Aspettando le future generazioni di Apple Watch

La recensione dell’Apple Watch su Wired.it è simpatica come spesso accade con gli articoli di Gianluca Neri, che sa alternare temi seri e scanzonati per poi mischiarli all’uopo. Restituisce l’idea di un prodotto che sarà l’ennesimo successo Apple, pur evidenziando qualche neo di gioventù. D’altronde se si confrontasse il primo iPhone e gli ultimi partoriti, si farebbe fatica a credere si tratti dello stesso prodotto.

Apple fa crescere davvero bene le sue creature, o almeno quelle in cui crede davvero. Se si scorresse il listone dei fallimenti di Apple, sarebbe facile accorgersi che le motivazioni sono quasi tutte riconducibili a due categorie: prodotti arrivati troppo presto sul mercato (Newton è senza dubbio il caso più noto) oppure tentativi di inseguire aree già presidiate, ma con i classici prezzi “premium” della casa della mela.

Presto l’Apple Watch verrà venduto nella quasi totalità dei paesi europei e già si parla di prenotazioni eccedenti la capacità di produzione; ma sarà questa prima edizione lo stesso shock culturale e tecnologico che erano stati iPod e iPhone rispetto ai terminali che li avevano preceduti? La situazione è forse più simile al lancio dell’iPad: si va a incidere su un mercato affollato pur “alleggerendo” il concept rispetto agli altri.

Ironia della sorte, il principale killer degli orologi da polso è stato proprio l’iPhone, che insieme ai miliardi di smartphone successivi distribuiti nel mondo ci ha fatto perdere l’abitudine di guardare l’ora alzando il braccio. Ora proprio Apple dovrà ridare forza a quel gesto, arricchendolo di nuove opportunità di utilizzo: in fin dei conti non si è sempre visto in tutti i film di fantascienza qualcuno parlare col proprio polso?

Microsoft sta cambiando davvero pelle

L’acquisizione più romantica (ma in realtà di buon valore per il controllo delle fondamenta del Web) era stata quella annunciata due anni fa: Microsoft aveva in sostanza acquisito Netscape, lo storico competitor nella prima guerra dei browser. L’acquisizione più prevedibile (e si direbbe di significativa rilevanza strategica) quella di Nokia, in qualche modo implicita nell’abbraccio delle due compagnie ormai molti anni fa.

In entrambi i casi, nulla di strettamente legato al core business storico dell’azienda, quello dello sviluppo software, che l’aveva trascinata negli anni in cicli di sviluppo sonnolenti e prodotti scarsamente innovativi, o “devastanti” per il suo nome come Windows Vista prima o Windows 8 poi. La “nuova” Microsoft tanto attesa è oggi all’apparenza clamorosamente alle spalle dei competitor per quanto riguarda il B2C Mobile.

La Microsoft meno nota, quella che si sta ritagliando un ruolo molto speciale nel mercato ICT, è quella B2B: oggi è probabilmente l’unico player integrato per rispondere alle esigenza delle aziende, molto di più della classica Oracle, chiusa nella torre di Babele delle tante acquisizioni accatastate, o dell’altalenante IBM, che ha annunciato una partnership con Apple per garantire la reciproca sopravvivenza in ambiente enterprise.

L’azienda di Seattle guidata dal nuovo management ha tutte le carte in regole per giocare come un player poliforme su tutti i mercati a valore aggiunto, molto lontana dall’azienda sostanzialmente mono-prodotto che era appena pochi anni fa. Rimane certo troppo elefantiaca: basti pensare alle propaggini consulenziali che in alcuni mercati europei hanno raggiunto dimensioni poco sostenibili per il business model.

Ben venga, per quando dolorosa, la cura dimagrante di Satya Nadella. Una Microsoft ben organizzata e concentrata su una visione chiara è un bene per tutti: consumatori finali, aziende, partner e territori. Ci saranno nuovi servizi, nuovi prodotti e nuove possibilità: una sorta di vendetta dell’informatica tradizionale sui nuovi player nati su Internet e che sembravano essere destinati a guidare l’umanità in modo esclusivo.

