Italo, family day e LGBT

Ci si potrebbe domandare cosa sia peggio nei due messaggi pubblicati oggi su Facebook da NTV: il tono, il contenuto, la finalità. Tutto sbagliato, surreale per una società che vorrebbe presentarsi come innovativa e moderna: un misto di arroganza, supponenza e probabilmente anche modesta visione di business.

I treni Italo viaggiano già semi-vuoti dalla nascita: ora una nuova ondata di utenti insoddisfatti sta correndo a dichiarare il proprio boicottaggio, spesso sottolineando di aver fatto lo stesso dopo le dichiarazioni di Guido Barilla. Non solo gay: stavolta i diritti civili in gioco sono più ampi e NTV è riuscita a scontentare tutti.

Cercare di cavalcare tematiche sociali è piuttosto difficile: i consumatori sono diffidenti e proprio il mondo LGBT è quello più maturo e “scafato” nell’individuare marchi sinceri rispetto a chi vuole solo approfittare di una patina cool. Molti markettari saranno sempre più tentati: ma i diritti civili sono una cosa davvero seria.

Sarebbe interessante vedere se gli sconti concessi per il family day riusciranno a far vendere più biglietti, sufficienti almeno per coprire quelli non più venduta a causa del backlash. Sarebbe bastato non fare nulla, come Trenitalia: se non si riesce a essere empatici e socialmente responsabili, meglio stare sottotraccia.

Saluti da Delhi

Ogni tanto spunta su questo blog un post della serie “Saluti da”: si tratta di riflessioni post-viaggio in giro per il mondo. Stavolta è il turno di Delhi, capitale dell’India da 16 milioni di abitanti. Una megalopoli che è la somma storica di diverse città, stratificate e miscelate a livello culturale ma anche fisico.

Un insieme eterogeneo e affascinante, decisamente interessante anche dal punto di vista turistico: come in altre aree dell’India viene fuori il carattere decisamente arabo delle attrazioni più belle. Moschee, minaretti e palazzi che meritano una visita per gli appassionati di arte, storia, archeologia.

Quello che noi europei definiremmo “centro storico” è un crocevia pazzesco di persone, attività e business: Chandni Chowk e Chawri Bazar sono il sogno di ogni economista. Una specie di mercato perfetto organizzato in cluster uniformi di attività, dove i prezzi sono del tutto discrezionali e variabili.

Ma New Delhi è anche una città molto moderna: da Connaught Place in poi si alternano gli uffici delle principali multinazionali, uffici pubblici e hotel di lusso. Il tutto, come spesso accade in India, alternato con veri e propri slum che spuntano del tutto inaspettati, con un effetto a dir poco straniante.

D’altra parte poveri e mendicanti non mancano: nello smisurato territorio di Delhi si trovano bellissimi spazi verdi e poi anche strazianti baraccopoli ove non è raro vedere bruciare la spazzatura. Cosa peraltro vista ovunque in India: ma nel capoluogo tutto è moltiplicato e amplificato.

Delhi merita sicuramente una visita turistica: gli Occidentali nostalgici avranno la possibilità di trovare prodotti e servizi del loro mondo, ma è solo provando a tuffarsi un po’ nel deliziosamente folle spirito indiano che la si capirà davvero. O almeno ci si potrà trovare, per interesse personale o di business.

Noooo, logo!

Ogni tanto spunta un articolo come quello di Mental Floss che passano in rassegna casi emblematici di loghi infelici, spesso ri-edizioni di quelli usati per anni da brand di prestigio, amati da tutti e probabilmente proprio per questo ampiamente criticati nel momento del cambiamento.

In questi casi a volte il cambio è dovuto, magari perché il logo storico è relativo a un’azienda oggetto di M&A e si vuole opportuno dare visibilità al nuovo assetto; in altri è voluto dal management per “svecchiare” l’immagine del prodotto o dell’azienda, magari nell’ambito di una nuova brand image.

