Le nuove facce del digital divide

Qualche anno fa si parlava spesso di digital divide nelle zone più povere del mondo: i PC tardavano ad arrivare e in alcuni casi anche le telecomunicazioni erano difficili, se non impossibili. La rapida diffusione dei cellulari ha fatto letteralmente balzare in avanti intere economie locali: in molti casi sono stati “saltati” interi passaggi di digitalizzazione e il mobile è stata l’arma vincente.

L’attenzione sul digital divide si è così nel tempo spostata nuovamente sul mondo Occidentale, ove la crisi ormai costante sta facendo lievitare il coefficiente di Gini nei redditi di diversi Paesi. Qui ormai i cellulari da soli non bastano a muovere l’economia: sono smartphone e tablet probabilmente i tools più utili per poter contribuire a sostenere lo sviluppo economico. O a seguirlo.

In effetti non è chiarissimo il meccanismo: questi devices stanno contribuendo a sostenere i (pochi) settori economici ancora vivi o semplicemente la loro adozione è una conseguenza del livello di benessere necessario per comprarli? Al di là della moda imperante, quanti di coloro che hanno i mezzi per prenderli e mantenerli poi li utilizzano davvero sfruttandone l’enorme potenziale?

Una ricerca di Common Sense Media pubblicata negli scorsi giorni mostra come la correlazione tra benessere economico e adozione di media innovativi si ripercuota in ambito familiare: i bambini occidentali sono sempre più propensi all’utilizzo di smartphone e tablet rispetto ai media tradizionali, ma con tutta evidenza solo quelli più benestanti possono utilizzarli con continuità.

Questa prospettiva del digital divide è piuttosto inquietante: nel momento in cui la differenza tra ceti si evidenzia in così tenera età, sembra di tornare ai tempi in cui la differenza tra figli di analfabeti e scolari delle scuole private sembrava (e probabilmente era) incolmabile. La scuola pubblica aveva aiutato l’Occidente a superare questo iato, ma cosa potrà intervenire ora?

Sembra che in India si punterà proprio su tablet low cost, chiamato Aakash, per evitare di cadere in questa brutta frattura tra bimbi ricchi e poveri, in modo che il digital divide non nasca nemmeno o quantomeno non sia legato alla dotazione hardware. Ci sono molti altri elementi utili per eguagliare i destini economici di famiglie diverse, ma questo è un modo decisamente moderno.

La fine ingloriosa del BlackBerry

Basterebbe tornare con la mente ad appena un paio di anni fa, quando i vari modelli di BlackBerry, da quelli più tradizionali ai primi modelli con touchscreen, rappresentavano ancora un must have per Manager di varia levatura, anche e soprattutto quelli più importanti. Una posizione che si era consolidata negli anni e che per anni ha reso RIM invincibile sul target professionale.

Poi piano piano sulle scrivanie dei C-level è iniziato ad apparire l'iPhone. Proprio nei mesi in cui BlackBerry iniziava a inseguire il mass market, perdeva i suoi testimoni più prestigiosi e giù a scendere, se non altro per spirito di emulazione, anche qualsivoglia attrazione nei confronti del middle Management. Una carneficina visibile di mese in mese, di cambio in cambio di terminale.

Oggi gli stoici utilizzatori professionali del BlackBerry son sempre meno. Vengono quasi scherniti dai colleghi passati all'iPhone e da quelli che sentendosi più geek hanno scelto i palmari di fascia alta basati su Android. È più facile vedere dei BlackBerry in mano agli adolescenti in metropolitana, utilizzati soprattutto come spara-SMS. L'ultima campagna TV sembra cercare quest'utenza.

Se qualche anno fa, quando Research in Motion era semi-monopolista nel mondo degli smartphone soprattutto negli Stati Uniti, fosse stata comprata da Microsoft, avremmo visto crescere un mostro importante, capace di sbranare il mondo a furia di e-mail e notifiche. Invece entrambe le aziende hanno scelto strade oblique, soprattutto Microsoft interessata a raccogliere i cocci di Nokia.

