La resurrezione delle Gif animate

Tutti i nostri primi sitarelli personali, a metà anni Novanta, contenevano qualche Gif animata. Andavano forti i calamai con le letterine, per linkare gli indirizzi di posta elettronica, o le frecce tutte colorate per andare avanti e indietro tra siti fatti di qualche paginetta statica Html con texture appariscenti come sfondo.

Sempre più raramente, capita ancora di trovare in Rete qualcuno di questi cimeli; certo la scomparsa progressiva Aspide/Freeweb in Italia o di Geocities/Tripod a livello internazionale ha fatto sì che piano piano i capolavori a base di Microsoft Gif Animator e Netscape Composer finissero nella memoria dell’Internet Archive.

E poi è arrivato Tumblr. All’inizio si vedeva qualche Gif animata presa qui e lì dalla Rete, magari ripresa da Reddit o 9Gag; poi sempre più scene tratte da telefilm, spesso sottotitolate, riportate non come video, ma come Gif animata. Ampie comunità di fans di serie come Geek o Dr. Who hanno amplificato il fenomeno.

Ora è il turno delle agenzie pubblicitarie, che stanno iniziando a usarle nella comunicazione di aziende come Burberry, Nissan o Red Bull, non solo sui social network; ma è anche l’ora delle applicazioni Mobile, specie per iOs, che in qualche modo potrebbero potenzialmente amplificare il successo di Instagram e similari.

In fin dei conti è una delle resurrezioni più inattese della storia dell’informatica, o forse le Gif animate non sono mai davvero morte. Sono cresciute nel tempo, da scarabocchi di pochi pixel a 256 colori a veri e propri filmatini visualizzabili su molti device. Hanno accompagnato, stanno accompagnando, l’evoluzione del Web.

Che fare dei commenti?

Qualche anno fa su queste pagine si commentava la scelta di Wittgenstein di non permettere i commenti come modo di risparmiare tempo rispetto a contributi non sempre rilevanti. Poi Luca Sofri ha cambiato policy e nelle scorse settimane ha “festeggiato” un anno di commenti sul blog, pur con molta perplessità (e tanti commenti, per l’occasione).

Rimane la sensazione di un lavoro immane di moderazione di fronte a un chiacchiericcio di livello inferiore rispetto alla qualità dei post e a rischi non calcolabili a priori come quelli derivanti da commenti ingiuriosi verso terzi o con contenuto illegale. Se il tenutario del blog è un privato, per di più personaggio noto e impegnato, il mix funziona sempre meno.

Ci sono poi i commenti, sempre più frequenti, postati sui social network: magari il tenutario preferisce interagire con i propri amici via Facebook o FriendFeed piuttosto che con sconosciuti di passaggio sul blog. Anche qui su .commEurope ci sono post che periodicamente riprendono vita con commenti di cui non si vede davvero il valore aggiunto.

Quando recentemente il mondo dei community manager si è agitato per la scelta del Boston Globe di dare in outsourcing la moderazione dei commenti, l’attenzione è andata soprattutto alle regole date al fornitore più che al fatto che il lavoro stesso fosse diventato abnorme per i professionisti del giornale. E una testata non può non moderarli.

Più cresce la penetrazione del Web nel mass market, più i commentatori si sentono in dovere di frequentare i blog più noti e ancor più le pagine dei media; proprio questa crescita esponenziale impedisce la formazione di qualsivoglia senso di community, rendendo implicitamente ancora più povero e poco coeso il chiacchiericcio medio.

Più del classico lavoro di moderazione, i community manager dovranno inventare modi per canalizzare e far crescere un senso di appartenenza che vada oltre il “diamo contro a tutti i costi” tipico delle righe che possiamo leggere sotto qualsiasi articolo con commenti aperti. Altrimenti, non servirà più questa figura professionale, basterà un robot.

Blog a servizio ridotto

Questo post serve soprattutto a tranquillizzare i lettori di .commEurope: al momento niente drammi estivi come lo scorso anno, ma solo un rallentamento che segue la tendenza estiva di questo blog. La scelta per luglio e agosto 2010 è infatti di diluire l’impegno rispetto al post settimanale tipico di questo blog, ma continuare a scriverci su.

