Di stratificazione in stratificazione

Chi è cresciuto negli anni Ottanta ha passato anni a cercare a decifrare incomprensibili espressioni degli adulti: slogan come “E mo’? Moplen!” e tanti altri che, nella loro cacofonia, sollevavano qualche dubbio sull’origine di frasi così “strane” ma anche così diffuse nel linguaggio di tutti i giorni. L’origine era spesso simile: si trattava di frasi pronunciate dalla generazione dei figli di Carosello che da quella meravigliosa esperienza infantile traevano parte della loro “creatività” nel linguaggio quotidiano. I pubblicitari stessi negli anni successivi hanno abbondantemente saccheggiato quel patrimonio disseminato dai loro “avi” professionali.

Succede ancora oggi, naturalmente: basta sussurrare qualche termine particolare e viene in mente il completamento dello slogan, indipendentemente dal suo effettivo collegamento alla marca: esperienza che in qualche modo ha sostituito, negli ultimi decenni, l’uso diffuso di citare i classici. Sempre meno citazioni in latino e sempre più brani di canzoni ed espressioni tratte dalla vita televisiva: indipendentemente dalla scolarità crescente, i media hanno evidentemente segnato profondamente le nostre menti più di quanto studiato a scuola. Il nozionismo, d’altronde, non è mai stato amato da nessuno.

In mezzo a queste enormi stratificazioni di frasi, immagini e suoni, ogni tanto spunta “qualcosa” che ci colpisce, che sembra particolarmente adatto al nostro colloquiare o a ciò che scriviamo: “Il lavoro rende liberi“, forse, sembra un buono slogan per un depliant pubblicitario. Peccato per le connotazioni storiche che comporta: la Provincia di Chieti ha fatto un notevole scivolone. C’è poco da giustificare: il nazismo è una delle peggiori sventure subite dal genere umano ed “Arbeit macht frei” è di fatto lo slogan ufficiale dei campi di concentramento. Colpa dei pubblicitari che hanno redatto la brochure o di chi l’ha approvata, poco importa: non doveva succedere.

Ciò che colpisce di questa storia, in effetti, non è solo l’utilizzo poco felice della frase, quanto le giustificazioni per il suo utilizzo: «Non ricordo dove lessi questa frase, ma fu una di quelle citazioni che ti fulminano all’istante perché raccontano un’immensa verità» spiega il Presidente della Provincia Tommaso Coletti, o ancora «Le parole hanno un significato in senso assoluto e non in relazione a chi le adopera, sennò tutto sarebbe opinabile», ma soprattutto: «Non sono mai andato ad Auschwitz o a visitare altri lager. Quella frase l’ho letta tempo fa su un manifesto elettorale». C’è da sperare che nessuno abbia davvero utilizzato una frase nazista per una campagna elettorale: a volte le parole sono simboli e tra una croce uncinata ed uno slogan nazista, l’accusa di apologia sta a metà strada.

C’è Intesa nell’aria

I due Consigli di Amministrazione l’hanno appena sancito ufficialmente: la mega-fusione tra SanPaolo Imi e Banca Intesa avverrà nel giro di pochi mesi. Nascerà qualcosa di ancora poco definito, ma dalle dimensioni mostruose: tutti guardano alle migliaia di filiali ed alle decine di migliaia di dipendenti, ma non vanno dimenticati anche l’impressionante AUM totale ed il potere sui mercati aziendale e Private. Non solo retail e soprattutto non solo banca: nel destino del nuovo Gruppo le società prodotto avranno un ruolo preponderante come produttrici e distributrici di prodotti e servizi di investimento.