Emoji e sticker

La transazione indimenticabile dell’anno appena terminato è stata sicuramente l’acquisizione di Whatsapp da parte di Facebook. Un evento che ha fatto scalare l’ordine degli eventi di un bel 10x: prima ci meravigliavano le M&A da un paio di miliardi, ora siamo su un altro ordine di grandezza. E i player che possono metterle in atto sono pochi: Google, Facebook, Apple. Ma c’è un aspetto che, al di là dei numeroni, ha fatto parlare di più gli analisti: la sostanziale sovrapposizione tra Whatsapp e Facebook Messenger.

In Europa tendiamo a osannare il primo e sottovalutare il secondo; negli USA il contrario. Ma è l’Oriente il vero terreno in cui questo tipo di sistemi trova da sempre terreno fertile e, bisogna ammetterlo, forte concorrenza. Mentre nei telegiornali europei scorrevano le notizie sull’affare dell’anno, negli spot si alternavano marchi esotici come Line o Wechat, sempre rappresentati da testimonial famosi. Il mercato nei mesi si è auto-segmentato e l’effetto-rete ha favorito la piattaforma più adatta a ogni target.

Chi ha qualche anno in più in Rete si domanda oggi se MSN Messenger, ICQ, AIM e gli altri instant messenger della prima ora avrebbero potuto avere lo stesso successo se fossero stati più coccolati dalle rispettive proprietà, arrivando al Mobile prima di questi newcomers, che ne ereditano in parte la storia e in parte il pubblico, ma che sanno parlare in maniera segmentata ai manager come ai teenager, erodendo in maniera vistosa il volume di SMS scambiati a livello mondiale e mettendo in difficoltà i bilanci delle Telco.

Le principali protagoniste dei nuovi instant messenger, le emoji, sono diventate in pochi mesi un linguaggio universale, superando di slancio la diffusione storica delle emoticons, anche grazie al riconoscimento nell’ambito dello standard Unicode e all’inclusione di default nelle tastiere di iOs, Android e non solo. Il peso culturale di Whatsapp e delle sue applicazioni concorrenti è diventato travolgente ed è spesso rappresentato proprio dalle emoji, che spuntano sorridenti (e non) in film, videoclip, serie televisive.

Anche gli eredi dei kaoani, gli sticker che affollano la maggior parte delle conversazioni (ma non quelle di Whatsapp), stanno ottenendo successo in ambito marketing: sulle principali piattaforme è possibile di trovarne di sponsorizzati e su quelle orientali è possibile acquistarli come digital contents. Sono nuovi mercati cui è bene abituarsi girandoli a supporto delle nostre campagne, invece di venirne travolti: meglio risultare simpatici con qualche iconcina animata in più piuttosto che subire quelle negative.

Se Alitalia promuove BlackBerry

Appena pochi anni fa, l’accoppiata sarebbe stata naturale: BlackBerry era IL brand di smartphone dei Manager, gli stessi che volavano su e giù per l’Italia con la pur bistrattata ma insostituibile Alitalia. L’aereo atterrava e prima dell’apertura delle porte gli inconfondibili trilli delle e-mail accumulate suonavano all’unisono.

Poi da un lato è arrivato l’ennesimo tracollo di Alitalia, quello che ha portato alla privatizzazione sui generis dei capitani coraggiosi. Parallelamente, BlackBerry iniziava la lunga discesa agli inferi dovuta all’esplosione degli iPhone prima e al lento dominio progressivo di Android, soprattutto sul mass market.

Alitalia ha provato più volte il rilancio di marketing, anche con una profonda revisione della brand image, oggi molto più stilosa e non solo su Web. BlackBerry ha provato a rinnovare la sua immagine e la linea di prodotti, ma il tentativo è fallito miseramente. Oggi Alitalia vivacchia, BlackBerry sta scomparendo del tutto.

Quando negli scorsi giorni Alitalia ha contattato i suoi clienti promuovendo BlackBerry, i commenti impietosi dei clienti si sono sprecati, soprattutto in termini di analogie tra i disastri compiuti dal Management delle due compagnie, eternamente prossime al fallimento e mai veramente rilanciate o rilanciabili fino in fondo.

Si tratta di due vicende che, seppur diverse in termini di storia e di rapporti con la politica (e quindi di possibili esiti futuri), sono accomunate dall’essere state un tempo monopoliste e poi aver distrutto la propria credibilità sui mercati di riferimento. Peccato soprattutto per le decine di migliaia di dipendenti coinvolti.

