Politiche di marketing e macroeconomia in pillole

C’è qualcosa di estremamente positivo nel pagare qualsiasi cosa con la carta di credito: a parte il non utilizzare i sudici contanti (che ormai molti usano solo saltuarimente per caricare la chiavetta dei distributori automatici), l’idea che la spesa in corso verrà addebitata non prima del decimo (o del 15°, o anche solo del 1°) giorno del mese successivo mette un po’ tutti nella condizione di immaginare qualsivoglia miracolo che, nelle settimane successive, stravolgerà (in positivo) il cash flow familiare. I markettari conoscono il brivido del plastic money e fioriscono ovunque offerte di carte di credito.

Il credito al consumo esalta ancor più l’aspetto favolistico promettendo che, solitamente a tasso zero, l’ultimo ritrovato dell’elettronica sarà nelle proprie mani entro pochi secondi, ma che il relativo costo verrà sostenuto in tante piccole rate da lì all’eternità. Le carte di credito revolving dovrebbero unire i due profili del furbo acquirente ed a ben vedere le offerte di carte di credito fanno parte di questo redditizio (per gli issuer) segmento: tuttavia, dal lato del consumatore, ci si accorge i tassi proibitivi fanno diventare le piccole rate progressivamente sempre più grosse e soprattutto, a mente fredda, il bene è costato notevolmente di più di un acquisto a saldo al giorno zero.

Questi pensieri affolleranno le menti di quelli italiani che devolveranno al saldo di tutte queste piccole e grandi rate, fino a quel primordiale acquisto d’impulso maledetto ogni giorno meglio conosciuto come mutuo, gran parte delle proprie tredicesime. L’altra parte di italiani, quella che vive di contratti a progetto e collaborazioni saltuarie, la tredicesima non sa nemmeno cosa sia: si accontenta di non consumare e basta. Anzi, per sicurezza, rimane a casa della mamma.

Lo dice anche l’articolo dell’Economist che in questi giorni ha scaldato il dibattito pubblico: un quadro assolutamente lucido che, contrariamente a quanto sostengono i politici italiani, contiene solo dati realisticamente corretti. C’è poco da essere entusiasti: dopo le crisi di inizio anni Novanta, quelle del decennio successivo ci fanno riflettere sul fatto che l’entusiasmo generalizzato della seconda metà degli anni Novanta era più un modo di auto-convincersi che l’economia potesse magicamente ripartire da sola, piuttosto che un vero momento di floridità.

Allo stesso modo, le strategie di marketing del futuro prossimo dovranno maggiormente tenere conto di questa sorta di indici di fiducia dei consumatori impliciti: per quanto ci si possa dedicare a nicchie redditizie, difficilmente si riuscirà a sfondare in mercati come quello italiano in cui persino la domanda di beni primari è fiacca. Tutti si domandano quale possa essere The Next Thing, il prossimo volano dell’economia mondiale: quella europea e quella italiana seguiranno come al solito a ruota. Sperando che arrivi presto.

L’IPTV non sta surclassando il DTT

Attira un sacco di attenzioni il titolo L’IPTV già surclassa il DTT apparso su Punto Informatico: quando è avvenuto questo sorpasso così rilevante? In che termini? Semplice: NON è avvenuto. Anzi, non c’è proprio correlazione tra le due tecnologie ed i relativi sviluppi, come testimonia l’incipit stesso dell’articolo:

«Non c’è alcuna relazione diretta tra il fronte incandescente della televisione digitale terrestre e la televisione veicolata via internet, se non fosse che quest’ultima sembra riscuotere molto più interesse da parte degli europei.»

Senza dati alla mano, è difficile valutare anche quest’ultima affermazione. Ciò che la ricerca presentata in questi giorni affronta è il solo mercato della televisione su protocolli internettiani, l’IPTV, appunto, e le sue prospettive nel medio termine. Tanto per cambiare, sembra di essere tornati indietro di 10 anni: scenari apocalittici (magari in senso positivo) che nel giro di pochi anni descrivono l’abbandono di abitudini radicate da decenni. Un po’ come quando si diceva che i giornali cartacei sarebbero spariti entro il 2002. Oggi, nel 2005, vengono lanciate nuove riviste dai nomi improbabili che vendono, solo in Italia, centinaia di migliaia di copie.

