliche ha solo l’effetto di esacerbare gli animi degli esercenti e degli stessi circuiti di buoni pasto, che si sono riuniti in un’associazione di rappresentanza unitaria.

I dati di questa organizzazione, l’ANSEB, sono molto interessanti. Si scopre che circa due terzi (oltre 13 milioni) dei lavoratori pranzano regolarmente a casa, che il fenomeno dei buoni pasto riguarda poco più di due milioni di utenti. Numeri che fanno riflettere chi è in mezzo all’angoscia quotidiana del buono pasto: fa parte di una minoranza per la quale difficilmente le forze parlamentari avranno voglia di cambiare regole. È un’occasione persa: i buoni potrebbero rappresentare un mezzo alternativo di pagamento rispetto ai fastidiosi contanti, potrebbero essere utilizzati anche in contesti di commercio elettronico via Web o Mobile. Ma il mercato italiano è così ingessato che il meccanismo non decolla: persino la piattaforma del leader di mercato, Compliments Store, non rappresenta una case history significativa, nonostante sia tecnicamente affidabile.

All’estero la commissione sui buoni pasto è nell’ordine del 3%, in linea di massima paragonabile con le fee che i circuiti di credito riservano ai piccoli esercenti. In Italia si parla sempre di double digit e questo rende obiettivamente impossibile non solo l’estensione dei circuiti a un numero significativo di esercenti food-related, ma ancor di più l’avvio di circuiti alternativi in settori a bassa marginalità (leggi: elettronica e similari). Ci lamentiamo che l’economia “non gira”, che i consumi si riducono invece di esplodere cercando di intercettare i piccoli segni di ripresa che si vedono all’estero; è un peccato, perché il gioco senza vincitori dei buoni pasto è una proxy dei problemi che esercenti fisici e digitali incontrano quotidianamente con tutto ciò che non è contante. E senza moneta elettronica e circuiti di pagamento ben rodati, addio speranze di sviluppo.

C’è private label e private label

Ripensando ad appena una quindicina di anni fa, molti di noi ricorderebbero una distanza enorme nei confronti delle private label. I prodotti stavano lì con i loro marchi fantasiosi e i loro package simili ai prodotti leader di ogni categoria, con prezzi stracciati e tanta voglia di richiamare nei supermercati i consumatori che negli anni precedenti erano scappati verso i discount.

Negli anni tutti avremo provato uno, dieci, cinquanta prodotti “private”. Magari perché mancava la marca di fiducia, magari per le promozioni, magari (ed è qui la vera novità) perché su quella referenza era esattamente la migliore disponibile sul mercato. Un cambio culturale significativo, spesso derivato dalla qualità dei produttori “celati” dietro le marche dei retailer.

La grande svolta sul mercato italiano è probabilmente stata merito di Coop, che nell’ultimo decennio ha superato la logica della private label low cost a tutti i costi proponendo linee di qualità, con particolare attenzione a prodotti ecologici, biologici, specializzati per l’infanzia. Difficile dimenticare le discussioni infinite in Rete sul nuovo packaging, decisamente elegante.

Oggi ad esempio a Conad o Carrefour: la pasta Rummo travestita da pasta della prima catena o la pasta Garofalo della seconda sono prodotti di buona qualità per uso quotidiano, più dei marchi standard. Alcune linee come Terre d’Italia o a Sapori e dintorni hanno posizionamenti di eccellenza, con pricing adeguati alla qualità, garantita da piccoli produttori sul territorio.

Nel nostro Paese iniziative come Marca a Bologna creano cultura e diffondono il business model. In Gran Bretagna ormai gli acquisti di questo tipo di prodotti cubano oltre il 40% delle spese, da noi siamo intorno al 15%: la maggior parte della nostra spesa probabilmente continua ad essere fatta di prodotti di marca, ma piano piano le private label cresceranno, molto.

