Bancarotta virtuale e fallimenti reali

La mente corre a qualche anno fa: Zivago e Giacomelli Sport offrivano degli interessanti programma di affiliazione ai partner italiani, qualche utente comprava e tanti pubblicitari mangiavano… Zivago fallì poco dopo: Feltrinelli ed Espresso si erano stufati di buttare soldi. Gli amministratori straordinari inviarono pagamenti da 2-3 Euro ai partner che avevano raccolto commissioni.

Giacomelli, invece, era solo l’emanazione on line di un gruppo ben radicato nella grande distribuzione: uno dei leader europei del settore sportivo, con marchi in Italia come Longoni o, appunto, Giacomelli. Zivago, almeno, ebbe il buon senso di non quotarsi in borsa: Giacomelli l’ha fatto nell’estate 2001.

Tornando ad oggi, la notizia che colpisce è quella dell’arresto del management dell’azienda sportiva, fondatore compreso. Si parla di 500 milioni di Euro di debiti e di 2.100 fornitori che hanno chiesto il fallimento. Ma, soprattutto, di quasi 300 persone in cassa integrazione.

OK, non era un’azienda “del mondo virtuale”. Ma era una delle tante che aveva cercato di succhiare il sangue dall’e-commerce, in un momento in cui la Rete sembrava non decollare. Un’altra croce rossa sulla lista. Sperando che sia l’ultima.

Tutti sul carro della musica on line

Dopo George Michael, è ora il turno di David Bowie nel voler “giocare” con la propria visione della musica on line, del copyright, del modo di fare soldi o meno. In termini di istrionici personaggi britannici mancherebbe solo Peter Gabriel: ma d’altra parte già dal 1999 quest’ultimo ha investito soldi ed idee sulla musica in Rete, lanciando Od2.

Il punto è che, nel bene (quale?) e nel male (quale?), la musica in Rete inizia ad essere davvero un affare. Probabilmente non per Napster, un nome che per gli Internauti ormai vuol dire poco o nulla (lo usano solo i giornalisti quando devono riferire di qualche nuovo P2P). Difficile la strada anche per Real Networks, il cui Rhapsody è arrivato forse troppo tardi su un mercato già saturo. Meriterebbe una benedizione anche Rosso Alice, che a prezzi improbabili per il mercato italiano vuole vendere entertainment ai suoi ADSListi, notoriamente abbonatisi per scaricare a più non posso dai sistemi free.

Chi, invece, straccia i concorrenti è Apple, che non solo ha saputo imporre lo standard de facto nei lettori MP3 con iPod, ma che soprattutto, con una strategia intelligente ed “universale”, ha messo iTunes, dopo appena un anno di vita, saldamente in testa alla (redditizia) gara.

Attenzione ai numeri, però. La solita Pew ha stimato 2,6 milioni di contatti mensili per iTunes e 23 milioni di utenti P2P. Ci sarà mai il sorpasso?

Comunicare la memoria

Una foto di Anna FrankIl prossimo 12 giugno ricorre il settantacinquesimo anniversario della nascita di Anne Frank, l’eterna ragazzina (purtroppo) simbolo della barbarie nazista. La Fondazione a lei intitolata rinnova il sito ufficiale con un look’n’feel essenziale ed elegante, arricchendolo ulteriormente di informazioni utili a comprendere l’importanza storica della testimonianza di Anne.Leggendo il comunicato ufficiale dell’evento colpiscono soprattutto due cose:

  • l’impegno costante di Miep Gies, una donna che i lettori del Diario ricorderanno bene; oggi ha 95 anni, ma è una navigatrice convinta;
  • l’uso dei contenuti multimediali, in particolare del video inedito che ritrae un’Anne Frank sorridente che osserva incuriosita i preparativi di un matrimonio.

L’unione dei due elementi, la testimonianza storica ed il potenziale tecnologico di oggi, sono la speranza che, in futuro, l’importanza della memoria non venga sottovalutata. Anzi, che una volta che i testimoni diretti ci avranno lasciato, proprio le tecnologie ci aiuteranno a ricordarne i messaggi.