Per molti di noi, si spera per tutti gli amici di .commEurope, questi sono week-end di relax in giro per l’Italia, preludi di periodi di vacanza finalmente imminenti. Capita comunque di lavorare un po’ o di leggere online per mantenersi aggiornati, anche perché altrimenti non ci sarebbe molto di cui parlare quando la voglia di scrivere prevale sulla pigrizia e sull’ozio estivi.

Chissà se tutto ciò vale anche per i corporate blogger. Magari avrebbero voglia ogni tanto di allentare il ritmo, di smettere di scrivere post “attraenti” rispetto alla realtà sonnolenti delle proprie società. Perché un conto è riuscire a perfezionare uno stile di scrittura coerente con l’immagine aziendale, un altro far appassionare i lettori.

Viene quasi da immaginarli, questi corporate blogger annoia(n)ti, che vanno dai referenti aziendali e li convincono che i blog sono morti, che invece di mantenerli a servizio ridotto, tanto vale chiuderli e passare ad una meno impegnativa gestione di un profilo di Facebook. Tanto questo mondo virtuale è così fugace che si può agevolmente dimostrare di tutto.

2Spaghi, per sapere sempre dove cenare

Capita raramente di dedicare post a singoli siti: qualche mese fa era stato il turno di MD80.it, portale specializzato nell’informazione sull’aeronautica civile per gli appassionati del genere; un po’ di tempo prima, si era parlato di BlogHotel.it, blog dedicato alla raccolta delle recensioni alberghiere internazionali da parte di clienti italiani.

Il sito di oggi è un po’ nella scia di quest’ultimo, sebbene il focus sia leggermente diverso: si tratta infatti di 2Spaghi, sito specializzato nel raccogliere il feedback degli utenti sui ristoranti italiani. Un progetto di nuova concezione, che negli ultimi mesi ha visto commenti positivi da parte di addetti ai lavori e semplici appassionati.

Quando ancora il termine era di moda, la piattaforma veniva etichettata come “Web2.0” allo stato puro. Gli elementi non mancavano: i rating, i tag, le funzionalità “social”, il wiki, i commenti degli utenti (votabili), l’integrazione con Facebook. Oggi la moda è passata, ma per fortuna siti come DueSpaghi continuano a crescere e raccogliere contributi.

Contributi che, bisogna ammetterlo, sono sufficientemente ruspanti da essere reali; scritti di pugno da clienti di estrazione e competenze diversi, ma tendenzialmente affidabili. Qualche volta spunta qualche piccola discussione tra i commenti dei singoli locali, ma nella maggior parte dei casi si forma un “flusso” di pareri che agevola la scelta del ristorante.

Ci sono sicuramente spazi di miglioramento nella piattaforma (es. la ricerca, un po’ troppo farraginosa), ma al momento 2Spaghi è la piattaforma italiana più affidabile quando si è alla ricerca di un posto interessante per andare a cena. Il che, per molti di noi costantemente in giro per l’Italia, equivale a dire: quando si è alla ricerca di un’ancora di salvezza.

Noiosi mesi politichesi in corso, di nuovo

Inquietante notare che la campagna elettorale per le Elezioni Regionali 2010 sia iniziata ancora prima della decisione ufficiale relativamente alle date della tornata elettorale. Decine, centinaia, migliaia di manifesti hanno iniziato a tappezzare le nostre città con un fenomeno abbastanza nuovo: auto-candidati che hanno iniziato a proporsi al pubblico con manifesti 6×3 prima ancora di essere stati nominati tali da qualcuno.

Quando nel 2006 si parlava di noiosi mesi politichesi, si sperava in un crescente uso del Web per tagliare proprio questi stupidi costi, utili solo per giustificare crescenti richieste di rimborsi delle spese elettorali, non di certo per convincere i milioni di elettori indecisi. Due anni dopo si sperava nell’emulazione delle campagne Web statunitensi e si finiva per leggere in Rete solo a proposito dei soliti alterchi televisivi tra politici.

Ancora due anni e stavolta non siamo di fronte alle Elezioni Politiche, ma a quelle Regionali. Nel frattempo i blog sono passati di moda ed ora i politici nazionali hanno imparato ad utilizzare Twitter ed altri strumenti di interazione con gli elettori, almeno a livello teorico. I politici locali invece non ne vogliono sapere: dicono di essere parte della società civile e come tali si sentono in dovere di gridare come alla sagra del pollo.

