Ossessionati dal retargeting

Un giorno dovremo cospargerci il capo di cenere e riconoscere che con l’invasione del retargeting a 360° in giro per il Web il digital marketing ha fatto il salto dello squalo. Nel frattempo certo godiamoci i numeri che da più parti sembrano essere positivi: evidentemente i clienti sono pure contenti di essere ossessionati.

L’idea di fondo non è certo sbagliata: tutti noi disseminiamo carrelli mezzi pieni sulle piattaforme di e-commerce e avere un metodo per ricordarcene (e magari come spesso accade un piccolo incentivo per farlo) potrebbe essere quasi comodo, soprattutto se siamo già loggati e abbiamo dato consensi sensati.

Certo, avere la sfortuna di aprire un link su un social network su un item di Amazon e poi trovarsi quell’item in qualsiasi banner dell’universo non è esattamente piacevole. Eppure al gigante statunitense non dovrebbe mancare la tecnologia per capire che un articolo visto di sfuggita può essere davvero poco interessante.

Qualcuno l’ha interpretata in maniera ancora più aggressiva: basta cercare un volo su Alitalia.it da NON loggati e ricevere sull’e-mail associata al proprio profilo Alitalia un invito a riprendere la ricerca; per la cronaca, i link sono generici al sito, quindi in ogni caso la ricerca va reimpostata, senza garanzia di continuità sui prezzi.

Sono tentativi legittimi, ci mancherebbe, per incentivare un commercio elettronico in costante ascesa, ma che sembra sempre sotto il potenziale che non è difficile riconoscergli. Basta che poi gli editori non si lamentino del successo universale degli ad-blocker, quasi indispensabili per non impazzire con diagnosi ossessiva.

Il solito Ferragosto angosciante

Ecco i migliori auguri di Ferragosto ai lettori di .commEurope, sperando che siano per la quasi totalità in ferie.

La cosa potrebbe non essere così scontata: molti di noi stanno lavorando a pieno ritmo per inseguire una ripresa che non c’è.

I soliti influssi finanziari internazionali (Grecia prima, Cina poi) ci stanno avvelenando agosto, come tradizione nell’ultimo quinquennio.

Si preannuncia un autunno-inverno caldo: speriamo di trovare un po’ di relax quando gli altri lavoreranno, usciti o meno dalla crisi eterna.

Morandi il paciere social

Molti di noi non sono iscritti alla fan page su Facebook di Gianni Morandi, ma almeno uno dei nostri parenti o amici lo è. I numeri sono infatti monstre: superata con agilità la soglia del milione di like, la presenza ufficiale del cantante riesce ad attrarre lettori di tutte le età.

In alcuni casi è abbastanza scontato che non si tratti di fan musicali: ad attrarre è più la vita quotidiana del nostro eroe di provincia, che sostiene di leggere tutti i commenti alle sue foto quotidiane, scattate per la maggior parte in momenti di vita abbastanza comune.

Oltre a leggere, il bolognese più noto spesso risponde, apparentemente in prima persona, con una verve degna dei migliori community manager. Facebook è il suo terreno ideale: i tentativi di germinazione su altri social network come Instagram non hanno attecchito.

Alessandro Gilioli ha notato come il suo successo “social” sia legato alla sua capacità di spegnere, con una dialettica leggera e solo apparentemente ingenua, qualsiasi conflitto; qualità e necessità in tempi di conflitti accesi, cross-generazionali e inter-classe.

Morandi era già riuscito a imporre il suo stile ai suoi Festival di Sanremo, anche se ai tempi qualche critica la ricevette; oggi in quel posto c’è Carlo Conti, che invece opera a zero rischi, ma senza appunto la simpatia e la furbizia contadina del buon vecchio Gianni.

La forza del Leone

Prima o poi doveva succedere: l’affossamento del prezzo del petrolio ha tirato giù le quotazioni della regina di Piazza Affari dal suo ingresso, l’inossidabile Eni. Negli stessi mesi, le asfissianti politiche europee di rafforzamento delle banche sono riuscite a focalizzare la stabilità di alcuni degli Istituti maggiori: ecco svettare ora Intesa Sanpaolo come nuova azienda chiave.