Entrambe le aziende hanno scelto il partner giusto: solo la fusione dei numeri due e tre di un mercato può impensierire il leader ed in questo caso probabilmente superarlo, almeno sul mercato domestico. Poco da fare sul fronte internazionale: come al solito, le banche italiane sono nanerottoli che giocano a fondersi per sentirsi grandi. C’è bisogno di ulteriori spinte verso M&A ben calibrate: ormai l’invasione delle Banche straniere in Italia è realtà e sarebbe il caso di seguire il buon esempio di UniCredit e dei suoi investimenti internazionali. Non è solo questione di immagine: competere sui mercati europei vuol dire far muovere l’economia domestica grazie ai fondi internazionali.

Dal punto di vista del consumatore, c’è da sperare che la fusione possa servire a fare ordine tra le reti dei due Gruppi: se in questi giorni i media si sbracciano nel parlare della presenza ipertrofica in Lombardia e Piemonte, i clienti guardano gli sportelli sotto casa e vedono una messe di marchi, dal Banco di Napoli alla Cassa di Risparmio di Parma e Piacenza, dalle Casse di Risparmio venete alla Cassa di Risparmio di Fano. Sarà altrettanto curioso osservare l’evoluzione di aziende come Fideuram ed Eurizon, fino ad ora abbastanza autonome nel mondo di SanPaolo: chissà se i Clienti arriveranno a percepire qualcosa in comune a tutte le società del nuovo Gruppo, o le vedranno sempre come monadi eterodirette.

C’è chi usufruirà della fusione: consulenti e speculatori in primis. Finiti i botti, però, il successo dell’iniziativa sarà nelle mani del top management, soprattutto di quello commerciale: sarà importante affermarsi sul mercato per la qualità dell’offerta, non per la soffocante presenza di filiali in ogni angolo. Basta con la politica bizzarra di banca federale che sembra piacere tanto a Torino: si abbia il coraggio di prendere il meglio dai due Gruppi e rivendere sul mercato ciò che si ritiene superfluo. Tutto ciò farà bene al mercato: non si avvia solo una nuova serie di fusioni, ma anche una reale effervescenza concorrenziale.

Net Neutrality ora e sempre (anche se…)

Con una puntualità solitamente sconosciuta alle altre tematiche – tormentone della blogosfera europea (e non solo), quella della Net Neutrality coinvolge il popolo della Rete almeno una volta al mese: progressivamente tutti esprimono una propria posizione, in una sorta di confronto continuo sul futuro della Rete come veicolo di comunicazione e strumento di distribuzione di contenuti. Una sfida fondamentale allo status quo che vede in prima linea gli operatori di TLC da una parte ed il resto del mondo dall’altra.

In questa sfida “contro tutti” le grandi aziende che forniscono connettività sanno di avere il coltello dalla parte del manico: già hanno visto i loro profitti deprimersi nel corso degli anni, con l’aumentare della concorrenza e lo spostamento del traffico voce verso VoIP e telefonia mobile; ora si rendono conto che anche nel loro nuovo eldorado economico, la fornitura di banda larga, i prezzi devono essere sensibilmente abbassati, nonostante la crescita di qualità del servizio che favorisce ulteriormente l’esplosione del traffico P2P da un lato e dei contenuti Premium dall’altro; tuttavia sanno che, senza i loro cavi, la Rete stessa non esisterebbe.

L’ultimo contributo sul tema viene da Beppe Caravita, che riesce come sempre a coniugare il suo spirito utopico con la competenza economica che serve per interpretare un fenomeno così delicato che comporta non solo un forte dibattito su diritti e doveri degli utenti di Internet, ma anche grandi interessi economici. L’idea è quella di spingere l’iniziativa privata, ad esempio la condivisione delle reti wi-fi, per favorire la possibilità di connettersi anche a chi non vuole sobbarcarsi i costi imposti da content provider e TelCo. Di fatto, è un modo per renderesi conto che ormai non esiste più “una Internet”: accanto a quella tradizionale fatta di testi, e-mail ed immagini, ormai il traffico legato alla trasmissione di file multimediali e (video)telefonate VoIP impone una rilettura dell’intero impianto strutturale della Rete.