Alcuni Governatori uscenti hanno veramente del coraggio a ripresentarsi, dopo svariati incarichi e magari anche qualche simpatica inchiesta sulle spalle. Altri, decapitati direttamente dai partiti a Roma, piangono miseria e reclamano poltrone ministeriali. Gli outsider sperano di venire eletti cercando di sparigliare, di arrivare al cuore degli elettori presentandosi come vergini della politica, senza macchia e senza macchie.

In ogni caso, la consueta noia è garantita. Nelle ultime settimane, il Premier è sospettosamente calmo e l’opposizione come al solito è non pervenuta. Nessuno ha voglia di colpi di scena ed il dibattito legislativo verte su argomenti di nessun interesse per gli elettori come la riforma della giustizia. Tratteniamo il fiato ed aspettiamo i risultati delle Elezioni: cambierà poco e probabilmente cambierà in peggio.

E ora, che si fa con gli UGC?

Non c’è consulente di comunicazione e dintorni che in questo periodo non si stia arrovellando sui dubbi che le aziende clienti pongono, in maniera crescente, riguardo agli User generated contents ed alla loro valenza in chiave di marketing. I consulenti furbetti tirano fuori idee improbabili tanto per fare budget; quelli un po’ più coscienziosi esplorano strade magari un po’ “alternative”, ma che cerchino di posizionare le aziende in un panorama in cui partono perdenti.

Finita la fase dell’incoscienza, in cui le aziende minimizzavano i contenuti dei blogger, pochi ed elitari, è ora il momento della passione collettiva per il monitoraggio degli spazi pubblici. Fioccano strumenti di analisi semantica, rinverdiscono passioni sopite verso strumenti prematuramente definiti morti come i Forum ed oggi riabilitati grazie alla visibilità che i motori di ricerca continuano a riservare loro.

In quest’orgia di monitoraggio collettivo, c’è chi decide di passare all’azione. C’è chi lo fa con trasparenza, inglobando le risposte alle osservazioni dei clienti nei doveri del customer care e proponendosi con profili pubblici sui social network; c’è chi lo fa in maniera fraudolenta, con quella tecnica terribile chiamata infiltration che, è bene ricordarlo periodicamente, è illegale in tutta Europa, Italia compresa, non solo quando serve a danneggiare i concorrenti.

Nel secondo scenario, il rischio di figuraccia per l’azienda “scoperta” è tale che solo un marketing manager molto aggressivo potrebbe crogiolarsi nei possibili risultati positivi. Nel primo, invece, l’azienda che interviene pur a voce bassa nelle discussioni tra privati rischia di venire percepita come invasiva, anche se si limita a segnalare le caratteristiche dei propri prodotti. E così si torna al dubbio iniziale: cosa fare con questi benedetti/maledetti contenuti nati “dal basso”?

Probabilmente la risposta è prematura e solo le aziende con una forte cultura di marketing possono lanciarsi in sperimentazioni, magari fallimentari, ma utili per costruirsi un ruolo nell’ecosistema complessivo. Per le altre, forse è opportuno aspettare un momento e continuare a monitorare gli spazi pubblici in maniera non ossessiva, raccogliendo domande dalla discussione e dando risposte nei prodotti. La prossima volta, almeno, saranno gli utenti stessi a parlarne bene.

E tutti twittavano “Al lupo! Al lupo!”

Se nel mondo “reale” la morte di Mike Bongiorno ha rappresentato la fine di uno degli ultimi personaggi residui di un mondo che sta sparendo, in Rete si è assistito ad una sorta di rivisitazione italica della scomparsa di Michael Jackson vista attraverso i social network. Come era avvenuto in quell’occasione negli Stati Uniti, molti di noi hanno appreso la notizia curiosando in Rete, magari approfittando della pausa pranzo per fare un giro sulle piattaforme sociali.

I primi che hanno tweettato la notizia, a dire il vero, l’hanno comunque appresa da media tradizionali. Quelli che l’hanno letta, sono corsi a verificarla sui quotidiani online e, in assenza di riscontro immediato, hanno iniziato a retweettarla a mo’ di scoop del secolo. In realtà sono bastate poche decine di minuti per permettere ad agenzie e quotidiani di togliere dal freezer i coccodrilli, con molti particolari sulla carriera del presentatore e pochi sulle circostanze della morte.