Ci sono un paio di casi italiani in cui il cambiamento è stato (all’apparenza) così limitato da aver creato malumori tra gli azionisti per il budget di revisione: il passaggio da bpu><Banca, ad esempio, ma soprattutto quello di Alitalia, che passò a una versione inclinata del lettering.

In queste settimane proprio la (ex) compagnia di bandiera è alle prese con una revisione della propria immagine: ci è stato promesso un nuovo logotipo ma anche qualche intervento più radicale sul modo di comunicare dell’azienda, che per fortuna non è dovuta passare da una tragedia à la Germanwings.

Aspettiamo incuriositi, sperando che i manager internazionali che la guidano siano un po’ più illuminati dei “padri” dei drammatici cambi di logo visti negli ultimi anni. In ogni caso poi li giudicheremo a valle per la capacità di innovare radicalmente il business, che è molto più importante del resto.

La coscienza di Lufthansa

Con che faccia guarderemo nei prossimi mesi le hostess che si sbracciano a indicare uscite di sicurezza e sentieri luminosi sapendo che il pericolo possa venire non da un’avaria tecnica ma da un gesto sconsiderato di chi è in cabina di pilotaggio? Con che atteggiamento affronteremo i già di per sé noiosi (e a volte ridicoli) controlli di sicurezza in aeroporto ricordando la mote di centinaia di persone non per colpa di un terrorista dotato di una bottiglietta di acqua minerale ma dello staff di una compagnia aerea blasonata?

Domande come queste, negli scorsi giorni, hanno sicuramente attraversato la mente di molti di noi negli scorsi giorni, frequent flyers in primis. Non è detto che qualcuno meno propenso al volo ora decida di smettere del tutto; ma chi vola abitualmente affronterà i prossimi viaggi con un sorriso di solidarietà in più rispetto al personale di volo delle compagnie di fiducia. Tra le quali, bisogna dire, perderà molta credibilità Lufthansa; non basta dire che il volo era Germanwings per cancellare le responsabilità della casa madre.

Sarebbe d’altronde come ammettere che Germanwings e la sorella Eurowings (quanta confusione di branding negli ultimi anni) fossero il tubo di scappamento in cui riversare personale problematico e aerei vecchi 20 anni. Cosa che non si vorrebbe mai pensare di uno dei principali gruppi dell’aviazione internazionale, che tiene in piedi quasi da solo la Star Alliance e che nelle proprie campagne si è sempre vantato della propria matrice di affidabilità teutonica. Che poi, alla prova dei fatti, si è rivelata piuttosto scarsa.

Tutti a dare addosso a Lubitz, quasi a voler nascondere l’aereo vetusto o i carichi di lavoro massacranti della compagnia wannabe-low cost del gruppo Lufthansa. Un maldestro tentativo di fare PR sulla pelle di un povero cristo per salvare la coscienza del management. Un rincorrere i giornalisti per far loro raccontare una versione dei fatti “ufficiale” quando le indagini sono appena iniziate e potrebbero avere esiti clamorosi. O forse averne nessuno, visto la disintegrazione dell’aereo, ma anche della nostra fiducia.

Alitalia trova marito

Ci sono due primi effetti del futuro matrimonio tra Alitalia ed Etihad: il primo, più nascosto, è la progressiva scomparsa dal sito della compagnia dei riferimenti all’alleanza SkyTeam, che rimane pallidamente rappresentata dal loghino accanto al logotipo Alitalia e in qualche pagina nascosta; il secondo, più eclatante, è l’avvio delle cancellazioni delle tratte.

La prima a cadere sotto l’accetta è AirOne, tentativo altalenante di tenere in vita il brand storico di Toto dandogli una veste low cost (si fa per dire, viste le tariffe): cancellati i voli, respinti progressivamente al mittente gli aerei in leasing che ancora venivano dai vecchi accordi. A farne le spese soprattutto i collegamenti diretti tra nord e sud Italia.

