Le grandi corporation informatiche affilano le unghie

L’Europa è invasa dalla campagna istituzionale di IBM: al grido di “I’m not like everybody else” delle aziende IBM risponde con una domanda cruciale, “Cosa ti rende speciale?“. Si tratta di una scelta di campo netta per il gigante blu: l’impostazione è ormai quella di una grande azienda di consulenza che integra tecnologia proprietaria di alto livello. Persino nello spot principale appare un giovanotto chiaramente vestito da consulente che canta il ritornello di tutto il resto del mondo business: zero apparati tecnologici, tante persone.

Negli Stati Uniti, Ballmer ha dichiarato che i nuovi software Microsoft serviranno proprio a far svolgere allo staff delle aziende i compiti che solitamente vengono svolti dai consulenti IBM: anche in questo caso la risposta sta in una massiccia campagna pubblicitaria da 500 milioni di dollari all’anno. Sarebbe anche ora che questi fantomatici software ce li facessero vedere: il mondo del business sta lavorando con un sistema operativo del 2001 (Microsoft Windows XP) ed un pacchetto software altrettanto vecchio (Microsoft Office 2002).

Hewlett Packard ha invece scelto la strada del Web: su Google appaiono gli annunci AdWords che pubblicizzano la campagna “Marketing in-house”, un insieme di iniziative che supportano i potenziali clienti (soprattutto small business, si direbbe) attraverso corsi di formazione sulle tecnologie informatiche più svariate (da Word a Photoshop), pubbliredazionali che propagandano i sistemi hardware a supporto del publishing prodotti da HP e template che risultino belli per le aziende e redditizi per HP stessa (visto il consumo industriale di inchiostro richiesto).

Il resto del mondo informatico si muove su binari più tradizionali, esaltando la qualità delle proprie soluzioni: se è vero che Oracle diffonde il suo verbo nel mondo sponsorizzando un team dell’America’s Cup, c’è sempre qualche azienda informatica pronta a parlare di quanto i propri software sono stati determinanti nel supportare lo sviluppo della relativa barca. Chissà come sceglierà di comunicare la propria invenzione la società che davvero svilupperà the next thing?

L’auto al centro del mondo

È stato annunciato in questi giorni l’apertura in Italia del BMW Training Center, un centro di eccellenza che concentra attività di formazione al personale e sviluppo del knowledge del proprio mercato di riferimento. In un segmento in cui i clienti scelgono Bmw come una religione più che come una passione, assisterli con professionisti di primo livello permette un’ulteriore fidelizzazione. Difficilmente c’è il rischio che cambino religione, facilmente li si potrà convincere a cambiare frequentemente la propria auto, inseguendo l’ultimo modello proposto dalla casa tedesca.

Volvo, Bmw, Alfa Romeo, Audi: ci sono marchi che riescono a mantenere i propri fedelissimi attraverso i decenni, accompagnandone la crescita attraverso l’evoluzione della propria gamma. Per quanto l’automobile sia un prodotto dannatamente industriale, è uno dei pochi oggetti del desiderio che riesce ad attrarre nerboruti maschi e farli sciogliere in brodo di giuggiole di fronte ad un cerchione. Le campagne pubblicitarie si adeguano e si specializzano: alcune aziende cercano di toccare i nervi sensibili della passione, altri marchi scelgono la strada del tecnicismo.

Strada comunque sempre meno battuta: che sia efficace o meno, la scelta delle case automobilistiche di alta gamma sta sempre più abbandonando il prodotto, lasciando alle auto più proletarie la comunicazione di prezzi, rate ed optional di serie. Per rivolgersi a chi mette l’auto al centro del mondo, c’è bisogno di comunicare con i sentimenti. Per chi invece la considera uno strumento di utilizzo quotidiano, conta più il climatizzatore che il rombo del motore. Di fatto, il mercato è diviso in due: di fatto, ci sono due mondi che si completano a vicenda.