Il Gruppo Coin e le sue mille identità

Grandi aspettative, per chi si occupa di marketing in ambito Retail, relativamente all’apertura dei nuovi punti vendita Upim, prevista per metà settembre. Sono passati pochi mesi dalla chiusura del deal che ha portato il Gruppo Coin a 900 punti vendita e si mormora che forse sia stato trovato un giusto equilibrio per la catena: un ritorno al passato di negozio multiforme, lontano dai tentativi di emporio-fashion-dei-poveri della precedente proprietà. C’è persino un concorso fotografico via Web che cercherà di far raccontare ai clienti stessi la “nuova” Upim.

Proprio il Web, d’altronde, è stata la vetrina Coin più chiacchierata nelle ultime settimane. Merito di un post di Max Trisolino che ha scoperto per caso la presenza di Coin su Foursquare e le relative offerte per i mayor, che si immagina siano i visitatori più assidui dei punti vendita della catena veneta. La presenza attiva in Rete era già stata notata da molti ed è sicuramente motivo di plauso per la catena, sebbene si spera venga superata presto lo scollamento con lo staff dei punti vendita, problema peraltro già notato più volte su .commEurope su altri contesti GDO.

Il Web infatti va avanti e macina tutto, ma commessi e cassiere (e punti vendita) della maggior parte delle catene Retail sembrano rimasti all’età della pietra. Certo non è facile, continuare a lavorare nelle catene italiane in eterna crisi di identità, soprattutto in quelle che si occupano di abbigliamento e dintorni, mentre i vari H&M e Zara crescono vertiginosamente in termini di presenza sul territorio, competitività e fascino esercitato sul pubblico. A volte sorge il dubbio che sarebbe il caso di cambiare del tutto nome e immagine ad alcune catene italiane.

Deve essere quello che ha pensato proprio il Gruppo Coin quando ha lanciato la campagna che segna un nuovo step verso il marchio OVS Industry da parte dei vecchi Oviesse. Una campagna con nomi importanti (Vaporidis, Elkann, Caracciolo Falck), curata da una star del Web, Scott Schuman di The Sartorialist, che però fa fatica a convincere i prospect di un significativo cambio di marcia, in termini di qualità e stile, di una catena che per rinnovarsi ha scelto di inserire nel proprio nome una sigla ostica unita all’inquietante termine “Industry”.

Non è la prima volta che Coin cerca di riposizionare la catena: se ne era parlato già qualche anno fa su [mini]marketing e ancora prima c’era stato il tentativo di Enzo Baldoni e delle Balene di buttarla sull’ironia. Sono sfide interessanti da osservare, ma probabilmente richiederanno intere generazioni per avere successo. Confidiamo nei risultati, perché il Gruppo Coin è un orgoglio per l’Italia, soprattutto in un momento in cui la concorrenza non arriva da Marte ma dai Paesi europei, con collezioni forse simili, ma “vissute” come migliori un po’ da tutti.

Requiem per Blockbuster e i suoi fratelli

L’etichetta di “zombie” venne affibbiata a Blockbuster a inizio 2006 da Edward Jay Epstein; sebbene i debiti fossero ancora sotto controllo, la puzza di cadavere iniziava ad aleggiare, soprattutto negli Stati Uniti. Netflix erodeva già fette consistenti del mercato del noleggio DVD e WalMart era ormai il primo player nella vendita di film, ma il peso della catena si sentiva ancora sulle decisioni più importanti nell’industria cinematografica. Non a caso l’aver dismesso il formato HD DVD da parte di Blockbuster era stato uno degli eventi che aveva dato via libera al Blu-Ray.

In Europa le cose andavano un po’ meglio, ma i tempi in cui i videonoleggi erano le attività presentate come “più promettenti” sui cataloghi di franchising, seppur distanti pochissimi anni, erano anche “culturalmente” lontani. Blockbuster si dedicava nel frattempo alla compravendita di videogiochi usati come sorta di business anticiclico, ma senza abbattere in maniera sensibile il pricing del core business. Al contrario, Blockbuster negli ultimi anni ha sì lanciato qualche promozione sui film in stock, ma si è ben guardata dal togliere balzelli come la multa per le consegne in ritardo.