Per ora, la tecnologia sembra solo vagare tra fughe in avanti e passi indietro: pochi in Italia avranno probabilmente notato la bizzarra strategia di Microsoft nell’inserire e poi cancellare svastica e croce di David dai propri font

L’acqua calda fa notizia

Spadroneggia da diversi giorni, su Google News, una notizia che, semplicemente, non è una notizia. Nonostante sia stata diffusa da AdnKronos, Ansa e Reuters, la buona novella di un servizio per gestire blog fotografici non contiene niente di nuovo né in termini di blogosfera, né in termini di diffusione in Italia: Splinder ospita decine di “fotoblog”.

C’è da supporre che i tre studenti veronesi autori della piattaforma Fotolog abbiano saputo gestire meglio di tanti altri i canali dell’informazione: una volta che una “notizia” raggiunge le agenzie, automaticamente viene ripresa da decine di portali, ma anche linkata in Google News e, soprattutto, citata da chissà quanti bloggers.

Massimo Mantellini, ad esempio, ha semplicemente deriso l’idea: tuttavia, probabilmente, quel post (e questo qui, ovviamente), serviranno principalmente ad aumentare la notorietà di Fotolog. Che, in realtà, non è un “blog fotografico”, ma una piattaforma che cerca di vendere gadget personalizzati con tanto di immagini “bloggate”, da sé o da altri. Non così diversamente da tanti altri che, in un modo o nell’altro, sul termine “blog” stanno speculando allegramente…

Le sventure di Google arrivano in Europa

Avevamo già parlato molti mesi fa dei rumors sull’incipiente arrivo di Google nel mercato della posta elettronica. Ed è avvenuto: il primo aprile ci hanno stupito ancora una volta con i dettagli dell’operazione

Da lì in poi, però, è iniziato un calvario impressionante. La stessa azienda che appena pochi mesi fa aveva vinto il titolo di migliore brand 2003 imponendosi su marchi come Apple, Coca Cola, Samsung, proprio quella che da sempre riceve entusiastici commenti sulla propria immagine chiara ed essenziale, stavolta si è messa in un guaio più grande del previsto, proprio con lo stesso servizio che si sperava aprisse finalmente la strada verso la tanto rinviata quotazione in Borsa.

Prima la guerra verso le presunte vessazioni alla privacy aveva preso corpo negli Stati Uniti: Google era corsa ai ripari, mostrandosi disponibile a modificare parzialmente i contenuti della licenza. Negli scorsi giorni, autorevoli personaggi USA come Tim O’Reilly hanno criticato il tormentone. Ora, la fantomatica organizzazione Privacy International si lancia in una diffusa azione di protesta, con tanto di una lettera inoltrata alle autorità delegate in molti paesi Europei.

Il documento è interessante, perché cerca di spiegare nei dettagli cosa può e cosa potrebbe fare GMail. L’unica cosa che forse sfugge all’associazione è che, purtroppo, i concorrenti di Google fanno ben di peggio. Tra spam e pubblicità mirata, forse la seconda è un filino più utile. E tra chi dichiara apertamente le proprie strategie e chi le nasconde nei contratti di sottroscrizione da cliccare on line, forse vince Google, ancora una volta. Chissà se lo studente Sergey Brin, quando lanciò il suo servizio di ricerche con Larry Page, avrebbe lontanamente immaginato tutto questo putiferio…

I britannici, gli italiani e le comunità di toothers

Non si parla d’altro, nel mondo virtuale europeo: una serie di articoli sui principali quotidiani (in Italia ha provveduto La Repubblica) ha diffuso presso il grande pubblico la tecnica del toothing, presentato come moda che impera sui mezzi pubblici britannici. L’idea è semplice ma divertente: abbattere l’enorme noia dei viaggi da pendolari attraverso l’invio di messaggi, tramite tecnologia Bluetooth, a cellulari, PDA, notebook delle altre persone presenti nel mezzo. La finalità, però, non è tanto parlottare, ma dedicarsi ad un passatempo decisamente più avvincente: la domanda esplicita, “Toothing?” è un invito a dedicarsi, magari nella toilette, ad atti sessuali.