Sarebbe bello che anche le case più modeste prendessero esempio dalla Bmw per puntare sulla qualità del servizio: alla fine continuano a concentrarsi sul prodotto, riducendo di qualche centesimo i costi introducendo qualche elemento plastico in più. In alcune fabbriche italiane, gli operai specializzati continueranno a produrre uno stesso pezzo ogni 8 minuti, impiegando un minuto per perfezionarlo e 7 minuti per discutere amabilmente: non c’è obiettivamente bisogno di produrne di più e vengono pagati per fare questo minimo, magari da una società interinale. L’auto è anche al centro del loro mondo: quanto basta per vivere.

Marketing del libro e critici criticati

Edmondo Berselli su La Repubblica ha pubblicato un’interessante riflessione sui circoli virtuosi (per il conto economico) e/o viziosi (per la qualità non sempre eccelsa) che il marketing del libro impone ai prodotti ritenuti meritevoli di un confronto col mercato: una parte infinitesimale delle migliaia di testi che arrivano sulle scrivanie degli editor, tra cui selezionare i nuovi blockbuster utili a far respirare i magri bilanci delle case editrici europee.

Il fatto che già arrivare sulle scrivanie degli editor richieda una sorta di pre-marketing da parte dell’autore è assodato: non è un caso che giornalisti, persone dello spettacolo e politici arrivino al momento giusto al posto giusto. Chi viene scelto per fare il grande passo, sa che è solo all’inizio del percorso: dovrà costruire prima la sua identità letteraria, poi provare a dare spessore alle peculiarità del testo. Chi ha già identità di altre nature, offrirà sicuramente una chance di più al suo editore.

Per far partire il passaparola, unico vero strumento di marketing efficace nel settore, nota Berselli, è necessario uno «scatto iniziale», un patrocinio da parte di chi, già affermato, riesce a convincere i propri proseliti della bontà di una nuova opera: ne è maestro, nota Gian Paolo Serino, il caporedattore del Corriere Antonio D’Orrico, che periodicamente lancia i bestseller nazionali in pompa magna: così come è successo qualche anno fa con Faletti, avviene oggi con tale Paolo Doni, prontamente smascherato come collega giornalista del Corriere della Sera stesso.

Non è questione di emettere fatwa scandalizzate su questa pratica: tutto sommato, è quanto succede da sempre anche nel resto del mondo culturale, con i critici che esaltano o deprimono spettacoli televisivi o cinematografici. Chi vuole dire la propria, può andare su FilmAgenda e su analoghi spazi di discussione collettiva ed indipendente: altrimenti, potrà scegliere di rimanere comodamente in poltrona ad ascoltare i pareri altrui. Sono sempre migliaia di singole scelte individuali, che poi portino o meno ad un grande montepremi di atti d’acquisto.

So tutto di te

È di qualche giorno fa la notizia che un giornalista di Chicago sia riuscito a ricostruire l’identità di migliaia di spie della CIA utilizzando servizi informativi disponibili sulla Rete, gratuitamente o a pagamento. Abbastanza scontata la sconvolta reazione delle autorità statunitensi: nel continuo sforzo di sapere di tutto di più delle abitudini di navigazione degli utenti Internet, scoprono di essere le prime vulnerabili. Doveri di comunicazione istituzionale da una parte e strumenti di ricerca delle informazioni dall’altra sembrerebbero una morsa (piacevolmente, a volte) fatale per chi vuole avere segreti a tutti i costi.

Una decina di anni fa, mentre anche in Europa Internet stava iniziando il suo percorso di eccellenza e notorietà, aveva destato sorpresa e preoccupazione la scoperta che InfoSpace, allora portalone informativo onnicomprensivo, potesse restituire i riferimenti telefonici e quindi geografici dei navigatori dei maggiori Paesi del mondo, linkati ad una cartina 2-D abbastanza precisa. Negli anni successivi, il servizio è diventato pressoché scontato anche in Europa: i principali fornitori di directories hanno iniziato a fornire gli stessi servizi confidando nella qualità e nell’aggiornamento dei propri dati, a volte in cooperazione con siti più specializzati sul mapping puro.