Quando nella primavera dello scorso anno Alberico Tremigliozzi ha parlato di Chapter 11 sul suo blog, ha avviato una discussione tra Clienti e Dipendenti dei punti vendita Blockbuster, quasi tutti concordi nel definire fuori mercato il modello economico dell’azienda e ancor più della filiale italiana. Nel frattempo negli ultimi mesi sono spariti decine di punti vendita da città grandi e piccole, a causa di un mercato quasi del tutto asfittico come quello italiano, in cui la già flebile richiesta di cinema “premium” è servita (per chi può permetterselo) da TV satellitari e digitali.

La vetrina delle offerte di un videonoleggio a Reggio Emilia

Oggi che il fallimento di Blockbuster è più di un’opzione, più che la prevedibile morte della catena piangiamo anche l’imminente dipartita delle videoteche indipendenti che, come dimostrano vetrine così, ormai sopravvivono solo con offerte super-stracciate per i cinefili. Persino i film hard o le cibarie, come si nota, sono in saldo: i videonoleggi sono ormai di attività economiche rare, addio alle piccole miniere utili a chi volesse rivedere film magari vecchi, o magari comprare e conservare un disco cui si era particolarmente affezionati, magari non esattamente una pellicola di cassetta.

I Blu-Ray non avranno lo stesso successo del DVD proprio perché stanno lentamente sparendo i punti vendita propensi a vendere contenuti su disco, musicali o cinematografici. Muore Blockbuster come qualche anno fa morivano i negozi di dischi, spariscono i reparti dalla GDO e rimangono disoccupati migliaia di dipendenti e piccoli imprenditori. È un trionfo dopo l’altro della “bassa definizione”, è uno iato che si ampia tra chi può permettersi di andare quando vuole al cinema e chi si accontenta di quello che passa la TV di sera in sera, senza più opzioni alternative sotto casa.

Grande distribuzione, grande evoluzione

I primi segni i consumatori li avevano colti ormai molti mesi fa: l’occasione era stata l’estensione dello storico programma Spesamica di GS a Dìperdì e Carrefour, cioè le altre insegne del gruppo francese in Italia. Nel 2010, la svolta più significativa: sparisce dalle nostre strade il marchio Dìperdì, che diventa Carrefour Express, ma soprattutto Supermercati GS, che si trasforma in Carrefour Market.

Nelle stesse settimane, il gruppo Rewe agisce in maniera simile sostituendo le insegne dei punti vendita Standa col marchio internazionale Billa. Oltre a GS, sparisce così un altro marchio storico della GDO italiana, quella Standa che già negli scorsi anni aveva perso per strada la parte tessile, trasformata in punti Oviesse da parte di Coin. La stessa Coin che negli scorsi giorni ha acquistato anche Upim.

L’altro grande gruppo francese non sta a guardare: Auchan sostiene l’avvio di Nectar in Italia e chiunque si occupi di loyalty management sa quanto questo annuncio possa essere sconvolgente: per la prima volta, nel nostro Paese, viene lanciata una coalition che, per vocazione e stile, mira a diventare ubiqua. I primi aderenti (Unieuro, API-IP e appunto SMA/Auchan) garantiscono già una buona copertura.

Mentre Conad chiude il proprio operatore telefonico virtuale, Coop annuncia l’estensione dei servizi di pagamento bollette alla cassa, primo antipasto del grande pranzo che trasformerà la GDO in protagonista importante del mondo finance: con qualche mese di ritardo, il Governo ha recepito la tanto temuta (dalle Banche) PSD, la direttiva europea che apre le porte a nuovi operatori finanziari.

Un mercato davvero effervescente, quello della grande distribuzione organizzata. Da un lato, ampie iniziative di taglio dei costi (cfr. l’omogeneizzazione delle insegne di cui sopra), dall’altro grandi investimenti su nuovi settori (TLC, finance) e nuovi strumenti (loyalty in primis). Il tempo delle aperture a tappeto è passato; ora la concorrenza si gioca sulla redditività dei tanti (troppi?) punti vendita.