La notizia si è quindi incanalata sui social network “di approfondimento”, quali FriendFeed e similari. I tweet hanno cambiato leggermente tono, passando dallo “sto dando una notizia in anteprima” a “mi dispiace per la morte di Mike Bongiorno”. Il focus del giorno quindi non è stato più il decesso in sé, ma le emozioni suscitate dall’evento in chi lo stava commentando a poche ore di distanza. Con tanto di commenti sull’efficacia di Twitter nel diffondere notizie.

Uno sviluppo tutto sommato equilibrato della vicenda, lontano da quello cui si assiste ogni volta che si è di fronte ad una notizia che si vorrebbe “far crescere dal basso”. Che si sia testimoni di una piccola o grande scossa di terremoto nel quartiere, di un treno che deraglia o di un violento acquazzone, lo spirito da reporter ci pervade rendendoci inconsciamente obbligati a gridare al mondo quanto sia importante ciò cui stiamo assistendo, alla faccia dei media silenziosi.

Grazie a Dio, raramente i nostri drammi sotto casa sono davvero rilevanti per il resto del mondo. I nostri contatti sui social network però si fidano della nostra percezione ed amplificano le notizione che diffondiamo a rotta di collo. Con tutta calma, le agenzie di stampa valutano l’accaduto, lo formalizzano con il livello di allarme che gli è proprio e lo immettono nel circuito tradizionale dei media. Solo in pochi casi la notizia ha davvero l’entità che percepiamo noi.

Una volta si diceva grassroots journalism e si faceva sui blog, ora bastano 140 caratteri per lanciare un urlo che, se il nostro network è abbastanza grosso e abbastanza suscettibile, non rimarrà solo. Dovremmo però imparare ad evitare di gridare “Al lupo! Al lupo!” e sconfessare i media se non premiano  la nostra voglia di protagonismo. Bene per la nascita dal basso dell’informazione; male, anzi malissimo, per il volersi sentire centro dell’universo.

Giornalisti, blogger e redattori di Wikipedia

Metà dei quotidiani al mondo hanno ironizzato sul fatto che l’altra metà abbia ripreso, senza nessuna verifica, una citazione errata da Wikipedia inserita appositamente da uno studente dublinese per evidenziare a tutto il mondo esattamente il tranello in cui i giornali sono caduti ed in cui, in effetti, cadono con preoccupante frequenza. Molti blogger hanno così iniziato a dubitare della qualità delle voci di Wikipedia, rischiando il tipico fenomeno del bambino gettato via con l’acqua sporca.

Il circolo vizioso è auto-evidente: un redattore qualsiasi, magari un anonimo in malafede, inserisce un contenuto falso o comunque non documentato su Wikipedia su una voce che, qualche tempo dopo, risulterà particolarmente di attualità. In quel momento la voce verrà consultata da milioni di lettori in tutto il mondo, blogger e giornalisti compresi. Questi ultimi lo riprenderanno sui propri articoli e presto un altro redattore citerà quegli articoli come fonti “attendibili” su Wikipedia stessa.

Un vero e proprio circuito, che permette ai blogger di lanciarsi in invettive contro i giornalisti. Il problema riscontrato è nella scarsa fiducia che i giornalisti hanno in sé stessi e la loro dimestichezza con ricrca e verifica delle fonti. Preferiscono, stressati dai tempi e dalle gerarchie dei giornali contemporanei, confondersi con gli utenti “qualsiasi” della Rete, abbandonarsi alle placide consuetudini che, nel tempo, si sono sedimentate tra blogger ed altri cittadini di queste terre.

Un'immagine da toothpastefordinner.com ripresa da Enrica Garzilli sul suo tumblelogQuesto ha inevitabilmente ibridato i ruoli e spinto molti blogger a considerarsi di pari dignità o addirittura più attendibili dei giornalisti, ritenuti superati e inutili come i loro giornali. Posizione del tutto sciocca, che deriva da una colpa di fondo di entrambe le parti in causa: i giornalisti hanno peccato di faciloneria, i blogger hanno peccato di presunzione. Questo scenario ha messo in luce i redattori di Wikipedia come enti terzi ed eterei, superiori a tutto e tutti, seguaci del santo Neutral point of view e della correttezza delle fonti. Posizione che però cozza col fatto che non siano onniscenti e pertando che Wikipedia non vuole e non debba essere l’unica fonte attendibile su questa Terra.