Le aziende di TLC vedono i grandi operatori del settore fare tanti soldini grazie al traffico che (s)vendono (cfr. il continuo tracciare le informazioni degli utenti da parte di Google) e gli utenti che sbraitano per livelli di servizio non adeguati: qualche tempo fa la soluzione sembrava l’IPv6, che tuttora è un affascinante progetto sulla carta. Ora, come ha notato Alessandro Longo, sono sempre più necessarie tecniche di traffic shaping, che garantiscano una qualità quantomeno sufficiente ai vari tipi di utente dei vari tipi di Rete. Il problema è che questo implica una fiducia nell'”onestà intellettuale” degli Operatori che visti gli interessi in gioco sarà sempre più difficile da immaginare in futuro.

Que reste-t-il de nos amours…

Terminata la sbornia della prima metà di luglio, cosa resta in Europa dei Mondiali di calcio? Dopo un mese abbondante dalla finale che ha regalato all’Italia un titolo conquistato più per scarsa partecipazione degli avversari che per effettiva superiorità in campo, su che eredità possiamo contare noi italiani? Dubbi al limite della retorica, che però sottendono effetti reali sull’immagine e la “spendibilità” della produzione italiana in giro per il mondo. Preoccupazioni che emergono non a causa della mancata vendita dell’orripilante merchandising ufficiale, quanto per gli effetti del calcio sull’economia reale.

Gli effetti visti sino ad ora non sono certo nell’ordine dei vari punti percentuali di crescita del Pil, anzi: come hanno notato gli analisti più attenti agli sforzi commerciali delle aziende italiane, l’aver umiliato paesi storicamente “clienti” dell’Italia, Francia e Germania in particolare, ha un potenziale effetto boomerang sulle nostre esportazioni, ulteriormente amplificato dalle non brillanti previsioni macroeconomiche sul biennio prossimo venturo. Escludendo Dolce e Gabbana, d’altronde, non ci sono state aziende italiane di calibro internazionale che hanno puntato sul possibile successo della Nazionale.

L’hanno fatto, sul mercato interno, più i fornitori della squadra (quelli di tipo alimentare in primis) che i veri sponsor ufficiali: se Mapei ha esposto qualche bandiera tricolore sulla sua sede milanese, Tim è rimasta chiusa in un silenzio assordante, pur essendo come al solito on air con svariate campagne commerciali. Idea probabilmente buona, visto il clamoroso fiasco della Nazionale alla prima uscita pubblica post-mondiali. Gli unici che ancora insistono nel ricordarci la vittoria ai Mondiali sono i content provider del mondo mobile, che sfruttano l’entusiasmo delle masse con le solite suonerie ad hoc.

Tuttavia, non basta storpiare una pur bella canzone dei White Stripes per far girare l’economia: l’unico aspetto veramente positivo resta la notevole crescita del mercato pubblicitario europeo e di quello italiano in particolare, grazie agli investimenti diretti in comunicazione, come al solito ai limiti dell’ambush marketing. Attività promozionale dagli effetti comunque tutti da verificare, con l’eccezione di poche realtà come Adidas, che hanno ovviamente usufruito di effetti concreti legati alla loro specializzazione sportiva. Per tutte le altre, c’è solo da aspettare: ma sorge il dubbio che, come ogni anno, il mercato verrà mosso più da eventi stagionali come la ripresa delle attività e le festività invernali, piuttosto che dal ricordo remoto di una partita di calcio.

Il PC muore dopo (almeno) 25 anni

Il Mondo festeggia l’IBM per il venticinquesimo anniversario di uno dei suoi più celebri calcolatori, quel 5150 che uno Charlot sui generis pubblicizzò per diverso tempo come irrinunciabile, primo ed indispensabile Personal Computer della storia. Più o meno un falso storico, visto che persino PCWorld, nel festeggiare l’evento, pone al top della classifica l’Apple II, nato diversi anni prima. Innegabile, comunque, che i successivi cloni dei sistemi IBM hanno segnato per tutti noi il paradigma del PC in senso stretto.