L’idea, insomma, non è creare una specie di comunità basata su interessi professionali o personali: si tratta di stabilire rapporti uno-ad-uno nel minor tempo possibile, magari inoltrando l’invito all’ingrosso. Qualcuno abboccherà: la noia è forte ed il tempo è tanto. A posteriori, la comunità la si costruisce on line: guidati da tale Toothy Toothing, i toothers scambiano consigli ed esperienze su un forum in lingua inglese. Qui inizia l’aspetto che colpisce di più: la comunità virtuale è diventata rapidamente internazionale, in base allo spazio che i media dei vari paesi hanno offerto al sistema di (diciamo così) abbordaggio tecnologico.

Così si scopre che gli italiani, in un lasso di tempo rapidissimo, hanno letteralmente riempito il forum. Se gli inglesi si dilettano a discutere di “etiquette”, gli italiani si lanciano subito in offerte a dir poco dirette. Allo stesso modo, mano a mano che tutta l’Europa scopre il fenomeno attraverso quotidiani cartacei ed on line, nuovi astanti partecipano alla discussione sul forum che, tra l’altro, in queste ore ha evidenti problemi di sovraccarico. Si tratta di una comunità particolare non solo per il tema dominante, ma anche per come è nata e cresce: del tutto guidata dai media, del tutto in totale evoluzione.

Quando a marzo Wired aveva parlato del fenomeno, le frecciatine andavano verso la “stranezza” degli inglesi: meno di un mese dopo, l’iniziativa sembra ormai interessare tutta l’Europa. I più attenti ai fenomeni della Rete scommettono che sarà una moda passeggera ed al prossimo articolo di costume nascerà una nuova moda ed una nuova comunità. L’esperimento, però, è istruttivo: vedremo cosa succederà quando le tecnologie di social networking permetteranno di condividere qualcosa di più di un’avventura sul treno. A quel punto, i confini tra comunità virtuali e condivisioni dal vivo saranno molto più sfumate di oggi.

Quanto vale cambiare il Mondo

Scrive oggi Risorse.net: «Premio milionario per Berners Lee». L’articolo è riferito al Millenium Technology Prize finlandese che, tra un paio di mesi, verrà assegnato al brillante direttore del W3C. “Milionario”?

Il portale in questione parla correttamente (il sito ufficiale conferma la cifra) di un premio di 1 milione di Euro. Molti altri siti italiani citano la cifra di 1,2 milioni di dollari, il cambio corrispondente. Dollari? Ma se il premio è finlandese, il premiato è britannico ed i portali in questione sono dedicato agli italiani, perché parlare di dollari?

Probabilmente perché la cifra in dollari viene immotivatamente proposta da alcune agenzie italiane… In questo turbinio di cifre si arriva a paradossi come quello di un articolo su L’Unità che nel titolo aumenta d’ufficio la cifra a due milioni di Euro e poi nell’articolo parla di 1,2 milioni di dollari: esattamente la metà dei 2,4 milioni di dollari cui i 2 milioni di Euro corrisponderebbero…

A parte il giochino delle cifre, è interessante notare che ognuno vorrebbe portare Berners-Lee dalla sua parte: gli utenti Mac, ad esempio, si spingono a considerarlo uno di loro e quindi, in qualche modo, vedono le loro macchine preferite come le madri naturali della Rete. Cosa che, a dire il vero, non sembra trovare molti riscontri nel mondo informatico attuale…

Il punto chiave, comunque, è un altro: in questa gara a tirare Berners Lee dalla propria parte, ci si dimentica che il buon quarantottenne vive dello stipendio del MIT di Boston. Di tutti i miliardi (di Euro, stavolta) che il Web ha fatto fatturare (e perdere, aggiungerebbe qualche critico), Berners Lee non ha raccolto nemmeno le briciole. Forse, da bravo inglese, sarà stato contento che, almeno, la sua invenzione gli abbia regalato, qualche mese fa, il titolo di Cavaliere dell’Impero Britannico… O forse ha preferito essere considerato una delle 100 persone più importanti dello scorso secolo?