Dal punto di vista finanziario, RIM è una società che lascia sempre più perplessi gli investitori, che hanno chiesto interventi drastici al/sul Management. È stata una scommessa giocata al rialzo che un giorno si è sgonfiata, distrutta dalla perdurante arretratezza dei suoi software e dal fascino del design di Cupertino: quelli tra noi con ancora in mano un BlackBerry ormai guardano altrove.

In Rete bisogna scegliere i partner giusti

Una decina di giorni fa, la nostra attenzione era tutta dedicata al crollo dei servizi in cloud computing di Amazon, colpevole di aver fatto scomparire per diverse ore la stragrande maggioranza delle Internet startup più amate. Pochi giorni dopo è stato il turno dell’accoppiata Playstation Network/Qriocity, le due reti Sony colpite da attacchi feroci da parte di ladri di informazioni senza troppi scrupoli: molti hanno visto la propria carta di credito tremare.

L’ultima ondata di indignazione è invece stata tutta italiana e ha riguardato Aruba, colpevole di aver sottovalutato più la portata comunicativa che gli effettivi danni (pressoché nulli) ai dati contenuti nella server farm incendiata. In tutti e tre i casi, l’ondata di pentimento collettivo ha riguardato l’essersi affidati a servizi remoti, senza possibilità di controllo da parte di utenti finali e aziende clienti, con il retrogusto amaro di averne sopravvalutato l’affidabilità.

Nonostante molti di noi, indossato il cappellino del consulente, incitino gli interlocutori a migrare servizi e applicazioni tra le nuvole, rimane una grande diffidenza nei confronti di chi gestisce le infrastrutture, con sforzi in avanti irrazionali guidati da leve non del tutto corrette come quella del prezzo. Per intenderci: va bene far ospitare il proprio sito a 20€ l’anno, ma poi non è serio aspettare un piccolo grande blackout per pentirsi di un uso professionale.

Il vantaggio di avere un sistema evoluto di posta elettronica come Gmail (e il relativo storage) sempre disponibili da qualsiasi terminale ormai lo abbiamo compreso; dobbiamo tutti fare uno shift culturale nell’applicare gli stessi criteri di selezione dei propri partner anche sulle altre applicazioni remote che abbiamo iniziato/inizieremo progressivamente a utilizzare. Probabilmente l’era del free a tutti i costi è finita, almeno per uso professionale.

Dall’altro lato, la vicenda Sony non deve farci cadere nel pessimismo cosmico del “se anche i grandi si fanno rubare le anagrafiche, allora non compro più nulla online”: i furti continueranno a esistere, è un atteggiamento più maturo cautelarsi per tempo (leggi: carte di credito con coperture assicurative) piuttosto che tornare anche indietro anche da questo punto di vista. Al contrario, continuiamo a sostenere chi propone innovazione, è meglio per tutti.

Altro che Nokia: la sfida è sempre tra Microsoft, Google e Apple

Tutti giù a dare contro Nokia e la sua scelta, da molti ritenuta suicida, di scegliere Windows Phone come sistema operativo per i propri smartphone. La scelta è sicuramente discutibile, anche se probabilmente obbligata: la fine ingloriosa di Symbian e l’incapacità di investire seriamente su MeeGo richiedeva di puntare sull’unica piattaforma vagamente alternativa all’ormai onnipresente Android.

La faccenda poteva essere gestita meglio, almeno a livello di comunicazione: molti altri aspetti del nuovo piano strategico di Nokia sono passati in secondo piano, compresa la dichiarazione di volersi posizionare come fornitore principale del prossimo miliardo di futuri utilizzatori di cellulari. Potrebbe un giorno risultare una scelta valida puntare sui volumi piuttosto che su terminali di fascia alta.