La ricerca è comunque interessante, anche se puzza un po’ la presunta avanguardia tecnologica europea rispetto agli Stati Uniti: vista la grande esperienza con la TV via cavo, sembrerebbe naturale quest’evoluzione anche da quella parte dell’Atlantico. Il fatto che sia ancora in fase sperimentale fa tornare alla mente gli insuccessi di WebTV, poi comprata da Microsoft forse più per il suo affascinante nome che per un’effettiva scelta strategica.

Gli operatori TLC europei comunque devono prendere fiato ed il triple play è di solito considerato la medicina perfetta. Certo, stimare una crescita da 0,6 a 8,7 milioni di clienti in meno di quattro anni ha un sapore da miracolo più che da stima. Se un Paese come la Gran Bretagna è ancora fermo a 30.000 sottoscrittori, solo un intervento divino potrebbe convincere così tanti europei che guardare la TV in formato francobollo ed a scatti sia meglio che spaparazzarsi davanti al televisore. Un intervento divino o, non si sa mai, una seria politica di miglioramento infrastrutturale delle Reti, con una svolta drastica verso l’IPv6.

Amori un po’ troppo virtuali

Qualche sospetto poteva venire notando la longevità del post di Stefano Hesse a proposito delle dubbie pratiche di fidelizzazione ed incentivazione adottate da un player italiano del florido mercato del dating: dopo sei mesi, l’attualità di questi temi viene sottolineata da nuovi commenti che cercano di mettere in guardia i potenziali acquirenti delle truffe adottate per farli iscrivere ai servizi o far loro rinnovare le quote di abbonamento.

Tuttavia, se qualcuno avesse ironizzato sulla “italianità” di questi espedienti da furbetti del quartierino del Web, ora dovrà scontrarsi contro uno scandalo di dimensioni sensibilmente maggiori: coinvolgendo Match.com e Yahoo! Personals, questa volta, le segnalazioni degli utenti alle autorità giudiziarie mettono in risalto il marcio che aleggia al fondo di questi business model basati su una sorta di volontaria tratta delle bianche. Idee imprenditoriali in cui le donne si candidano gratuitamente a ricevere centinaia di messaggi da parte di uomini che, al contrario, pagano profumatamente la possibilità di poter entrare in contatto con loro.

In un ambiente simile, la distinzione tra cliente pagata per rispondere e cliente che non paga per rispondere è più labile di quanto possa sembrare: tutto sommato, a nessuno interessa la felicità dei potenziali amanti, quando la redditività che ogni singolo galletto di periferia può garantire al sito di dating preferito. Ci si potrebbe augurare che tutti abbiano il fascino e la fortuna dell’Incontrista: non è difficile, al contrario, immaginare che per molti le “relazioni” si concludono con qualche breve incontro in chat o qualche messaggio sulle caselle blindate dei siti stessi.

L’Europa ha trovato i suoi campioni nel campo (Meetic è l’esempio migliore) e tutto sommato dovrebbe farci felici vedere iniziative di e-commerce che fatturano agevolmente in Euro a 6 – 7 zeri, ma al contrario tutto ciò fa molta tristezza: è la solita mercificazione dei corpi che trova nuove strade e nuove applicazioni. Come scriveva ieri Mr. [mini]marketing, la carne continua a vendere. Persino quando si virtualizza al punto da divenire irreale. Anzi, falsa.

Scalfarotto tra ignavia ed autoreferenzialità

Lo scriveva Luca Castelli qualche settimana fa: l’eccessiva autoreferenzialità di Ivan Scalfarotto e dei suoi proseliti ha fatto sì che, alla prova del fuoco del mondo reale, il boom prospettato da blog e giornali virtuali si sia sgonfiato clamorosamente. Nulla di diverso dal solito clamore sul crescente uso di Firefox, appunto.