Sic transit gloria mundi…

C’era una volta Tripod…

A metà anni Novanta, chi voleva pubblicare il suo sito gratis sul Web, probabilmente finiva nelle mani di Geocities, oggi uno dei tanti servizi di Yahoo!… In Italia regnava il Freeweb di Aspide, successivamente venduto a Dada. Nel frattempo era cresciuta molto Tripod: lo splendido archivio di Archive.org ci permette di vederne l’(elegante) home page nel 1996.

Tripod sposò Lycos, che a sua volta sposò Terra, l’ambizioso progetto di un portale “ispanico” worldwide. Il polpettone è cresciuto così tanto da aver tirato dentro anche Angelfire, concorrente di Tripod, poi mille altri servizi e servizietti.

Ma cos’è oggi Tripod? Prendiamo il caso italiano: uno dei tanti fornitori di spazi gratuito… Finita l’era in cui il vantaggio competitivo era nell’offrire “ben” 100 Megabyte, contro i 2 – 3 dei concorrenti. Oggi il servizio, in tutta Europa, non si distingue per nulla da tutti i concorrenti.

La gara, ormai, è a chi mette più pubblicità. Nella curiosa vicenda dell’hosting gratuito, la prima onda era stata quella dei banalissimi banner. Poi, in Italia, Francia ed altri paesi europei, la pubblicità era misteriosamente sparita: il vantaggio di pubblicare su Interfree, ad esempio, era quello di non avere messaggi e frame ingombranti. Ora siamo alla fase dei link testuali di Google, su Tripod come su Digiland e così via.

Comprare un dominio, ormai, costa veramente poco. Così chi finisce sui siti italiani ospitati da Tripod non solo si becca degli splendidi pop-up fino a 770*600 pixel (!), ma se curiosa nella lista dei “Tripodiani più esperti” riceve risultati esilaranti

Donne in vendita vs. dating

Per chi vuole ridere un po’, un giretto su DonneRusse.com potrebbe dare un bel po’ di spunti: ci sarebbe da chiedersi se la traduzione è autoctona o magari hanno anche pagato qualcuno…

In realtà, il giro di affari che c’è dietro questo tipo di sitarelli non è da sottovalutare: non a caso fioriscono concorrenti amanti della bagna cauda, in Europa e non. Dov’è il confine tra tratta delle donne ed agenzie matrimoniali?

Qualcuno sembra confondere ulteriormente le acque, scambiando servizi di dating come Meetic per vendita di uomini e donne: nel bene e nel male, i servizi del leader di origine francese sono tutt’altra cosa. Un business pulito, che macina utili. Tanti. Merito, probabilmente, del country manager, Massimo Moruzzi: famoso per il suo blog dot-coma, il talentuoso 31enne riesce a conciliare preferenze degli utenti e redditività: speriamo che molti prendano esempio…

Il futuro dei media secondo IBM

Negli scorsi giorni Forbes ha riportato la notizia di un interessante studio IBM a proposito dell’evoluzione del consumo di media in un futuro nemmeno troppo remoto.

L’idea di fondo è semplice, ma sintomatica di qualcosa in grande evoluzione da tempo: far convergere tutti i prodotti mediatici in un unico bundle, trasformare i “servizi” di cui usufruisce (ad esempio la proiezione cinematografica di un film) in “diritti”.

I motivi dell’evoluzione sono tanti: il successo del P2P, che ha segnato la prima grande onda di dematerializzazione dei prodotti multimediali; i costi crescenti della pubblicità, ormai necessaria non solo in caso dei lanci di un prodotto culturale (uscita nel cinema, pubblicazione dell’hard cover di un romanzo), ma anche delle sue successive evoluzioni (ad esempio l’offrire in DVD/VHS un film, il rieditare in tascabile un best seller).

Succederà? Con che velocità? A fine anni Novanta, il solito Grauso (che fine ha fatto?) era così convinto della morte imminente dei libri, da puntare molte risorse sul successo degli e-book, in particolare dei ”lettori” hardware. Un sistema editoriale che, in realtà, non è mai decollato sul serio. Menzione d’onore, piuttosto, ai tanti progetti europei come l’italiano Liber Liber o lo spagnolo Cervantes, che hanno sì dematerializzato i prodotti culturali, ma senza ingabbiarli in politiche di licenza eccessive…