Il lato osuro è che Nokia sia uscita dalla vicenda come l’ennesima pedina in mano a Microsoft in un’arena molto più ampia, quella del personal computing, in cui proprio Google è il competitor più agguerrito. Microsoft continua a tessere la sua tela, che include attori come la moribonda Yahoo! e la promettente Facebook; Google impone direttamente il suo marchio, con qualche partner hardware.

Il terzo incomodo è Apple, che rispetto all’approccio mass market di Microsoft e all’approccio geek-friendly di Google punta speditamente su un pubblico di alta gamma. E macina utili, lei sì senza partner né hardware né software, mostrando agli altri due player che non c’è bisogno di organizzare ogni volta un’armata brancaleone per mostrare al mondo il proprio predominio sul mondo dell’high tech.

Ciò che rimarrà impresso del 2010

Puntuale come il Capodanno, anche quest’anno .commEurope ammorba i lettori con le considerazioni di fine anno. Auguri ai lettori per un sereno 2011, sperando che si consolidino i barlumi di ottimismo visti nel 2010.

Trend principale dell’anno: Mobile Internet

Non è per scrivere “si era detto qui“, ma in effetti il 2010 è stato davvero l’anno del Mobile Internet per le masse. Unico punto degno di nota: rispetto alla classica navigazione via browser tipica dei PC, Internet sugli smartphone ha assunto soprattutto il volto delle apps. Non solo iPhone: Android sta facendo passi da gigante da tanti punti di vista, mentre languono sempre più RIM, Microsoft e persino Nokia.

Oggetto dell’anno: Apple iPad

Fortemente collegato al punto precedente, il tablet di Apple ha costituito il ponte storicamente mancante tra PC e cellulari: ciò che non erano riusciti a fare i pesantissimi notebook negli scorsi decenni, ha potuto un oggetto costoso, ma semplicissimo da utilizzare. Sul mass market hanno tenuto duro i netbook: magari non ne sono stati venduti più tanti come gli anni scorsi, ma ormai è chiaro che notebook = PC fisso.

Delusione dell’anno: gli e-book reader

Pare che nell’ultimo Natale siano stati regalati soprattutto lettori Blu-Ray ed e-book reader. Tuttavia, se la prima tecnologia ha ormai superato l’estenuante guerra dei formati, la seconda è preda di un delirio mai visto: non è questione di hardware (l’iPad di cui sopra e l’Amazon Kindle potranno far bene in futuro), ma proprio di software e formati. Una situazione imbarazzante, che non aiuta l’editoria in forte crisi.

Piattaforma dell’anno: 2Spaghi

Se ne parlava qualche mese fa quando ancora la piattaforma era un divertissement per geek in trasferta. Negli ultimi mesi 2Spaghi ha avuto una bella crescita e ha iniziato a investire correttamente sul mobile. Come notava Alberto D’Ottavi negli scorsi giorni, finalmente anche in Italia c’è una case history Internattara interessante da narrare agli scettici. Partita nel 2006 e con grandi aspettative per il 2011 e non solo.

Azienda dell’anno: BP

L’azienda di cui si è parlato (male) di più nel corso del 2010 è stata, ovviamente, BP. Il disastro ambientale che ha provocato sulle coste del continente americano rimarrà nei libri universitari di diverse facoltà: non solo ingegneria ambientale o biologia o chimica, ma anche comunicazione, marketing, giornalismo. Una storia che ci ha insegnato molto, ma da cui sembra molti non vogliano imparare abbastanza.

Personaggio dell’anno: Julian Assange

Sebbene molti di noi potrebbero ricevere un maggiore impatto sulla propria vita da parte della vicenda di Paola Caruso più che dal vociferare planetario su Mark Zuckerberg o dalle rivelazioni di Julian Assange, è probabilmente quest’ultimo che rimarrà nelle nostre memorie come outsider dell’anno. Gli impatti della sua attività sul mondo reale sono ancora agli inizi: speriamo siano positivi, non destabilizzanti.

