La coscienza di Lufthansa

Con che faccia guarderemo nei prossimi mesi le hostess che si sbracciano a indicare uscite di sicurezza e sentieri luminosi sapendo che il pericolo possa venire non da un’avaria tecnica ma da un gesto sconsiderato di chi è in cabina di pilotaggio? Con che atteggiamento affronteremo i già di per sé noiosi (e a volte ridicoli) controlli di sicurezza in aeroporto ricordando la mote di centinaia di persone non per colpa di un terrorista dotato di una bottiglietta di acqua minerale ma dello staff di una compagnia aerea blasonata?

Domande come queste, negli scorsi giorni, hanno sicuramente attraversato la mente di molti di noi negli scorsi giorni, frequent flyers in primis. Non è detto che qualcuno meno propenso al volo ora decida di smettere del tutto; ma chi vola abitualmente affronterà i prossimi viaggi con un sorriso di solidarietà in più rispetto al personale di volo delle compagnie di fiducia. Tra le quali, bisogna dire, perderà molta credibilità Lufthansa; non basta dire che il volo era Germanwings per cancellare le responsabilità della casa madre.

Sarebbe d’altronde come ammettere che Germanwings e la sorella Eurowings (quanta confusione di branding negli ultimi anni) fossero il tubo di scappamento in cui riversare personale problematico e aerei vecchi 20 anni. Cosa che non si vorrebbe mai pensare di uno dei principali gruppi dell’aviazione internazionale, che tiene in piedi quasi da solo la Star Alliance e che nelle proprie campagne si è sempre vantato della propria matrice di affidabilità teutonica. Che poi, alla prova dei fatti, si è rivelata piuttosto scarsa.

Tutti a dare addosso a Lubitz, quasi a voler nascondere l’aereo vetusto o i carichi di lavoro massacranti della compagnia wannabe-low cost del gruppo Lufthansa. Un maldestro tentativo di fare PR sulla pelle di un povero cristo per salvare la coscienza del management. Un rincorrere i giornalisti per far loro raccontare una versione dei fatti “ufficiale” quando le indagini sono appena iniziate e potrebbero avere esiti clamorosi. O forse averne nessuno, visto la disintegrazione dell’aereo, ma anche della nostra fiducia.

Addio FriendFeed

Dopo anni di sussurri e paure, il passo è stato formalizzato: dal 9 aprile 2015 FriendFeed chiude le porte. Anzi, Facebook chiude le porte di FriendFeed, visto che ormai da oltre un lustro il social network era un micro-servizio superstite da qualche migliaio di utenti attivi nella galassia di prodotti Facebook che ormai ragionano (almeno) in termini di centinaia di milioni di utenti.

Eppure a livello tecnico FriendFeed è stato il precursore di molte innovazioni poi apparse su Facebook (non a caso ai tempi dell’acquisizione il fondatore del primo divenne il CTO del secondo), costituendo dal punto di vista dell’esperienza utente un contenitore incomparabile di contenuti, senza distrazioni o features in eccesso, interamente utente-centrico nella sostanza.

In Italia poi aveva preso una vita tutta sua: dopo l’infatuazione iniziale da parte delle blogstar, che ne avevano fatto il loro punto di incontro prediletto, era poi diventato un crogiolo di micro-comunità e mini-celebrities. Un ambiente divertente, abbastanza unico nel suo genere, in cui profili personali, “stanze” super-specialistiche e post esterni si integravano alla perfezione.

Negli scorsi giorni c’è stata tanta tristezza da parte di chi ha vissuto la piattaforma in diversi momenti del suo ciclo di vita. Chi sta rimanendo fino all’ultimo, come avviene in ogni comunità virtuale morente, sono coloro che “ci tenevano” di più, quelli che sanno che quella piccola grande magia scomparirà per sempre. In attesa di un altro spazio, che sarà comunque diversissimo.