Dopo i picchi di precisione raggiunti negli scorsi anni, ora è iniziato il percorso inverso, dovuto alle più restrittive leggi sulla privacy e sulla disponibilità pubblica dei dati in via di adozione in tutta Europa: chiunque, anche in Italia, ha provato l’esperienza frustrante di non trovare più i numeri telefonici un tempo disponibili gratuitamente su diversi siti. Quello che invece sta esplodendo, al contrario, è la volontà di comunicare i propri dati urbi et orbi in maniera diversa: chi prima scriveva in chiave (semi)anonima su forum e newsgroup, oggi abitualmente ha un blog nel quale si firma con nome e cognome. Magari il blog ha un tono professionale e questo fa rapidamente intuire la professione dello scrivente: magari si seguono i suoi commenti disseminati in altri luoghi e se ne conferma ed amplia la conoscenza.

Sarà interessante vedere come la notevole capacità di visualizzazione delle informazioni di strumenti come Google Earth potrà progressivamente essere ampliata dal desiderio, magari proveniente dal basso, di comunicare le proprie informazioni e quelle dell’ambiente circostante, linkandole in maniera progressiva ed esaustiva. Sembra quasi di iniziare a vederlo, un mondo virtuale parallelo in cui le copie digitali di quello reale vengono completate con le informazioni disseminate per la Rete da chi quel mondo reale lo vive, al pari di quello digitale. Come tutte le tecnologie innovative, sembra utilizzare un approccio interessante ed utile: anche pericoloso, se utilizzato male.

 

Dialoghi e monologhi

Più che un vero dibattito, la diretta di domani sera con protagonisti i due candidati Premier italiani ha il sapore delle vecchi tribune politiche: un giornalista che fa domande preparate in anticipo ed ascolta il monologo di risposta del personaggio di turno. I portavoce l’han chiamato “dibattito all’americana” quasi a volerlo nobilitare, ma già oggi qualcuno l’ha smontato a priori: grande noia secondo alcuni, sforzo di finta neutralità per altri. Chissà come andrà l’audience: si è evitata la diretta a reti unificate, che era implicita nella proposta di Sky di ospitare gli incontri e mettere a disposizione il segnale agli altri canali, italiani e non.

Dopo gli imprevedibili (si fa per dire) esiti del finto dialogo tra Premier ed Annunziata, anche il finto – dibattito di domani rifletterà gli umori della campagna in corso: una battaglia continua che fa dei monologhi polemici il suo modus operandi. Basti guardare i messaggi passati dalla cartellonistica: Berlusconi che si staglia adolescente su scritte del tipo “Ritorno alla leva? No, grazie”, a voler affermare la propria visione positiva e liberatoria della cosa pubblica contro i programmi della sinistra (che parlerà davvero di ritorno alla leva?). L’altro monologo visivo è quello di Prodi: una foto sbiadita in cui il professore stende la mano verso i cittadini, quasi a volersi schernire. Altro che gesti di apertura.

Anche le parole del buon Professore sono sbagliate: scrivere “La serietà al Governo” è una scelta drastica, considerando che è indirizzata a quell’elettorato che 30 anni fa urlava “La fantasia al Potere”. Che si sia perso il valore del dialogo in favore dell’affermazione del sé è un dato di fatto: ma da sinistra ci si poteva aspettare uno sforzo di comunicazione migliore, un’apertura al dibattito vero, quello che coinvolge tutti gli strati sociali. Se persino la destra ha impostato una campagna “contro”, il vero punto di congiunzione delle varie campagne è che nessuno parla di ciò che vuol fare, quanto di quello che non vuole avvenga se vincerà la parte avversaria.

Si potrebbe leggere il programma elettorale, ma obbiettivamente il tomo del centrosinistra non è proprio uno sforzo di dialogo coi cittadini quanto, ancora una volta, un monologo tecnico. A destra il monologo assume toni populistici, ma non è una novità: almeno per salvare le apparenze, lo si sarebbe potuto far passare come frutto della raccolta di input da parte dei cittadini, piuttosto che come parto di pseudo – illustri politicanti destrorsi. Ora ci aspettano gli atti supremi: i doppi monologhi organizzati da Minum e Vespa. Non c’è nemmeno il pubblico in studio: la gente è del tutto un optional, nel grande e noioso spettacolo della politica unidirezionale.