Figlia di tradizioni “pesanti” come quelle della Banca Commerciale Italiana o di Sanpaolo, ma anche di centinaia di Istituti locali aggregati nel corso di un paio di decenni, Intesa Sanpaolo è senza dubbio la principale banca italiana: anche a livello di branding si sta consolidando, eliminando progressivamente alcuni dei vezzi loalistici dell’era della “banca dei territori”.

Ma a livello internazionale il suo nome è ancora piuttosto sconosciuto. Questo ne ha forse protetto l’azionariato al contrario di quanto successo per UniCredit, ormai marchio affermato in mezza Europa anche grazie a sponsorizzazioni molto evidenti (Champions League su tutte), che però copre dei soci un po’ dubbi e istituti comunque ancora estranei l’un l’altro.

Tra gli altri marchi storici della Borsa Italiana pochi si salvano. Fiat ormai non esiste più, relegata al ruolo di marchietto della galassia FCA. L’industria e il fashion sono praticamente rappresentati bene solo da Luxottica. L’alimentare non c’è proprio, se è vero che Ferrero o Barilla non sono nemmeno quotate. Di media e servizi si vede poco, sempre meno.

C’è solo una vera, solida eccezione: è Generali. Alla fine di fatto è l’unica vera azienda di origine italiana che, seppur con un azionariato sempre più internazionale, riesce ancora a portare in giro per il mondo un briciolo di sapore italiano. Il Leone è un marchio riconoscibilissimo nell’Europa dell’Est come in Asia, soprattutto in ambito assicurativo.

Che Dio salvi il felino di Trieste, dunque. Se non arriveranno nuove matricole significative (si parla di Ferrari e Versace, che sono però di fatto ormai aziende solo parzialmente italiane) oltre a Poste Italiane (che sarà un gigante, ma è l’essenza stessa del localismo), il nostro mercato azionario sarà sempre più un desolato listino di periferia, senza charme e rilevanza.

Eataly e Autogrill sono così diversi?

Quando si è iniziato a parlare del primo Eataly sulla rete autostradale, molti di noi hanno gridato allo scandalo. La catena di supermercati-con-ristorazione nei primi anni di vita era stata l’essenza stessa del radical chic alimentare e poco sembrava parlarsi con il basso profilo delle aree di sosta autostradali.

Eataly negli anni in realtà ha iniziato a comparire ovunque, in mille formati frammentati e a volte un po’ dubbi, apparendo nelle grandi città come 20 anni prima aveva fatto Autogrill coi ristoranti Ciao. La differenza qualitativa era comunque notevole, nulla da spartire nemmeno coi più popolari Brek e simili.

Intuito il successo, è stata Autogrill ad andare in direzione di Eataly. Il Bistrot Milano Centrale, l’Autogrill Villoresi Est, il Mercato del Duomo a Milano, lo Slow Food a Torino. Un cambio di stile notevole, unito da una maggiore attenzione a qualità dell’offerta ed eleganza, reali o percepite.

Oggi le cose non sembrano poi così distoniche. In fin dei conti sin dagli esordi Eataly e Autogrill condividono cibo overpriced sugli scaffali e capacità di combinare ristorazione e vendita al dettaglio. Prima avevano un’immagine agli antipodi, ora sono molto simili, almeno in alcuni dei loro punti vendita.

Certo il percorso verso la nobiltà per Autogrill è lungo e pericoloso: sul mass market non è così scontato che i prodotti DOP siano più attraenti dei classici panini congelati. Per Eataly la discesa agli inferi è solo all’inizio: la concorrenza la sta già cannibalizzando ancor prima di aver raggiunto l’apice.

Disclaimer e-mail e cookies

Luca Conti se l’era presa con i disclaimer in coda ai messaggi di posta elettronica: negli anni il motto di spirito o la citazione classici dei primi messaggi di posta erano stati sostituiti da ingombranti messaggi in legalese su diritti e doveri dei riceventi o sulle intestazioni giuridiche delle aziende dei mittenti.