Paradigma che oggi è pressoché del tutto superato: di cassettoni rumorosi con monoscopi sopra se ne vedono sempre meno, per il bene dei nostri occhi e del nostro spazio vitale. Prevalgono ovunque i notebook, anche nel mondo Apple che grazie alla bellezza delle sue macchine sembrava essere un’oasi per gli amanti dei PC da scrivania. In un panorama tecnologico sempre più wireless, d’altronde, persino i cavi di alimentazione dei PC portatili appaiono di troppo. L’IBM stessa di PC non ne produce più ed è ormai un grande settore del mondo consulenziale più che un produttore di tecnologia.

Sorge il dubbio che, in realtà, non sia solo il PC come hardware “classico” ad essere superato, ma l’intero concetto di PC fine a sé stesso: per la maggior parte degli utilizzatori, il fine principale non è più quello di venti anni fa. Non si tratta più di utilizzare uno strumento per l’aumento della produttività individuale a mo’ di sostituto di calcolatrice e macchina da scrivere, quanto della principale porta di accesso al mondo delle (tele)comunicazioni: l’apparato che utilizziamo più spesso è ormai il modem, molto più di periferiche classiche come la stampante o altri strumenti che apparivano fondamentali appena qualche anno fa.

Il PC “che comunica” è più un ibrido di telefono, televisore ed impianto hi-fi che un reale pronipote del cubettone di Charlot. Entrano le onde della TV, escono CD contenenti musica e foto, entrano i filmati attraverso la videocamera digitale, escono microscopiche schedine di memoria contenenti quantità di dati un tempo persino inimmaginabili. Tutto ciò sempre più miniaturizzato e sempre più trasportato sulla versione moderna del nostro principale strumento di lavoro quotidiano: non più PC e notebook, ma palmari e smartphone. Leggeri e potenti: finalmente, veramente “personal”.

Piccolo è bello

Dopo qualche incertezza iniziale, anche le versioni localizzate per l’Europa di GMail Clips, il sistemino basato su RSS che propone microcontenuti random “per togliere la noia” durante la lettura della posta, sembra essere a regime: le notizie sono spesso interessanti o utili. La palma dei contenuti più curiosi va alle “Informazioni sul riciclaggio” (carta, plastica e non solo) che appaiono all’interno del Cestino.

Non è la prima e non sarà di certo l’ultima applicazione che si basa sui micro-contenuti che media grandi e piccoli dispensano via feed RSS: basterebbe dare un’occhiata a prodotti Java come RSS News Reader (anche in versione italiana) per comprendere come due righe di testo possano riassumere qualsivoglia notizia in maniera sovente efficace, ma sempre efficiente.

Il tempo è la risorsa critica per molti di noi e non sempre un articolo di un quotidiano o un servizio televisivo garantiscono un valore aggiunto superiore ad un dispaccio di agenzia, magari concentrato in poche righe: si spiega così il successo dei servizi informativi via SMS Premium o dello stesso Google News, che per molti è la chiave di accesso al mondo delle agenzie prima ancora che a quello dei media mainstream.

A questi ultimi, evidentemente, spetta il ruolo di garantire approfondimenti di qualità sui canali tradizionali e, onde salvaguardare il conto economico, di proporsi come fornitori di informazioni “brevi” sugli strumenti wireless. Quello che rimane un po’ più misterioso è il destino dei giornalisti: sempre e solo garanti dell’approfondimento oppure, ove necessario, nuovi specialisti dei micro-contenuti?

Trenta secondi di pura creatività

Lo sa anche chi non guarda la TV generalista italiana: a scatola chiusa si può scommettere che anche quest’anno, come tutte le estati, le reti Rai trasmetteranno lo storico spot del Pennello Cinghiale il cui slogan, «Non ci vuole un pennello grande ma un grande pennello», è entrato nel linguaggio comune e fa sicuramente parte del patrimonio culturale nazionale.