Comunicare le idee alle aziende

È un terreno interessante, quello che si trova all’intersezione delle practice più valide di comunicazione interna e knowledge management: si tratta di quello spazio ricco di potenzialità ove confluiscono le idee più brillanti degli stakeholders aziendali. Frontiera non troppo conosciuta in Europa, che tuttavia sta trovando nuovi adepti nel resto del Mondo e, c’è da augurarselo, progressivamente prenderà piede anche nei nostri Paesi. Lo farà, forse, anche grazie ai testi sull’argomento ed ai manager brillanti che li leggono.

Valorizzare le idee, sapere costruire un flusso di comunicazione che le porti da un lato ai piani decisionali, dall’altro alla Ricerca & Sviluppo, sono competenze che i manager dovranno apprendere e far evolvere: ne va di mezzo non la scoperta del Grande Prodotto Che Farà Esplodere Il Fatturato Aziendale, ma il consolidamento della conoscenza e dell’esperienza su passato e presente in qualcosa di molto utile per il futuro. Le piccole aziende, almeno quelle non troppo devote al figlio del titolare come unico vate (tipico caso italiano), lo fanno da sempre: grazie alla comunicazione orizzontale tra i pochi collaboratori, le idee fluiscono rapide ed incisive.

Non è questione di positività o negatività degli effetti: a volte persino un pettegolezzo su un dipendente dell’azienda concorrente è più utile di un sofisticato sistema di monitoraggio del mercato. Le grandi organizzazioni continuano a lottare con la burocrazia ed invece di esserne avvantaggiate, ne sono sistematicamente vittime: quando le parole viaggiano su moduli intestati, le idee rimangono incastrate nei blocnotes (virtuali, magari), di chi le possiede. Rendere fluida la comunicazione pluridirezionale garantisce qualcosa di più della gratificazione dell’individuo, interno od esterno, che quelle idee le ha partorite: permette di valorizzarle e renderle valore.

Chi della comunicazione e delle idee fa il suo mestiere, sa cogliere il punto: esempio intelligente è quello di Open-Nòva, l’area open source de Il Sole 24 Ore che è appena stata aperta ai contributi dei lettori più giovani, escludendo gli over – 26. Una scelta che sa dove andare a parare: saper cogliere le idee non vuol dire creare calderoni di ideuzze ed informazioni, ma individuare chi potrà apportare quelle opportune, nel momento corretto, offrendo gli strumenti ed i megafoni per farlo. Liceali ed universitari attuali hanno molto da dire ai lettori del quotidiano economico: restiamo in ascolto, apriamo le orecchie alle nostre aziende.

Che fine hanno fatto le pornostar?

La locandina della Mostra su CicciolinaC’è stato un tempo in cui in Europa le pornostar erano continuamente sui palcoscenici più prestigiosi: negli anni Ottanta in Italia arrivavano persino in Parlamento, negli altri paesi europei spadroneggiavano sugli schermi televisivi. Tendenza in seguito importata in Italia, grazie alla generazione di Moana – Cicciolina: antesignane di un doppio ruolo vissuto nell’immaginario degli uomini nelle situazioni più estreme e contemporaneamente nei salotti televisivi.

L’assioma era semplice: chi sapeva rubare i sogni più intimi di notte, accumulava una notevole forza comunicativa di giorno, utile per poter interpretare ruoli non scontati e provocatori sui palcoscenici più illustri. Moana e le sue amiche non rappresentavano tanto l’idea delle “belle ed intelligenti”, quanto quella delle “sexy ma dotata di buon senso”. Basti pensare alla rilevanza che Moana Pozzi aveva assunto nell’immaginario culturale degli italiani, tanto da assurgere agli onori dell’imitazione del clan Dandini – Guzzanti. Populismo fatto carne, quello di Moana, che a posteriori è diventato santificazione.