Uno dei razionali è che per viaggiare dalla Torino di turno da/verso la città meridionale di turno basta fare scalo a Roma; prospettiva che mette in difficoltà parecchi viaggiatori, visto i tempi infiniti di transito a Roma (compresi i sistematici ritardi di decollo dovuti al troppo traffico) e fa sorgere qualche dubbio sulle ragioni dei tagli, visti i load factor alti.

Probabilmente alla fine sarà tutta una questione di slot da liberare, a Linate in primis: sarà un bene per chi deve andare all’estero, ma i collegamenti interni diventeranno un calvario. Peraltro, diminuendo anche le “navette” verso Roma, da alcune città (tra cui proprio Milano) sarà più difficile anche raggiungere il tanto sospirato hub di Fiumicino.

Verso Oriente la strada è tracciata: non sarà una meraviglia vedere crescere a dismisura i voli verso Abu Dhabi per poter raggiungere i Paesi asiatici; fortuna e geografia vuole che verso le Americhe potrebbe venir comodo agli arabi fare leva sugli scali italiani (il caso Emirates a Malpensa insegna), quindi almeno qualche viaggio intercontinentale diretto resisterà.

Cosa succederà alle bistrattate tratte nazionali in Italia? A Venezia si parla di nuovi collegamenti operati da low cost spagnole, a Torino arrivano le rumene, mentre a Milano tutti aspettano il Frecciarossa 1000 che dovrebbe abbassare ulteriormente i tempi dell’alta velocità verso Roma. Al sud ci si dispera e basta, pensando a quanto dureranno i viaggi un tempo così veloci.

Saluti da Boston

Dopo Nizza, Praga e Berlino, stavolta i saluti ai lettori arrivano dopo aver visto in cosa Boston differisce non solo dalle nostre città europee, ma anche dalle sue sorelle d’Oltreoceano. La capitale del Massachusetts, infatti, è una piccola isola felice, in equilibrio tra una tradizione che sa valorizzare e uno sguardo deciso verso il futuro.

La tradizione è quella derivante dall’essere stato un centro rilevante per la storia americana, con una buona capacità di valorizzare i lasciti in chiave turistica senza appesantire la vita quotidiana del centro; lo sguardo verso il futuro non può che derivare dal cuore universitario, che può onorarsi di nomi di peso come Harvard e MIT.

L’essere tendenzialmente una città borghese, benestante, fa sì che il marketing locale sia molto focalizzato su chi può permettersi un tenore di vita alto: il caso più evidente è quello del cibo, che trova nella presenza convinta di Whole Foods Market la migliore espressione, fatta di gusto internazionale e alta qualità dell’offerta.

In città si rincorrono i messaggi pubblicitari dedicati ai manager delle principali Financial Institutions e società di consulenza che hanno sede in loco; i musei pubblici trasudano bellezza e opulenza, nonostante per ovvi motivi siano meno famosi di quelli di New York; per le strade le auto sono spesso eleganti e non solo carrarmati ingombranti.

Boston è insomma una città-modello per quelle che, da questa parte dell’Atlantico, si disperano di non saper più attrarre cittadini e investimenti, essendosi ormai convertite in ammucchiate di uffici e dormitori. Non mancano i problemi, ma la sensazione di saperli risolvere è più forte della nostra abitudine europea di piangerci addosso.

Se Alitalia promuove BlackBerry

Appena pochi anni fa, l’accoppiata sarebbe stata naturale: BlackBerry era IL brand di smartphone dei Manager, gli stessi che volavano su e giù per l’Italia con la pur bistrattata ma insostituibile Alitalia. L’aereo atterrava e prima dell’apertura delle porte gli inconfondibili trilli delle e-mail accumulate suonavano all’unisono.