Dalla mafia al mandolino

Verso fine settembre, un fantomatico Osservatorio Antiplagio scova tra le novità dell’App Store per iPhone e iPod un’applicazione chiamata What Country e comunica alle principali agenzie (l’Ansa ci casca subito) di aver chiesto al Ministero del Turismo italiano di intervenire per proteggere l’immagine dell’Italia, presentata come terra di “Pizza, Mafia, Pasta, Scooters”.

I media italiani si lanciano in filippiche contro Apple, accusata di maltrattare il Paese nonostante il grande affetto che di solito i suoi prodotti ricevono da queste parti. Michela Vittoria Brambilla dichiara che coinvolgerà l’Avvocatura dello Stato contro un simile scempio, preannunciando una battaglia a tutto campo per raggiungere un obiettivo così importante.

Il confronto tra la presentazione di 'What Country' prima e dopo l'intevento del Ministero del Turismo

Passano un paio di settimane e la notizia torna a galla, visto che l’applicazione è stata parzialmente cambiata. Il Ministro del Turismo inizia a girare tutte le principali trasmissioni televisive per decantare il suo successo, i telegiornali declamano la sconfitta di Apple e il trionfo del mandolino, che ora appare negli screenshot di presentazione insieme a un’Ape Piaggio.

Negli stessi giorni in cui l’Italia appare nel mondo come la Patria della cronaca nera a causa delle storie impressionanti che si succedono (ma non è una novità), ci illudiamo che le cose possano migliorare eliminano un piccolo software da un catalogo che ne contiene milioni. Farebbe quasi tenerezza, se l’attenzione riservata a questo caso non ci ricoprisse di ridicolo.

Gli eavy users dei social network si interrogano sul perché Apple non presenti una (giustificatissima) querela, visto che è stata tirata in ballo a più non posso. Gli unici a gongolare stanno in Bielorussia e sono quelli di Apalon, che producono l’app e come al solito (vedi il clamore sull’applicazione anti-Nazi) riescono a farsi pubblicità gratis, puntando sulla stupidità altrui.

Wireless, ma non troppo

In questi giorni di eccitazione collettiva per l’iPad, gli Apple-maniaci si precipitano ad esaltare la capacità del nuovo terminale di abilitare nuovi modelli di comunicazione interpersonale in mobilità, spaziando dalle attività più ludiche al lavoro intenso dei professional, che finalmente hanno uno strumento di dimensioni sensate su cui lavorare rispetto agli schermi ed alle tastiere degli Smartphone che pur negli scorsi anni avevano contribuito a definire un nuovo paradigma di collaborazione a distanza.

Nulla di particolarmente diverso dagli UmPC già disponibili sul mercato negli scorsi anni, a dire il vero: l’iPad è costoso per un uso amatoriale, ma rispetto ai modelli meglio disegnati degli ultimi anni (un nome su tutti: HTC Shift) ha un prezzo relativamente più accessibile e soprattutto una migliore integrazione con le tecnologie dominanti del futuro, cloud computing in particolare. Il design fortemente wireless-centrico tipico della produzione Apple degli ultimi anni trova infatti nell’iPad il suo trionfo definitivo.

Come la maggior parte degli UmPC, Tablet PC e Smartphone evoluti visti sul mercato negli ultimi anni, tuttavia, l’iPad si scontra con un brutto crollo della batteria dopo poche ore di utilizzo intensivo: proprio le connessioni dati, quella UMTS in particolare, sono artefici di un consumo esasperato di energia; gli schermi, sempre più larghi e luminosi, fanno il resto. Si fa fatica a fidarsi di terminali potenti, ma troppo in balìa del litio per essere strumenti di lavoro affidabili su base continuativa.