Cicciolina aveva scelto un nuovo modo di comunicare: attraverso l’arte, che era entrata nella sua vita grazie al matrimonio con Jeff Koons, artista che l’aveva utilizzata come materia prima delle sue particolari opere d’arte. Non meraviglia tanto perciò che Ilona sia protagonista di una nuova mostra, questa volta fotografica. Si tratta, probabilmente, dell’ennesimo tentativo di ritrovare il suo posto nel mondo: una scelta che sa di voglia di vita più che di provocazione. Strana la vita delle pornostar, che sembra quella degli sportivi: facendo del proprio corpo il proprio lavoro, ad un certo punto scoprono che invecchiando il primo, perdono il secondo.

Una professione, quella dell’attore di film erotici, ormai svincolata dagli aloni della sporcizia da rimorso religioso. I protagonisti dei film hard dei padri diventano icone giocose per i figli: è l’ottica, probabilmente, con la quale si può leggere il riciclo di Rocco Siffredi in chiave pubblicitaria. La vecchiaia avanza ed è difficile immaginare che queste icone del sesso abbiano versato i contributi per la pensione: per quanti soldi possano girare nel mondo del sesso a pagamento, solo la minor parte arrivi agli attori, per quanto famosi. Il nome sopravvive al corpo: il buon Rocco potrà giocare col grande pubblico con doppi sensi e similari ancora per molti anni, mentre nell’ombra potrà produrre tutti i film hard che desidera e fa desiderare.

Sorpresa, Internet non tende all’infinito

Come tutte le nuove tecnologie e più di tutte le altre, essendo probabilmente la più importante, la Rete è stata in questi anni oggetto di numerose speculazioni in merito alla superba curva di crescita in termini di diffusione e potenzialità di connessione tra i suoi nodi. La legge di Metcalfe non ci ha deluso, visti i ritmi osservati negli ultimi dieci anni. Prima negli Stati Uniti, poi in Europa, successivamente nel Mondo, i tassi superlativi di crescita sono stati letti come segno del diffuso interesse per i contenuti prima proposti dai soliti media, poi progressivamente dai navigatori stessi.

Ritmi di crescita da favola, più che da tecnologia a base di cavi e server: chi credeva di aver trovato un fenomeno sovrannaturale, ora è incredulo alla notizia che negli Stati Uniti il ritmo della corsa è sensibilmente rallentato. Non potrà credere che un terzo delle famiglie statunitensi non è ancora connesso e che, soprattutto, la stragrande maggioranza di questo corposo spicchio non ha nessuna volontà di farlo. Solo il 4% lo fa per motivi economici, gli altri per puro disinteresse. La grande novità è che ormai la penetrazione si avvicina alla sua soglia critica e per superarla, sarà necessario un cambio di paradigma: molte cose, nel vissuto culturale Occidentale, dovranno maturare.

Siamo, infatti, troppo abituati ai classici mezzi di comunicazione per ammettere che il Web possa superarli con nonchalance ed affermarsi come il mezzo definitivo: ci nutriamo ancora alle fonti tradizionali, quelle che abbiamo conosciuto ed apprezzato nel ventesimo secolo. In Europa ed in Asia, probabilmente, siamo ancora un passo indietro rispetto agli Stati Uniti: è indubbio che presto si arriverà a livelli di penetrazione paragonabili alla soglia raggiunta negli Stati uniti ed è difficile immaginare che non siano gli Stati Uniti stessi a dover fare il primo passo per superarla e trascinare con sé il resto del Mondo.

I tifosi dell’ubiquitous computing sono avvisati: sarà difficile giustificare ciclopiche coperture di Rete, ora che ci si è accorti che un terzo della popolazione non ha alcun interesse per le potenzialità del Web. Sarà forse questo il motivo per cui la crisi di Google non suona del tutto nuova e soprattutto non sarà l’ultimo trillo. Il mercato pubblicitario non potrà crescere per sempre, in un mondo virtuale che non riesce a raggiungere davvero le masse: per quanto possa essere triste da ammettere, il Web dovrà scoprire il valore della quantità, oltre al suo attributo storico della qualità.