Il Web, il Mobile e Facebook

La sensazione, basata su esperienze del tutto soggettive ma sempre più frequenti, era nota da tempo: la fascia di utenti che utilizza Internet senza rendersene conto è in costante crescita. L’esplosione di massa dei social network da un lato e dei sistemi di instant messaging dall’altro sono state probabilmente le cause più eclatanti.

Oggi non è affatto raro incrociare utenti di tutte le età spergiurare di non usare Internet, ma poi vederli passare ore a sorridere sugli schermi di smartphone e tablet leggendo gli update di Facebook o WhatsApp; i package di telefonia mobile che ormai includono quasi sempre una mini-flat dati permettono loro di sentirsi “al sicuro”.

Gli effetti sono talvolta bizzarri: a volte questi utenti utilizzano giochi quasi costantemente connessi alla Rete senza rendersene conto; oppure, siamo al colmo, sono persone che dichiarano di non voler mai e poi mai utilizzare l’Internet Banking, ma sguazzano con semplicità nelle applicazioni di Mobile Banking/Mobile Payments.

Godiamoci l’aspetto positivo della faccenda: per quanto quasi inconsapevolmente, sta finalmente crescendo l’alfabetizzazione digitale di intere fasce di popolazione. Certo, resta il fatto che per raggiungerli bisogna cercare il modo giusto di parlare loro: perché non c’è app store o sito che tenga, loro usano Facebook, mica Internet.

Carlo Conti in sintonia col Paese

Come Fedez è stato considerato vincitore di X-Factor sedendo al banco dei giurati, Carlo Conti è sicuramente il vincitore dell’ultimo Festival di Sanremo pur essendone stato conduttore e direttore artistico. Non che sia la prima volta che accada: negli scorsi anni il livello non esattamente eccelso di molte canzoni ha fatto sì che a posteriori ricordassimo più il conduttore di quelle edizioni che i cantanti.

Eppure il caso di Carlo Conti non smette di stupire: non si tratta né di una delle mummie storiche della TV italiana che guidavano Sanremo fino a pochi anni fa, né uno dei conduttori radical-chic à la Fazio chiamati a reclutare nuovi spettatori. Il presentatore toscano è Rai Uno fatto persona, è l’uomo di decine di serate (e centinaia di pre-serali) l’anno, stavolta tirato a lustro per l’evento numero uno della rete.

Qualche mese fa, al debutto di una delle sue trasmissioni retrò, i giudizi qualitativi degli spettatori erano stati negativi: poi gli ascolti buoni, come quasi sempre gli succede. In altri casi (Tale e quale Show in primis) gli ascolti sono stati addirittura ottimi: merito probabilmente non dei piccoli scandali tipo Veronica Maya nuda, ma dell’effetto nostalgia coerente col target sempre più anziano del primo canale.

I critici televisivi hanno parlato di trionfo dell’uomo comune, di un approccio quasi populistico a scelte musicali e ospiti. I volumi impressionanti de Il Volo al televoto (solo le giurie hanno cercato di smussarlo) denotano che ormai Sanremo è un’appendice di un certo tipo di TV e cultura; persino le tante canzoni popolari-populistiche di Checco Silvestre hanno fatto fatica a raggiungere la stessa penetrazione.

Già negli scorsi anni si scriveva di Sanremo come specchio del Paese reale: quest’anno c’è stata piena sintonia tra voglia di rinascita economica e canzonette, tra governo toscano in carica e comici invitati. Certo, sono mancati guizzi di originalità o canzoni davvero indimenticabili: ma pochi sembrano essersene preoccupati, visti gli ascolti notevoli e gli osanna tributati da ogni dove al conduttore ovattato.

Più che il tumore potè la malainformazione

Probabilmente la notizia era troppo ghiotta per passare inosservata; un titolo a effetto veniva gratis e molte testate, sia online che cartacee, ne hanno approfittato. Sebbene i risultati pubblicati su Science fossero come sempre molto più complessi, i giornalisti li hanno sintetizzati con titoli come “Tumori, la ricerca shock: ne causa più la sfortuna che lo stile di vita” e similari.