Poi da un lato è arrivato l’ennesimo tracollo di Alitalia, quello che ha portato alla privatizzazione sui generis dei capitani coraggiosi. Parallelamente, BlackBerry iniziava la lunga discesa agli inferi dovuta all’esplosione degli iPhone prima e al lento dominio progressivo di Android, soprattutto sul mass market.

Alitalia ha provato più volte il rilancio di marketing, anche con una profonda revisione della brand image, oggi molto più stilosa e non solo su Web. BlackBerry ha provato a rinnovare la sua immagine e la linea di prodotti, ma il tentativo è fallito miseramente. Oggi Alitalia vivacchia, BlackBerry sta scomparendo del tutto.

Quando negli scorsi giorni Alitalia ha contattato i suoi clienti promuovendo BlackBerry, i commenti impietosi dei clienti si sono sprecati, soprattutto in termini di analogie tra i disastri compiuti dal Management delle due compagnie, eternamente prossime al fallimento e mai veramente rilanciate o rilanciabili fino in fondo.

Si tratta di due vicende che, seppur diverse in termini di storia e di rapporti con la politica (e quindi di possibili esiti futuri), sono accomunate dall’essere state un tempo monopoliste e poi aver distrutto la propria credibilità sui mercati di riferimento. Peccato soprattutto per le decine di migliaia di dipendenti coinvolti.

Saluti da Berlino

Un’affermazione empirica, suffragata più dalla frequentazione dei social network in lingua italiana e dalla lingua italiana sentita in ogni strada, è che quest’anno Berlino sia stata una meta “calda” per il turismo italiano. Turismo molto eterogeneo, formato indistintamente da famiglie a caccia di musei, ragazzini in cerca di locali, hipster che l’hanno scelta come capitale europea del cool. Strano destino per una città che alterna edifici terribilmente retrò e gioielli architettonici contemporanei, in un mix affatto scontato: l’ex Berlino Est è oggi decisamente più appealing dell’ex zona occidentale, visto che la ricostruzione negli ultimi venti anni ha riguardato soprattutto i quartieri da questo lato della Porta di Brandeburgo.

Lo sviluppo commerciale è stato il driver principale di questa evoluzione; c’è però una nuvola malinconica che aleggia su tutta la città. Non c’è solo il classico cruccio tedesco legato al (comprensibile) dolore di aver dato origine al nazismo; a Berlino si vive ancora l’altra cesura storica, quella del crollo del muro, che ha sicuramente appeal turistico, ma che incredibilmente condiziona ancora la vita dei berlinesi. Non è un caso che Berlino risulti più interessante nelle aree e nei momenti in cui si presenta sciolta dalla sua storia, più focalizzata sul futuro che sul passato. La club culture ad esempio è un fenomeno solido nella città che tiene solidamente in mano lo scettro di capitale mondiale della techno.

Rispetto a Praga, Berlino presenta un rapporto più maturo con i brand internazionali. Per la gioia degli italiani non mancano gli Starbucks, ma per il resto sembra più amato il pesce di Nordsee che l’hamburger di McDonald’s; in generale anche in considerazione dell’ampia immigrazione, spadroneggiano le culture alimentari turca e italiana. Anche a livello culturale l’apertura internazionale è significativa e fa intuire una grande disponibilità al confronto, soprattutto col resto d’Europa. Non che manchino le classiche fissazioni tedesche: le automobili sono il tipico esempio di prodotto in cui i tedeschi si sentono i primi della classe. Peraltro, nel bene e nel male, in Europa lo sono anche da molti altri punti di vista.

Saluti da Praga

Lo spirito è quello del post di qualche anno fa che portava ai lettori di .commEurope una “cartolina” da Nizza. Visto che in questi mesi si prevedono diversi giri per il mondo, l’idea è di riprendere l’abitudine di appuntare qui sul blog le osservazioni sul marketing “europeo” visto di volta in volta nei quartieri delle città visitate. Si inizia con Praga, una vera e propria bomboniera per turisti, anche squattrinati. Rispetto alle altre capitali europee si fa fatica a scovare i luoghi ingombranti della democrazia; piuttosto tutto è votato ad attirare l’attenzione di chi passa periodi più o meno brevi in città. Praga è amata dai ragazzini in cerca di alcool come dai vecchietti a caccia di foto dei tanti monumenti.