Considerazione non esagerata: in fin dei conti, nel momento in cui persino il Corriere dedica un commosso omaggio ad Ignazio Colnaghi ed al suo spot, la celebrazione è ormai al culmine. Si tratta del riconoscimento meritato da una micro-storia che è figlia della tradizione pubblicitaria europea più nobile: potremmo dire che è l’unico Carosello giunto sino ai nostri giorni.

L’altro spot protagonista dell’estate, come sempre, è quello della Cedrata Tassoni. La differenza non è tanto nella bruttezza oggettiva delle immagini della cascata o nell’evoluzione tecnica dello spot, che non è esattamente quello originale in termini di immagini e musica, quanto nella natura: sebbene lo slogan cantato rimanga impresso in mente, la mancanza di una storia non riesce a dare al prodotto (ed al suo marchio) la stessa aurea dell’amato pennello.

Se è difficile immaginare un grande mercato per la Tassoni e la sua cedrata (?), molti di noi sono stati convinti, dagli anni Ottanta in poi, che la Cinghiale fosse una sorta di multinazionale leader nel suo settore di nicchia: il merito è di quel pennellone che l’ha lanciata nel firmamento dei grandi marchi. Difficilmente, al prossimo passaggio in ferramenta, cercheremo pennelli diversi da quelli Cinghiale: lo faremo tutta la vita, anche quando, se mai avverrrà, non verrà più trasmesso lo spot.

Se la Coop sei tu, tu stai per diventare molto ricco

Riccardo Bagni, vicepresidente di Coop Italia, in una recente intervista ad ItaliaOggi ha posto l’accento sulla compatibilità ambientale come leva vincente nella strategia commerciale delle cooperative aderenti: è nota la preferenza per l’insegna leader nazionale da parte delle signore italiane, che sono tendenzialmente più attente ai valori etici trasmessi dal marchio piuttosto che alle offerte speciali che conquistano i loro mariti. La Coop non ha concorrenti in questo campo: i suoi soci sono disposti a pagare pur di avere una tessera di fidelizzazione, i suoi clienti amano acquistare i prodotti a marchio Coop, solitamente di qualità.

Accanto al business più tradizionale del commercio alimentare, tuttavia, Coop sta individuando nuovi settori competitivi in cui i margini siano più elevati: ecco perciò nascere nuove iniziative come librerie.coop, progetto che sta velocemente crescendo in Emilia Romagna e rappresenta la prima emanazione del Gruppo in termini di nuovi punti vendita specializzati. Ecco soprattutto il debutto in grande stile nel campo dei farmaceutici, con tanto di private label: un settore del tutto inesplorato dalla grande distribuzione, ma con margini potenzialmente alti.

Come se non bastasse, i giornali speculano sull’ipotesi che il primo operatore telefonico mobile virtuale italiano sia, nemmeno a dirlo, proprio Coop Italia, sull’esempio di quanto realizzato dall’omologa Svizzera in collaborazione con Orange. Uno scenario affascinante, che grazie alla forza di mercato di Coop potrebbe da un lato cambiare gli equilibri del mercato, dall’altra avviare una fase di vera concorrenza. Anche in questo caso, il fatturato potrebbe essere interessante per la Coop: non tanto per i margini, quanto per i potenziali volumi.

Ci sarebbe poco da meravigliarsi se il prossimo passo di Coop fosse, ad esempio, nella fornitura di benzina. Qualcuno ironizza sull’effervescenza della Coop in coincidenza con l’andata al potere del centrosinistra: malignità a parte, ciò che è vero (e non del tutto negativo), è la tendenza del nuovo Governo a favorire la crescita di un soggetto forte nel settore del commercio europeo. I grandi concorrenti francesi nel B2C e tedeschi nel B2B / discount stanno crescendo a passi veloci: sarà importante poter rispondere colpo su colpo in questi nuovi settori, già sperimentati con successo in Europa. Chi ne godrà, alla fine, sarà soprattutto il consumatore finale.