Forse sarebbe il momento che tutti tornassimo a fare il nostro mestiere o, quantomeno, a inseguire i nostri interessi senza volerli a forza trasformare in un lavoro. I giornalisti dovrebbero riscoprire il fascino del proprio lavoro, i blogger dovrebbero divertirsi nel tenere i propri diari e i redattori di Wikipedia dovrebbero concentrarsi sulla qualità delle voci piuttosto che sulle rigidità burocratiche. Poi, ognuno di noi potrebbe svolgere le tre attività nel corso della propria vita. Mai nello stesso momento, però.

Lo shift continuo di servizi e contenuti in Rete

Si discute molto di presunti svenimenti, morti apparenti e di qualche coma (ir?)reversibile di blog un tempo floridi ed oggi progressivamente abbandonati dagli autori, ormai migrati verso nuove piattaforme di gestione dei contenuti, ma soprattuto dai commentatori, che preferiscono interagire con i propri amici (e con gli autori dei contenuti un tempo presenti sui blog) con strumenti alternativi.

Siamo alle solite: è in corso un nuovo shift degli strumenti di comunicazione. Le e-mail, ormai travolte dallo spam, sono ormai sempre più sostituite dai messaggi privati (o addirittura pubblici) sui social network, Facebook in primis. Gli SMS, per quanto sempre più spesso forniti “gratis” dalle TelCo affogati in tariffe semi-flat, sono spesso sostiuiti da messaggi in broadcast stile Twitter.

Le segnalazioni di materiale interessante, che un tempo spadroneggiavano nei forum ed avevano costituito uno dei principali motivi di shift da questi ultimi all’egocentrismo dei blog, oggi vengono sempre più inserite sui tumblelog, che sono rapidi e ben incastrati tra loro (quelli di Tumblr in primis), in modo che sia il social network (a botte di reblog) a decretarne l’effettivo appeal.

Le conversazioni private, un tempo legate alla necessità di installare monumentali client (ricordiamo quel mattonazzo di ICQ), oggi vengono sempre più lanciate da browser, all’interno di siti che fanno anche altri mestieri  (è il caso della semre più usata chat di GMail). Le discussioni pubbliche, un tempo frequenti sotto i post sui blog, oggi montano (più) rapidamente su Friendfeed.

L’unico vero problema, con tutti questi shift, è sulla produzione di contenuti originali. Una volta svuotatisi delle noiose “segnalazioni veloci”, i blog dovevano rimanere i posti prediletti in cui inserire riflessioni e notizie importanti, per poi venire eventualmente ripresi, citati e commentati sulle altre piattaforme. Sulle quali, invece, si vedono sempre più citati i media tradizionali.

Chi sperava in una rivoluzione non può che rimanere deluso. Sotto la montagna di reblog, like, commenti e status update rimane da un lato tanto testo prodotto da molti quotidiani online e pochi blog superstiti, dall’altro una montagnina di immagini e video strappati da Flickr e YouTube, non sempre veri UGC. Arriverà presto un altro shift, c’è da esserne sicuri: ma i contenuti, chi li mette?

Corporate blog, corporate noia

Difficile stupirsi dei risultati della ricerca di Forrester Research che etichetta come “noiosi” i siti di 90 tra le principali multinazionali, con particolare attenzione all’uso disastroso dei corporate blog ed al loro notevole disinteresse presso l’utenza. Merito probabilmente anche del materiale utilizzato: per il 56% del campione, comunicati stampa.

L’eterno punto aperto è che non esiste un reale motivo per cui clienti e prospect dell’azienda possano realmente interessarsi alle sue sorti al punto da diventare lettori fedeli del suo blog istituzionale o di quello di un top manager che illustra le strategie aziendali tenendo in mente il target degli investitori e ovviamente si fa scrivere i post da terzi.

Che quello aziendale sia un mondo noioso è un’osservazione frequente; che non si riesca ad avere ogni giorno un nuovo prodotto o un nuovo servizio da comunicare, a meno di essere Google, è un fatto incontestabile. Di fatto, le aziende riescono ad attrarre l’attenzione degli stakeholders solo quando succede qualcosa di brutto, con tanto di Streisand effect.

Quando Aaron Uhrmacher su Mashable ha provato a suggerire argomenti affascinanti per i corporate blog, è riuscito a ritagliare le sue proposte su aziende giovani, dinamiche e possibilmente del mercato ICT. Poco o nulla degli spunti è davvero applicabile alle aziende europee, di qualsiasi dimensione: che possono farci, se sono così noiose non è colpa loro. O forse sì?