Ma il flat design è usabile?

In tempi non sospetti ci si domandava se lo scheumorfismo di Apple non avesse preso una deriva eccessiva e se il design Metro (poi Modern) di Microsoft non fosse più “contemporaneo” rispetto a quello della concorrenza. Meno di un anno e mezzo dopo la risposta del mercato è chiara: da un lato iOs è il trionfo del flat design, dall’altro la nuova interfaccia Microsoft stenta a decollare, soprattutto sui PC tradizionali.

Fa sorridere che oggi gli Apple-maniacs esaltino strumenti già in uso da anni in ambiente Android (es. il pannello di setup rapido delle impostazioni), dall’altro un design che sembra ben più che “ispirato” a Windows. In generale è un bene per il mercato, visto che c’è un allineamento verso l’alto in cui le varie piattaforme Mobile ora giocano su un livello di maggiore pulizia e usabilità. Anche se qualche dubbio c’è.

È evidente che questo stile di design sia quello che sta contraddistinguendo questo decennio, ma a volte si ha la sensazione che con l’acqua sporca delle ridondanti interfacce pseudo-3D degli scorsi lustri si sia buttato anche il bambino della chiarezza delle interfacce. E forse sì, i ragazzini oggi sentono come “naturali” le interfacce flat, ma il confronto con le piattaforme precedenti fa storcere il muso agli adulti.

Il problema non riguarda solo iOs: l’ultimo update grafico dell’application store Google Play è elegante e pulito, ma ha perso per strada diverse feature e a volte non è facile capire cosa/dove si deve cliccare. Su Windows 8 gli utenti tornano alla vecchia interfaccia, che comunque già in Windows 7 aveva raggiunto un buon equilibrio grafico tra bordi alleggeriti e supporti chiari all’interazione utente.

L’ultima rivoluzione in casa Apple è già oggetto di studio in ambito innovazione e non è difficile immaginare che tutti gli sviluppatori nel giro di pochi mesi si sarà adattato al nuovo stile. La curiosità sta nello scoprire quando lo faranno gli utenti, specie quelli più tradizionalisti che, in un mondo in cui l’età media si allunga vistosamente, devono essere il target ideale da coccolare nei prossimi anni.

Il caso estremo del BYOD

I CIO di tutto il mondo si stanno domandando come gestire l’ormai ampio fenomeno del bring your own device, cioè la necessità di regolare il fatto che la stragrande maggioranza dei dipendenti ormai porta i propri smartphone/tablet/variedeventuali al lavoro e li utilizza per accedere al Web e magari agli stessi sistemi aziendali. I più smart hanno capito che si può far poco; anzi, hanno intuito il risparmio di lasciare ai dipendenti la responsabilità di comprare terminali costosi e sottoscrivere tariffe esose con le TelCo.

C’è un caso in cui il BYOD supera i confini dell’azienda ma allo stesso tempo rimane chiuso da evidenti limiti di diversa natura: è quello dei terminali personali utilizzati sui mezzi di trasporto di lunga distanza, treni e aerei in particolare. Se sui primi i servizi a valore aggiunto sono novità recente e sostanzialmente limitata ai Paesi che hanno investito sull’alta velocità, nei secondi c’è una vera e propria tradizione relativa all’intrattenimento di bordo. Fatta quasi sempre di costosi strumenti di bordo imbullonati sul sedile di fronte.

Joe Sharkey ha notato come si sia arrivati a un bivio: continuare a investire nell’acquisizione di hardware e nell’acquisizione di contenuti oppure fornire servizi di accesso alla Rete da utilizzare direttamente con i propri device. Anche perché potersi connettere col proprio terminale ad alta quota da parte dell’utente vuol dire permettergli di lavorare sugli infiniti voli intercontinentali, senza costringerlo a passare il tempo a guardare film di terza visione, cartoni animati con sottotitoli e documentari d’epoca.

È evidente la correlazione tra utenti della prima classe, possesso di terminali evoluti e potenziale interesse delle compagnie a includere servizi di connettività come plus del livello di servizio. Rimane da servire la massa e questo rende necessario dotarsi di infrastrutture adeguate (gli utenti del disastroso wi-fi Frecciarossa emetteranno ora un sospiro), ma anche continuare a garantire servizi di intrattenimento per chi i device non li ha o non li vuole usare 24×7. Fossero anche gare di cucina con i peanuts.