Sono un po’ di anni che si discute della cosiddetta “wire-free power”, l’alimentazione a distanza, senza troppi risultati: i prodotti oggi disponibili sul mercato al massimo consentono di risparmiare qualche filo mettendo cellulari e altri gadget tecnologici su piastre caricatrici. Si tratta dello scoglio più grande che questi terminali (e poi a salire quelli energeticamente più impegnativi, quali i notebook) dovranno affrontare nei prossimi anni, per realizzare finalmente il sogno di un lavoro veramente wireless.

Il futuro ha il touchscreen

Qualche settimana fa, Vittorio Zambardino stava sperimentando l’Amazon Kindle quando si rese conto di continuare a tastarne lo schermo in attesa di feedback, senza risultato. L’oggettino modaiolo infatti non è dotato di touchscreen e questo è sicuramente un grosso neo per il reader, il cui successo continua in queste settimane nonostante gli oggettivi limiti hardware e software che lo accompagnano sin dal rilascio delle prime versioni.

L’esperienza di Zambardino l’hanno vissuta molti di noi passando dai cellulari tradizionali ai palmari come iPhone e BlackBerry Storm, dai PC tradizionali ai nuovi notebook che puntano sul multitouch nativo di Windows 7, o magari adottando un UMPC come strumento di lavoro in mobilità. Una volta fatto uno o più di questi salti (molti di noi li hanno fatti tutti e tre), è difficile tornare indietro e non iniziare a toccare qualsiasi schermo.

In queste settimane, tutti i gossip a proposito del (presunto) e-book reader/tablet di Apple vertono sulle caratteristiche hardware e tra questi la maggior parte si concentra nell’immaginare una versione “gigante” dell’iPod Touch, la cui caratteristica principale è appunto l’interazione via touchscreen. Un aspetto interessante, visto che al contrario l’Amazon Kindle concentra la propria interazione con l’utente su una classica tastiera QWERTY.

Il futuro ha il touchscreen per tutti noi. Perché è una modalità di interazione comoda, efficiente ed efficace per la navigazione tra informazioni, pagine Web e dati memorizzati sui terminali. Rimane ancora piuttosto scomodo per scrivere, visto che né il riconoscimento della scrittura né le tastiere virtuali riescono ancora a garantire una velocità di digitazione adeguata: sicuramente la ricerca e sviluppo delle più importanti software house lavorerà su questo.

Indipendentemente dal fatto che Apple lancerà o meno un nuovo terminale, la strada è segnata. La HCI del futuro passerà dal touchscreen e questo rappresenterà un passo avanti significativo nei mondi contigui dell’informatica e della telematica. Sarà sicuramente una svolta per il modo di comunicare, di interagire tra le informazioni e con le persone. Sperando che, spinti dall’abitudine, non si inizi anche a tastarci l’un l’altro.

Innovare in Europa, innovare in Italia

Desta una certa curiosità il dossier di Punto Informatico dedicato all’Innovation Day SMAU ed ai relativi vincitori. Si tratta di testimonianze che restituiscono un’idea un po’ diversa da quello che è il comune sentire sulla possibilità di innovare in Italia ed in generale in Europa. Rispetto al pessimismo cosmico che pervade chi affronta queste tematiche sul tram andando frustrato al lavoro, si intravvede un minimo di speranza sulla possibilità di fare impresa e di farla in maniera il più possibile innovativa, aggredendo mercati internazionali per fare economie di scala, ancora prima di provare a lanciarsi nel giardinetto sotto casa.

Se c’è una cosa che emerge dalle testimonianze, come prevedibile, è la difficoltà di trovare fondi freschi che permettano magari non lo sviluppo delle attività, ma quantomeno la fase di startup. Su questo, la sensazione è che il circuito del credito tradizionale faccia fatica a star dietro le iniziative realmente innovative: se hai bisogno di metter su una startup hi-tech e l’unica cosa che puoi dare in garanzia è l’appartamento in periferia dei tuoi genitori, difficilmente otterrai il credito necessario anche solo per avviare le attività. E questo vale per la stragrande maggioranza delle Banche Retail europee: ormai di Istituti mono-nazione ne esistono pochi.