Non è necessario entrare nel merito del fatto che Scalfarotto sia meglio di Mastella (non è difficile) o Firefox di Internet Explorer (nemmeno questo è difficile). Risulta senza dubbio più interessante riflettere sulla chiusura del blog di Scalfarotto ora, dopo la sbornia di commenti (tendenzialente negativi), stranamente (o forse no) successivi alla pubblicazione della notizia su Corriere.it. Forse i blogger si erano dimenticati di lui? Non erano più andati a leggere i suoi post dopo la clamorosa sconfitta?

Al contrario, sembrerebbe che dopo la (non) elezione si sia scatenata una gragnola di insulti, accuse e riflessioni non troppo eleganti contro il candidato. Il manager londinese non ha fatto una piega: lui ha tirato fuori “ben” 40.000 Euro per tirar su il suo sitarello con blog annesso e ha potuto quindi decidere in qualsiasi momento il destino di questo strumento di comunicazione con i suoi fan residui. Cosa succederà se, come ha auspicato, diventerà ministro in un eventuale Governo del centrosinistra? Chiuderà definitivamente il sito, per evitare critiche di spessore ben più serio sul suo operato? Lo riaprirà, come gli è stato suggerito, in modalità semi – nascosta à la Pecoraro Scanio?

In ogni caso, è pura ignavia. Ovviamente Scalfarotto non avrebbe mai potuto vincere né (con buona pace dei blogger) arrivare secondo. Ora gli vengono tirate le orecchie anche dai suoi amici come Sofri: poteva fare di meglio almeno nel salvare la faccia. La Rete non dimentica e non perdona: con questo gesto insensato si è bruciato anche il possibile sostegno di chi era riuscito a convincere nell’incredibile sforzo di abbandonare la tastiera per qualche ora ed andare nel mondo reale a votare. Sul serio: cosa voleva? Cosa vuole? Cosa vorrà?

La vendetta degli Editori sul Web

Già qualche anno fa, in piena bolla malefica, era facile notare come in Europa (ed in Italia in particolare) gli Editori tradizionali erano gli attori più vivaci della Rete. Quando i quotidiani contenevano ogni giorno (almeno) un CD di autoconfigurazione dell’accesso ad Internet, ognuno di loro faceva la gara a convincere più gente possibile a registrarsi ai servizi, vista la disastrosa credenza che un registrato valesse (allora) 2 milioni di ricavi (non di fatturato) sicuri in breve tempo (chissà come). Restano così indimenticabili i messaggi pubblicitari di KataWeb disseminati ovunque sulla copertina de La Repubblica. Chi non ricorda Jumpy che salterellava tra le riviste di zia Mondadori?

Anche se c’è poco da ricordare, una delle ultime meteore fu Concento, il portale lanciato dal Corriere della Sera quando ormai si era avviata la china della bolla. Era un’idea malsana e del tutto fuori tempo: ma sembrava un atto dovuto, per dire “vabbé, dovevamo farlo”. Ovviamente fu un flop clamoroso e presto finì nella galassia di Dada. In quegli anni, d’altra parte, RCS e Dada iniziavano a tessere legami forti, rispetto alla nascita fiorentina del provider toscano che determinava i suoi legami, anche societari, con Poligrafici Editoriali e MonRif.

Quando Dada era nata, in quella libreria del centro di Firenze come vuole la leggenda, era un ISP. Poi è diventata altro, crescendo a dismisura in alcuni settori e cambiando progressivamente business model: tutt’ora fa tanti mestieri diversi, ma i risultati del 2005 mostrano un forte aumento dei ricavi delle attività consumer, quali VAS su mobile e servizi di community (essenzialmente dating). Risulta poco chiaro, invece, cosa voglia fare dei servizi B2B: è sembrata una scelta opportuna per tutti gli attori coinvolti l’uscita da AdMaiora, rimane perplessità per l’aumento dell’impegno in Register.it.