Scheumorfismo imperante

La sempre maggiore distanza tra l’eleganza minimalista dell’hardware Apple e il senso più pacchiano che mai delle interfacce utente sta diventando un chiodo fisso dei designer. Com’è possibile che il focus sullo stile di Jony Ive stia lasciando sempre più lo spazio a software ogni volta più incentrati su bordi di pelle rivettati e oggetti virtuali usciti direttamente dagli anni Sessanta?

Non è che lo scheumorfismo sia un male di per sé: il click virtuale delle macchine fotografiche digitali ha semplificato la transizione rispetto alle macchine che il click lo facevano davvero; i libri virtuali su Kindle hanno conquistato i lettori più accaniti anche per la loro rappresentazione simile a quella cartacea. La sensazione è che però Apple abbia preso una deriva un po’ estrema.

Passi per la calcolatrice che sull’iPhone rappresenta fedelmente quella fisica che utilizzavamo qualche decennio fa; ma c’è davvero bisogno dei trattini sotto la F e la J sulla tastiera virtuale dell’iPad? Non è che riempire lo schermo dei terminali con immagini di agende o calendari fisici sia un modo per nascondere la voglia di impegnarsi in un disegno veramente innovativo?

Per i più anzianotti, le interfacce così didascaliche rappresentano un buon modo per avvicinarli agli strumenti; ma i più giovani, quelli magari particolarmente sensibili al fascino del bianco hardware Apple, non apprezzeranno forse maggiormente l’essenziale e sobria interfaccia Metro di Windows 8? Potrebbe essere la prima vera vittoria di Microsoft nel campo del design.

Lo sviluppo tecnologico non può passare attraverso le guerre brevettuali

Leggere le news del mondo informatico/telematico tra un po’ richiederà una Laurea in Giurisprudenza. Non c’è giorno in cui non spuntino fuori notizie relative a guerre legali internazionali, che interessano i prodotti più amati dai consumatori confrontati con brevetti che a volte riassumono giusto del buon senso o suonano troppo generici rispetto all’evoluzione del mercato.

Apple e Samsung si rincorrono ormai da anni tra tutti i tribunali del mondo, salvo poi collaborare dietro le quinte sui prodotti più noti (Samsung ad esempio fornisce molto hardware ad Apple). Da anni Microsoft, Oracle, IBM e le altre grandi del settore si ritrovano di volta in volta dalla parte delle vittime o dei carnefici. Nelle ultime settimane il focus è su Yahoo! e Facebook.

Scorrendo la lista dei brevetti che la prima ha contestato alla seconda, l’umore alterna tra l’ilare e il preoccupato: alcuni sono talmente vaghi che potrebbero impattare qualsiasi sito attualmente in produzione; altri fanno riflettere su quante occasioni abbia perso Yahoo! negli ultimi 10 anni per far valere i propri insight, la propria posizione un tempo di leadership.

Facebook è vicina alla quotazione in Borsa e non poteva certo lasciare che Yahoo! o altri turbassero la propria immagine in un simile momento, quindi l’unica azione possibile è stata comprare qualche centinaio di brevetti da IBM, che non è difficile immaginare siano altrettanto fumosi o comunque buoni per contobattere alle accuse di Yahoo!, forse ponendo fine alla questione.

Il tutto potrebbe risolversi come l’ennesimo tentativo per Yahoo! di risalire il burrone che si è scavata da sola, ma non sarà certo l’ultima evoluzione di un vero e proprio business model che aziende oggi in crisi stanno cercando di mettere in pratica: se non si hanno più idee, si cerca di far valere le intuizioni avute anni prima, prima che qualcuno le trasformasse in realtà.

Basta con le messe tecnologiche

Quando qualche mese fa Andrea Beggi commentava la malcurata presentazione di Android Ice Cream Sandwich e Galaxy Nexus, suggeriva l’efficacia della demo di Siri di Scott Forstall come buon esempio di presentazione ben curata a priori e ben gestita durante. Che Apple abbia fatto scuola nella presentazione delle novità è un dato di fatto, ma come aveva notato Andrea in quell’occasione, non basta dichiararsi “excited” a spron battuto per conquistare la platea dal vivo e chi segue in streaming dall’altra parte del mondo.