Le strade della città sono un groviglio di marchi internazionali: non sono solo i fast food e i fast fashion ad aver trovato terreno fertile; la cosa interessante è che si scontrano tutte le catene dell’Europa continentale ma anche i grandi nomi Britannici e Statunitensi. Quindi Paul si mischia con Hooters, mentre le catene locali sono piuttosto sparute e poco coese. Probabilmente qualche anno fa i Marketers di tutto il mondo hanno capito che l’Est Europa era un terreno promettente e così si sono tutti riversati in massa; l’effetto è un overflow di offerta che probabilmente tranquillizza i turisti, ma non sempre riesce ad attrarre i locali. Qualcuno nota che gli stipendi cechi non sono ancora ai livelli occidentali.

Merito o colpa anche del mancato ingresso nell’Euro, che doveva avvenire lo scorso anno e invece pare rimandato a lungo termine contrariamente a quanto già avvenuto nell’amica-nemica Slovacchia. Il rapporto di cambio è relativamente favorevole per i turisti (anche se noi Italiani ci distinguiamo per aver perso la capacità di gestire monete diverse dall’Euro) ma un giro al supermercato fa sorgere qualche legittimo dubbio sulla redditività di chi vuole portare il proprio business in quelle zone. Sugli scaffali si trovano le classiche multinazionali formato-famiglia italiane (Barilla, Ferrero, Saclà, CIS), ma è difficile capirne il posizionamento, sempre in bilico tra premium e tentativo di allargamento del target.

Bentornati salatini, addio miglia

Dopo meno di un anno e mezzo Alitalia è tornata a offrire il mini-snack sui voli nazionali. Non solo in questi mesi la compagnia ha preso schiaffi a iosa da parte di Trenitalia e NTV, ma ha ormai anche perso il monopolio sulla rotta Linate-Fiumicino, che era stata l’unica ancora di salvezza dei bilanci durante i primi anni di vita di CAI. C’è poi stato un altro evento che ha contribuito al suicidio: la fine del programma Millemiglia 2008-2012 e l’avvio di una nuova edizione.

Alitalia ha posto l’accento sulla necessità per legge di dare una scadenza anche al più lungo dei programmi, ma i frequent flyers sanno bene che nel passato si son trovati espedienti per esaurire formalmente un’edizione e lasciare agli utenti più fedeli la possibilità di ritrovare i punti sull’account del nuovo programma. Questa volta si è puntato tutto sul far consumare le miglia accumulate da lustri, di edizione in edizione, per ripartire con un credito zero rispetto ai Clienti.

Bel modo di recidere il cordone che legava i più fedeli alla compagnia di bandiera. Come scriveva Ana Andjelic, non solo è complicato seguire nel tempo i programmi delle compagnie, ma è anche triste ricominciare ogni anno ad accumulare miglia qualificanti. Una tendenza masochistica per cui da un anno all’altro il Cliente può passare tranquillamente dal paradiso della fascia top a essere trattato come un novellino, indipendentemente dalla sua storia nei confronti dell’azienda.

Il nuovo programma Millemiglia è simile al precedente, con fasce più alte per ritirare biglietti premio; i Clienti aspettano sospirando l’adesione al programma Flying Blue di Airfrance KLM, contrassegnato da soglie elevate per l’accesso ai club premium. Nel frattempo non è difficile pensare che, più che l’intrattenimento di bordo, per molti la nuova arma di fidelizzazione saranno i prezzi bassi. E su questo fattore Easyjet e Ryanair son lì a godere dell’harakiri di Alitalia.