Nel tempo si sono aggiunti i risultati degli antivirus ma anche immaginette sciocche coi loghi delle aziende, frutto di incredibili catene di finti allegati. Oggi non è difficile ricevere messaggi in cui l’e-mail è usata come una chat (“No”, “Ok”, “Ricevuto” etc.) con 9/10 del “volume” occupato da disclaimer.

Qualcosa di simile poi ha iniziato ad accadere con i siti Web. Proprio nella Gran Bretagna che ora parla di abolire i disclaimer sulle e-mail per prima abbiamo visto gli orripilanti banner sulla cookie policy. Da inizio giugno vale anche da noi: ogni sito dovrebbe averne uno, linkato alla propria privacy policy.

Qual è la reale efficacia di tutto ciò? A parte aver imbruttito notevolmente le esperienze utente di molti siti, nulla è cambiato: i più scaltri hanno inserito messaggi del tipo “basta che scrolli e hai accettato tutti i cookie possibili e immaginabili”, senza alcuna reale protezione dei lettori, abituali o casuali.

Sembra la solita attività per dare il modo agli editori di pararsi il sedere e continuare a fare esattamente ciò che facevano prima, non prima di aver messo in difficoltà migliaia di piccoli blogger o gestori di sitarelli vari la cui attività più estrema era raccogliere dati di base con Google Analytics.

Qualcuno ha lanciato delle petizioni per mettere fine a questo scempio, ma non è difficile immaginare che non si otterranno risultati: l’indirizzo generale è quello di scrivere lunghe dichiarazioni salva-condotti invece di mirare alla sostanza dei problemi, a livello europeo ma anche dei singoli Paesi.

Aspettando le future generazioni di Apple Watch

La recensione dell’Apple Watch su Wired.it è simpatica come spesso accade con gli articoli di Gianluca Neri, che sa alternare temi seri e scanzonati per poi mischiarli all’uopo. Restituisce l’idea di un prodotto che sarà l’ennesimo successo Apple, pur evidenziando qualche neo di gioventù. D’altronde se si confrontasse il primo iPhone e gli ultimi partoriti, si farebbe fatica a credere si tratti dello stesso prodotto.

Apple fa crescere davvero bene le sue creature, o almeno quelle in cui crede davvero. Se si scorresse il listone dei fallimenti di Apple, sarebbe facile accorgersi che le motivazioni sono quasi tutte riconducibili a due categorie: prodotti arrivati troppo presto sul mercato (Newton è senza dubbio il caso più noto) oppure tentativi di inseguire aree già presidiate, ma con i classici prezzi “premium” della casa della mela.

Presto l’Apple Watch verrà venduto nella quasi totalità dei paesi europei e già si parla di prenotazioni eccedenti la capacità di produzione; ma sarà questa prima edizione lo stesso shock culturale e tecnologico che erano stati iPod e iPhone rispetto ai terminali che li avevano preceduti? La situazione è forse più simile al lancio dell’iPad: si va a incidere su un mercato affollato pur “alleggerendo” il concept rispetto agli altri.

Ironia della sorte, il principale killer degli orologi da polso è stato proprio l’iPhone, che insieme ai miliardi di smartphone successivi distribuiti nel mondo ci ha fatto perdere l’abitudine di guardare l’ora alzando il braccio. Ora proprio Apple dovrà ridare forza a quel gesto, arricchendolo di nuove opportunità di utilizzo: in fin dei conti non si è sempre visto in tutti i film di fantascienza qualcuno parlare col proprio polso?

Noooo, logo!

Ogni tanto spunta un articolo come quello di Mental Floss che passano in rassegna casi emblematici di loghi infelici, spesso ri-edizioni di quelli usati per anni da brand di prestigio, amati da tutti e probabilmente proprio per questo ampiamente criticati nel momento del cambiamento.