I concorrenti di Steve Jobs infatti non ne possiedono né il carisma (e passi), né la capacità di comunicare in maniera convincente le proprie idee innovative; in alcuni casi sorge il dubbio che sia anche sfiducia nei confronti del prodotto, in cui non credono davvero. Al Consumer Electonics Show di Las Vegas, negli scorsi giorni, pare che di keynote e piccoli grandi eventi analoghi ce ne siano stati diversi, ma è difficile leggere commenti entusiastici da parte degli astanti. Nemmeno i giornalisti son sembrati molto esaltati.

La formula del keynote come messa tecnologica è logora e non è solo colpa della scomparsa di Jobs, visto che come detto sopra comunque i suoi discepoli hanno internalizzato la lezione e cercano di dare continuità al “credo” Apple, che sull’attesa entusiasta degli eventi ha costruito il suo appeal negli scorsi anni. Eventi proprietari, lontani dalla logica di eventi come il suddetto CES, che si stanno avviando sempre più verso un futuro incerto, nonostante al contrario l’attenzione di massa per l’hi-tech sia in costante crescita.

Per capire quanto sia necessario un nuovo stile di comunicazione delle novità tecnologiche basti guardare l’atteggiamento di Steve Ballmer all’inaugurazione dell’evento di Las Vegas. È vero che da una parte doveva presentare le novità Microsoft e dall’altro tutti sapevano si trattasse dell’ultima partecipazione dell’azienda all’evento, ma se è possibile è stato ancora meno convincente del solito. Eppure stavolta i prodotti (tra cui Windows 8 ) da comunicare li aveva… Son proprio lo stile e il formato che non vanno più bene.

Caro studente di Marketing…

Ti sembrerà strano, ma c’è stato un tempo in cui Microsoft era un’azienda “cool”. I suoi prodotti sembravano terribilmente innovativi, così user friendly e ben pubblicizzati, altro che quelli delle cariatidi tipo IBM, che prosperavano su interfacce che oggi troveresti terribili. L’azienda stessa veniva presentata come il posto migliore del mondo in cui lavorare, studenti di marketing come te e giovani ingegneri informatici facevano carte false pur di avere anche solo uno stage a Seattle.

Poi a un certo punto Microsoft era diventata troppo grossa, arrogante: il Web iniziava a diventare strumento di lavoro ancora più prezioso di Office e compagnia, per non parlare delle possibilità di intrattenimento infinito. A un certo punto un’azienda di estrazione universitaria, chiamata Google, era riuscita a conquistare tutti per la semplicità dei suoi prodotti. Anzi: del suo prodotto, il motore di ricerca più potente del mondo, ma con l’interfaccia utente più semplice dell’universo.

Google in pochi anni era cresciuta così bene da diventare il nuovo paradiso lavorativo dei giovani di tutto il mondo e i suoi prodotti riuscivano a sembrare semplici anche quando nascondevano capacità tecnologiche impensabili fino al giorno prima. Il Marketing funzionava così bene da divenire invisibile: altro che le campagne pubblicitarie miliardarie di quei fanfaroni di Microsoft, lo stile di Google era così riconoscibile e affascinante da ispirare un’intera generazione di designer.

Come dici? Ti viene da ridere pensando a Google Wave o a Google Knol? Comprensibile, un po’ tutto il mondo è perplesso, pensando a quanto possa essere irrazionale la scelta di appesantire Gmail con Google Buzz (e poi ucciderlo) o tarpare le ali a Google Reader per provare a portare traffico su Google Plus, scommessa social dal destino un po’ infelice. Google sembra ormai un gigante irrazionale e incattivito: pensa che sui libri troverai ancora il loro slogan “Don’t be evil”.

Ora adori Apple, sei circondato da dispositivi con la mela sopra e pensi che loro siano davvero bravi a comunicare i loro prodotti disegnati bene e dallo stile inconfondibile. Pensi che Microsoft sia un’azienda senza futuro e Google il mostro cattivo del Web. Non vedi l’ora di andare a lavorare a Cupertino e sei sicuro che Apple conosca davvero il futuro e sarà l’azienda definitivamente più stilosa della storia; fai attenzione, perché i miti passano, soprattutto quelli tecnologici.