La decisione di RCS Mediagroup di acquisire Dada, d’altra parte, va in tutt’altra direzione: è la rivincita dei contenuti sulla connettività, della parola sul bit. C’è da scommettere che è solo la prima mossa di un mercato editoriale che progressivamente prenderà la sua rivincita sul Web: la prossima mossa, è facile prevederlo, sarà del Gruppo Editoriale L’Espresso. Mosse dei concorrenti che dipenderanno, comunque, dal valore che Dada saprà portare alle attività quotidiane del grande gruppo di Via Solferino, sempre che i soci riescano a discutere di strategie e mercati pubblicitari in un Consiglio di Amministrazione con 13 membri. Restino in guardia le poche entità ancora indipendenti della Rete: gli Editori son tornati ed hanno sete di vendetta.

L’osso riflesso nello stagno è più pericoloso delle indigestioni

Lo insegnano le favole: il cane che nella speranza di fare il colpaccio ed ottenere anche l’osso riflesso nello stagno alla fine perderà quello che teneva saldamente in bocca. Così sembrano comportarsi le major discografiche che, ormai dimentiche di ciò che sono state le indigestioni commerciali del passato cercano di trattenere a sé i pochi acquirenti di dischi originali rimasti. Persone che vivono questa passione con difficoltà: devono pagare almeno una ventina di Euro per ottenere un CD che, nel migliore dei casi, non è fruibile nemmeno sul proprio PC personale.

Ci sono anche gli stereo fatti apposta per quello, diranno le nostre, spesso produttrici di hardware hi-fi. Osservazione banale, visto che ormai difficilmente il nostro povero melomane passerà le proprie giornate a fissare lo stereo comodamente sdraiato in salotto: probabilmente, proprio perché appassionato di musica, proverà ad utilizzare il suo prezioso CD nuovo ovunque, dall’auto al PC al lettore portatile. Realisticamente, avrà anzi ormai dimenticato quest’ultimo a favore di un banale MP3 player che gli consenta di scarrozzare in giro per il mondo la sua intera collezione di CD preziosi.

Il consumo della musica, è facile notarlo, è notevolmente cambiato. I sistemi anticopia delle major fanno o ridere o piangere, a seconda del proprio posto nella “catena alimentare” del consumo musicale: non riescono minimamente a scalfire lo strapotere di chi copia la musica per trarne profitto sulle bancarelle europee ma raggiungono il raggelante obiettivo di stremare il Cliente. In un impeto di irresponsabilità sociale, anche nella vecchia Europa arrivano le major ad adottare sistemi di dubbia qualità che eccedono nello zelo e non solo vietano la copia indiscriminata dei contenuti audio, ma per sicurezza installano anche preoccupanti software di controllo “nascosti”.

Ormai il caso Sony è scoppiato e l’immagine della società rischia di risentire pesantemente di questa ennesima “furbata” che, nella speranza di salvaguardare parzialmente il lato finanziario, distrugge completamente quello commerciale. I giornali ormai parlano di virus installati da Sony sui PC dei clienti e nel frattempo c’è chi approfitta dei buchi si sicurezza lasciati aperti per creare davvero dei trojan. Come sempre succede in queste brutte storie di malsana comunicazione aziendale, partono già le prime recriminazioni ufficiali dei Clienti dei 2 milioni di CD venduti: valeva davvero la pena di sottoporsi a tutto questo stillicidio mediatico per evitare qualche MP3 di troppo?

Un assaggio della stampa che accompagnerà Torino 2006

Leggendo l’ironico intervento su tòmitò-mitòmì a proposito dei disastrosi cantieri torinesi, ormai pienamente operativi persino nelle invernali domeniche di pioggia pur di arrivare ad un grano di minima decenza in vista delle ormai vicinissime Olimpiadi invernali di Torino 2006, torna in mente un articolo pubblicato qualche settimana fa sul Seattle Times, scritto al fine di descrivere gli stessi luoghi e gli stessi cantieri con gli occhi da americano in vacanza per gli americani in vacanza.