Impossibile non cliccare: da un lato siamo tutti piuttosto spaventati dal cancro, che nelle sue mille declinazioni continua a essere la malattia più misteriosa e spesso incurabile; dall’altro quelli che tra noi adottano comportamenti da sempre ritenuti dai medici “a rischio”, aspettavano la notizia da rinfacciare agli amici alla prossima lamentela o suggerimento “antipatico”.

Qualche giornale più serio ha provato a chiedere conto ad altri ricercatori o sfoderare ricerche che arrivavano a conclusioni opposte, qualcuno ha detto che per “caso” si può intendere anche “fenomeno con valenza scientifica ma che non riusciamo ancora a spiegare razionalmente”. Ma il fatalismo ci piace tanto e i giornalisti sanno come solleticarlo per farci cose da irresponsabili.

Erano anni che medici e ricercatori scientifici si dedicavano a stilare classifiche delle cose da evitare o delle buone azioni quotidiane; ora in un sol colpo molti hanno rimosso la cautela: “se deve succedere…” “tanto…” “dicono che è un caso…” e così via. Non è solo un effetto immediato: tra mesi, forse anni, qualcuno citerà la ricerca a giustificare i propri comportamenti infelici.

Morti a Parigi, libertà di espressione e complottisti

Gli ultimi giorni sono stati pieni di tweet col tag #jesuischarlie e di vignette piene di matite spezzate; noi europei in prmis siamo rimasti molto colpiti dai 3 giorni di violenza cupa in Francia. Molti si sono spinti a definire la tragedia “l’11 settembre dell’Europa”: forse gli stessi che nel 2005 avevano etichettato come tale la strage nella metropolitana di Londra e l’anno prima la morte di 200 persone a Madrid. Sfortunatamente si ha la sensazione che la prima decade insanguinata del millennio non abbia insegnato nulla e che questa seconda decade non vada certo meglio.

La strumentalizzazione politica della strage nella redazione di Charlie Hebdo ha raggiunto livelli paradossali: a ergersi come paladini della libertà di stampa tanti personaggi, soprattutto di destra, che non aspettavano altro per sputare addosso ai credenti di religione musulmana, reclamando a gran voce la revisione di Schengen. Peccato che poi gli assassini fossero francesi e che i politici stessi negli scorsi anni avevano ampiamente demolito chi in Europa provasse a fare la stessa satira corrosiva: Carlo Freccero ha ricordato la fine infelice di Daniele Luttazzi.

Charlie Hebdo sparava inchiostro contro tutti e contro tutte le religioni; finita la fase di paladini-per-la-libertà-di-stampa ora ad esempio alcuni Cristiani stanno iniziando ad accorgersi di cosa fosse davvero il giornale. Il caso più curioso è quello di Daniela Santanchè, che si è proposta di editarlo in Italia, magari censurandolo giusto un po’; ma alla fine a pubblicarne il primo numero post-strage è stato Il Fatto Quotidiano, che della Santanchè potrebbe essere considerata la nemesi. Sulla storia del furto delle vignette da parte del Corriere della Sera meglio sorvolare.

Dopo l’attentato il Financial Times ha parlato apertamente di “Muslim baiting” sostenendo che il settimanale francese avesse fondato le proprie vendite negli ultimi anni sulla sistematica ridicolizzazione dell’Islam; ora è il momento di chi inizia a scrivere “un po’ se la sono cercata”, mentre da giorni a livello mondiale montano centinaia di articoli complottisti sulla strage, sui suoi mandanti e sui suoi esecutori. Retorica a parte, purtroppo non è vero che una penna è più forte di un kalashnikov; anche se fosse, peraltro, siamo più bravi a puntarcela contro da soli.