L’azienda che ha vinto il mini-premio (appena 10.000 Euro) esiste in realtà dal 2005; ha ormai superato la soglia critica dell’avvio dell’attività e piano piano sta sviluppando un portafoglio di prodotti con gradi diversi di innovazione. Le altre sono ancora in fase di lancio e in qualche modo risentono di modelli di business ancora troppo uguali a quelli che ormai hanno fallito dieci anni fa: il freemium supportato dall’advertising continua ad illudere troppi, anche perché l’unico catalizzatore di fondi continua ad essere il sistema AdWords/AdSense di Google. Il che è un vincolo pesante, per una qualsivoglia startup, specie se europea.

L’altro aspetto che non viene fuori dal dossier, ma che emerge con forza dalle testimonianze dei giovani imprenditori che appaiono in Rete e probabilmente vessa quotidianamente molti di noi nella nostra attività professionale in settori innovativi, è che tutti gli stati europei (ed in questo l’Italia non è un’eccezione vistosa) sono letteralmente prigionieri delle proprie regole e queste, inevitabilmente, fermano l’avvio di progetti imprenditoriali, specie di quelli più innovativi. Questo fa ancora più paura della mancanza di fondi.

Amazon Kindle, Google Wave e le mode degli early adopters

Nonostante il suo costo ancora piuttosto elevato rispetto ai comparables, ormai l’iPhone di Apple è un prodotto di massa. Raggiunta una penetrazione quasi totale sui geeks, ha velocemente conquistato vip e persone in cerca di visibilità, poi ha saltato lo squalo ed è diventato diffuso anche tra i meno affini al marchio Apple. La stessa strada che, qualche anno prima, aveva seguito l’iPod.

La carovana degli early adopters, perciò, si è spostata altrove. L’attenzione è caduta sul Kindle di Amazon, ora acquistabile dall’Italia. Look vagamente simile ai prodotti Apple e sedici fantastiche tonalità di grigio con le quali visualizzare giornali e libri. Anche stavolta a molti è tornato in mente l’iPod prima versione, anch’esso con lo schermo piccolo e brutto, ma con una qualità del suono eccelsa.

Tutti a comprare il Kindle, compresi coloro che non aprivano un libro da anni, istruzioni dell’iPhone escluse. Tutti a magnificare le magnifiche sorti e progressive di un oggetto che di eccelso ha poco e riesce a rendere desiderabile persino un quotidiano gratuito da prendere in metropolitana: sicuramente più maneggevole e chiaro nella lettura. Tutti a domandarsi come hanno fatto a vivere senza.

Il dollaro debole, probabilmente, ha convinto molti a buttarsi nell’avventura. L’altro fattore scatenante, quello del voler essere alla moda prima degli altri, forse deriva anche dalla delusione collettiva per Google Wave, piattaforma tanto attesa quanto incomprensibile: meglio buttarsi su qualcosa di fisico (che si mostra meglio) e abbordabile (si può anche far finta di leggere libri in lingua originale).

Chi si è incaponito su Google Wave, d’altra parte, non ha avuto grande appeal nemmeno presso i geek più duri: le onde pubbliche più grandi in lingua italiana raccolgono al massimo qualche decina di utenti, facce note sui social network che fanno capolino nella lista ma poi non rilasciano nemmeno un commento o un voto. Anche perché magari non hanno ancora nemmeno capito come si faccia.

Tra Amazon Kindle e Google Wave, dunque, per ora vince il primo. Sarà per molto un gadget di nicchia, perché per comprarlo bisognerà azzardarsi nel mondo dell’e-commerce (cosa che purtroppo terrorizza ancora molti) e per utilizzarlo si dovrà addirittura tornare a leggere (cosa che fanno in pochi). Riguardo al secondo, per ora è una bella promessa mantenuta troppo in fretta per essere bella fino in fondo.