L’articolo è un ottimo esempio di ciò che ci toccherà leggere nei prossimi mesi a proposito della «land of Fiat, Tic Tacs, Nutella and Juventus»: un concentrato di notizie prese a casaccio dai motori di ricerca, dai depliant, dalle cartelle stampa, mescolato alle vaghe conoscenze geografico – culturali che i giornalisti internazionali hanno dei Paesi europei e delle loro città.

Cosa colpisce di Torino? Il fatto di essere a 2 ore di treno dalla Milano dell’Ultima Cena di Da Vinci (Il codice Da Vinci colpisce ancora) ed a 30 (?) miglia dalla Francia: d’altra parte scopriamo che il francese è la seconda lingua (ufficiale?) dei torinesi. Da non dimenticare, poi, le sue graziose attrazioni turistiche: il Palazzo Reale con la sua collezione di vasi cinesi (…) e la Sindone, che l’autore ipotizza poter essere, tanto per cambiare, un manufatto di Da Vinci o, come non ridere, la rappresentazione dello sportivo USA Johnny Damon (che stupida la guida a non capire la battuta).

Abituiamoci, perché alla fine anche i media europei arriveranno a scavare nell’assurdo pur di cavare un po’ di sangue dalla nobile rapa sabauda: improvvisamente scopriremo le mille sfaccettature dell’aristocratica Torino, in un crescendo di fervore comunicativo che, finite le Olimpiadi, smetterà all’improvviso per trasferirsi a Pechino. Speriamo che l’evento non sia vittima di eccesiva disorganizzazione: a molti italiani già fischiano le orecchie a proposito dei soliti luoghi comuni che li descrivono piacioni, mafiosi e ritardatari.

Viene voglia di vederci chiaro

Uno sguardo indiscreto alla campagna VorticeTondo e snello, il sedere che ammicca nella campagna della storica azienda Vortice, fa davvero voglia di far svanire l’umidità che ne filtra i contorni: le donne per un rapido benchmarking, gli uomini per ammirare le rotondità di un corpo evidentemente femminile e, si direbbe, molto giovane.

Tutto in regola, per un qualsiasi magazine italiano. Un po’ meno, visti i precedenti, per i lettori scandalizzati persino dai costumi da bagno del più venduto settimanale del nostro Paese, Famiglia Cristiana. Una rivista che ha fatto la storia del costume italiano, che ha seguito gli italiani nelle loro migrazioni nel mondo e li ha riaccolti quando sono tornati nelle regioni d’origine, mantenendo il ruolo di specchio fedele di quei valori che, nel bene e nel male, in Italia la fanno da padrone.

La scelta è destinata a far parlare tanto di sé, anche oltre i limiti dell’interesse che merita. Tanta pubblicità gratuita anche per l’azienda di aspiratori, storico investitore dei periodici paolini. In ogni caso, sembra le stia andando meglio rispetto alla Sony, rea di una campagna blasfema, almeno a giudicare dal parere di Don Antonio Sciortino che, guardacaso, è proprio il direttore di Famiglia Cristiana e sulla campagna Vortice interviene a spada tratta per difendere la sua scelta “editoriale”.

Due pesi e due misure? Conta di più un’ironia fine a sé stessa della liturgia religiosa o il tradimento più o meno velato dei valori strombazzati come fondamentali dai tradizionali(sti) lettori della rivista cattolica? Per ora, il risultato della campagna Vortice consiste nel far parlare tanto dei protagonisti coinvolti, direttamente e non. La campagna Sony, invece, è stata ritirata con tanto di promessa che “non succederà più”.

Sarà interessante, comunque, vedere le reazioni dei lettori del settimanale paolino: potremmo prevedere rubriche epistolari infuocate. Alla fine della fiera, probabilmente, nessuna copia venduta in più ma neanche in meno, nessun aspiratore venduto in più e nessun aspiratore in meno: sarebbe strano che qualcuno decidesse di boicottare giornale ed aspiratori, per quanto possa essere contrario alle scelte di Sciortino. Che a trarne vantaggio diventando famosa possa almeno essere la modella dal bel sedere?