In questi casi a volte il cambio è dovuto, magari perché il logo storico è relativo a un’azienda oggetto di M&A e si vuole opportuno dare visibilità al nuovo assetto; in altri è voluto dal management per “svecchiare” l’immagine del prodotto o dell’azienda, magari nell’ambito di una nuova brand image.

Ci sono un paio di casi italiani in cui il cambiamento è stato (all’apparenza) così limitato da aver creato malumori tra gli azionisti per il budget di revisione: il passaggio da bpu><Banca, ad esempio, ma soprattutto quello di Alitalia, che passò a una versione inclinata del lettering.

In queste settimane proprio la (ex) compagnia di bandiera è alle prese con una revisione della propria immagine: ci è stato promesso un nuovo logotipo ma anche qualche intervento più radicale sul modo di comunicare dell’azienda, che per fortuna non è dovuta passare da una tragedia à la Germanwings.

Aspettiamo incuriositi, sperando che i manager internazionali che la guidano siano un po’ più illuminati dei “padri” dei drammatici cambi di logo visti negli ultimi anni. In ogni caso poi li giudicheremo a valle per la capacità di innovare radicalmente il business, che è molto più importante del resto.

Customer survey?

C’è qualcosa di più invasivo, noioso e alienante delle customer survey? Via posta cartacea, al telefono, via e-mail o Web survey: praticamente nessuna si salva. Sono solitamente lunghe, frammentate e complesse e per la maggior parte dei casi non danno nessun vantaggio “concreto” a chi le compila.

Negli altri casi, quelli in cui un incentivo è previsto, sono viste come un espediente per ottenerlo: spesso vengono compilate di fretta e appunto con in testa la “bottom line” più che la qualità delle risposte o il loro approfondimento. E peraltro non necessariamente riflettendo davvero il parere del cliente.

Il Cliente soddisfatto, d’altronde, probabilmente ha poco da dire: ha pagato quello che riteneva il prezzo adeguato ed è appunto appagato dalla scelta. Quello insoddisfatto non perderebbe tempo a farle: avrebbe già gridato tutta la propria frustazione di persona o al telefono all’addetto di passaggio.

Eppure siamo tutti consci che è importante, anzi fondamentale, avere clienti soddisfatti. Ma riusciremo a inventare prima o poi un metodo meno invasivo? Riusciremo a convincerci che dopo centro crocette di customer survey i clienti si sentiranno più annoiati che coccolati e pieni di attenzione?

Complimenti a Zerocalcare

Attenderemo con grande curiosità gli esiti del Premio Strega 2015, che vede tra i candidati Dimentica il mio nome di Zerocalcare, edito dall’astro nascente dell’editoria italiana Bao Publishing. Non è la prima volta che un fumetto è candidato: l’anno scorso allo stesso step di selezione era arrivato Gipi.

Questa passione dei giurati per i fumetti non deve poi sorprendere tanto: a guardare le classifiche di vendita, sia di libri cartacei che digitali, opere come quelle dell’autore romano si trovano spesso nelle prime posizioni, con numeri proporzionalmente paragonabili a quelli dei grandi successi di narrativa.

In valore assoluto le vendite non sono enormi, ma d’altra parte è l’intero mercato editoriale a essersi ridotto al lumicino; ben vengano esordi (e riconferme, di volume in volume) come quelli di Zerocalcare per poter ridare il fiato all’intera filiera, al centro e ancor più nelle “periferie” dei punti vendita.

Il toccasana per le librerie ha recentemente toccato anche le edicole: ai redattori di Internazionale non deve essere sembrato vero dover procedere a una ristampa per il numero dedicato al reportage da Kobane realizzato con l’inconfondibile tratto e i testi di Mr. Reich, che ha vissuto l’esperienza in prima persona.

Complimenti dunque a Zerocalcare e a Bao Publishing per averlo saputo trasformare da fumettaro via Web ad autore professionale. Complimenti non solo per la qualità del lavoro, ma anche per lo stile di vita, un po’ a metà strada tra straight edge e centri sociali, che riesce a rappresentare senza retorica.