Buon anno di Fedez

A Capodanno 2012 in pochi in Italia conoscevano Fedez e chi oggi sostiene il contrario starebbe sicuramente bluffando. A Capodanno 2013 erano già molti di più: aveva vinto un po’ di premi su MTV Italia grazie alla sua divertente Faccio brutto, che parodiava (nel testo e nel videoclip) i classici internazionali hip hop. A Capodanno 2014 Fedez era ormai arrivato alle masse come quello di Alfonso Signorini (Eroe nazionale) e altri tormentoni, arrivato al disco di platino.

A Capodanno 2015 Fedez è l’uomo del momento. Ha iniziato l’anno strombazzando l’apertura della nuova etichetta Newtopia facendo alzare sopraccigli tra gli addetti; in estate ha lanciato l’inno del Movimento 5 Stelle ottenendo visibilità tra gli insospettabili; in autunno ha dominato l’ultima edizione di X-Factor, accaparrandosi i migliori talenti per la propria etichetta e surclassando gli altri giudici. Nel frattempo, tanti singoli e videoclip di successo, di generi molto diversi.

Al di là della potenziale deriva politica (comunque difesa efficacemente come libertà di pensiero), i testi delle canzoni di Fedez sono da sempre divertenti ma anche relativamente profondi; la novità del giorno è che il Fedez-pensiero si estende non solo nelle tante interviste e sui social network, ma si può ritrovare anche su Il Fatto Quotidiano. Anche in questo caso ironia, stile e freschezza sono mescolati per portare avanti messaggi maturi e molto contemporanei.

Non fate quella faccia: che siate radical chic o amanti del rap old school, fate un passo indietro e provate a ragionare su quanto Fedez sia un buon esempio per tutti i suoi coetanei. A soli 25 anni è riuscito a costruire e investire un patrimonio, a crearsi e diffondere le proprie idee, ad affermarsi pubblicamente come persona buona (cfr. storia della ragazzina obesa difesa dai potenti) ma scaltra. Come probabilmente si addice a ogni buon imprenditore, al di là dell’industry.

Fiat negli USA

Mentre si affastellano notizie sul titolo FCA e sull’eventuale quotazione di Ferrari in Borsa, le attività delle innumerevoli case automobilistiche (o forse bisognerebbe dire dei marchi, vista la virtualizzazione del concetto originale) appartenenti alla galassia Fiat-Chrysler continuano con alti e bassi, in un mercato ormai probabilmente in decrescita strutturale e non sufficientemente ancora sostenuto dalle alimentazioni alternative al petrolio.

Per il mondo ex-Chrysler l’avvicinamento a Fiat è stato un toccasana per ripartire dopo il semi-fallimento e penetrare più profondamente in Europa; per Fiat e le sue sorelle di matrice italiana per ora la strada ritsulta molto più in salita. Lo sbarco negli Stati Uniti è sembrato sino ad ora più un’iniziativa di natura finanziaria che l’effettivo ritorno in massa su un mercato più volte testato e abbandonato; ma non si può dire che non ci stiano provando.

In autunno il mercato d’oltreoceano era rimasto decisamente colpito dallo spot di una 500 che “prende” una pillola di Viagra e diventa un mini-SUV; lo spot si è visto girare parecchio in Rete e poi è approdato anche in Europa. Prima era stato il momento delle Gif animate: dopo aver lanciato un tumblelog mantenuto ben aggiornato ancora oggi, Fiat USA aveva realizzato anche degli spot assemblando Gif prodotte low cost ma molto d’effetto.

Una bella dose di innovazione rispetto alle tracce di comunicazione pubblicitaria degli scorsi anni: qualcuno ricorderà il pomposo lancio della Grande Punto una decina di anni fa, Richard Gere santone per Lancia, o il tremendo spot con Oh Marie remixata. Oggi finalmente siamo di fronte a una multinazionale che comunica in maniera professionale su tutti i canali, con accento internazionale. Chissà come andranno le vendite, almeno negli Stati Uniti.

Sugar Daddies e teenager su Tumblr

Una settimana sì e una no girano su giornali e blog i commenti a Sugar Daddies, la piattaforma che “mette in contatto” signori benestanti e studentesse del college alla ricerca di fondi per andare avanti negli studi. Le storie raccontate (valga come esempio l’articolo di Caroline Kitchener su The Atlantic) non sono particolarmente edificanti: al di là del tentativo dei gestori della piattaforma di dare un tocco glamour alla faccenda, si tratta di prostituzione.

L’intento sarebbe nobile: aiutare fanciulle in difficoltà a costruirsi una carriera, magari in un’università prestigiosa, senza costringerle a versare le tasse di iscrizione che, soprattutto negli Stati Uniti, hanno raggiunto cifre folli. Anche l’auto-descrizione dei finanziatori è elegante e molti si descrivono come manager in carriera, poi in realtà i veri ricchi son piuttosto pochi: non si rovinerebbero la reputazione adescando ragazzine su finti siti di dating.

Non è poi così sorprendente che una studentessa universitaria possa prendere in considerazione l’idea; magari la stessa ragazzina pochi anni fa pubblicava sul proprio tumblelog immagini erotiche così, senza particolare impegno. Non è per fare i moralisti: basta scorrere la dashboard di Tumblr avendo sottoscritto profili di ragazzini “normali” per arrossire di fronte a una clamorosa deriva “erotica”, anche se per la maggior parte dei casi “soft”.

Si tratta di qualcosa di più di un trend passeggero; è un vero e proprio cambiamento. Qualche tempo fa da queste parti ci si interrogava se fosse effetto di MTV; ora sembra quasi il contrario, nel senso che è ormai la realtà ad aver superato le rappresentazioni sui media e i media stessi corrono appresso a questi fenomeni cercando di dar loro la patina cool. Ed è così che una settimana sì e una no girano su giornali e blog i commenti a Sugar Daddies.

Food pubblico

Marchi come Olio Dante e Cirio hanno poco bisogno di presentazione. Brand come Orogel e Pomì hanno investito tanto in pubblicità (qualche volta un po’ infelice); altri come Rigoni di Asiago sono cresciuti col passaparola grazie alla qualità dei prodotti. Il filo che li unisce tutti è il loro rapporto, in termini di equity o di credito, con la società pubblica Isa.

Si tratta di una finanziaria totalmente controllata dal Ministero delle politiche agricole alimentari e forestali italiano, che negli anni ha affiancato le società proprietarie dei marchi nella crescita a livello nazionale e internazionale; un ruolo simile a quello del Fondo strategico della Cassa Depositi e Prestiti, molto interessato all’agro-alimentare.

D’altronde si parla del secondo settore industriale italiano e quindi ci può stare che gli attori pubblici cerchino di sostenerlo; fa però un po’ impressione il peso crescente che queste società parapubbliche stanno assumendo. L’unica consolazione è che non possano per statuto investire in aziende in perdita, quindi teoricamente non sono soldi buttati.

Dopo gli anni in cui i marchi alimentari finivano a nastro nelle mani delle multinazionali (Nestlè e Unilever hanno fatto razzia), il tentativo è di riportare in Italia fondi e manodopera. Il che è un tentativo onorevole, anche se il sospetto di aiuti di stato è comunque piuttosto forte; prima o poi arriverà l’ennesima multa da parte delle istituzioni europee.

Chi non pensa proprio a investire in Italia sono i big del settore: Ferrero ha appena investito in Turchia per assicurarsi nocciole per sempre; Barilla ha appena chiuso il contratto aziendale con dipendenti, ma non annuncia acquisizioni rilevanti da anni dopo le numerose fatte all’estero. Le quotate in Borsa, come La Doria, sono comunque nanerottole.

Sarebbe bello che ci fossero imprenditori capaci di investire nel settore, anche a costo di credere nel consolidamento: storie di successo come Grandi Salumifici Italiani dimostrano che piccole realtà unite riescono a diventare attori rilevanti. Il marketing può aiutare a differenziare le singole identità, non bisogna aver paura di cedere un po’ di potere.