Starbucks in Italia ed altri sogni dei brand-maniaci

Una vignetta tratta dal blog 'Una Vignetta' di PV64

Campeggia oggi sull’home page di Repubblica.it l’articolo Quell’irresistibile voglia di global, di Laura Piccinini, vecchia conoscenza delle cronache di costume sui periodici femminili. L’articolo offre spunti interessanti, anche se a leggere i commenti ricevuti l’attenzione dei lettori si è orientata più verso lo stile “informale” dell’autrice che sulle notizie riportate: le dichiarazioni di alcuni degli interlocutori intervistati, tuttavia, meritano di non finire nel tritacarne. Sono infatti i manager di alcune delle aziende coinvolte nel (mancato) arrivo in Italia di molte delle più note catene retail internazionali, soprattutto di tipo alimentare.

A scandagliare la Rete, sembrerebbe che sia Starbucks la catena più sognata dagli italiani: due anni di commenti sul post di IMLog dedicato al tema, d’altra parte, potevano far sorgere qualche sospetto in merito. Analisti del frappuccino assaggiato oltreoceano o giovani amanti delle tazze localizzate dal caffè della medusa si scatenano da anni a discutere del perché Starbucks non voglia aprire le sue filiali da noi. Si va dalle ipotesi complottistiche alle elucubrazioni di buon senso, dalle teorie macroeconomiche alle tesi neo-global. Eppure, l’unica che convince è quella più banale: Starbucks ha bisogno di partner industriali all’altezza per aprire un’ampia rete di locali in franchising (vedi quanto fatto in Germania) e l’unico operatore specializzato in Italia, Autogrill, ha già ampi progetti in proprio per lo sviluppo dei propri caffè ad alto valore aggiunto. Chi non ricorda le vicessitudini di Gianluca Diegoli alle prese con gli AromAcafé?

Ovviamente, Starbucks non è l’unico sogno proibito: c’è chi rimpiange le ciambelle di Dunkin’ Donuts, che apparvero a Roma e dintorni per una breve stagione (tra lancio a fine anni Novanta e fallimento dell’azienda licenziataria nel 2002), ma anche chi invidia gli abitanti di Nizza, che a pochi kilometri dal confine italiano possono godere delle piccanti alette di pollo di Kentucky Fried Chicken, dei glaciali oggetti di arredamento di Habitat o delle improbabili pizze di Pizza Hut. C’è anche il flusso di ritorno: qualche paninaro nostalgico rimpiange i Burghy milanesi, gli storici fast food cannibalizzati da McDonald’s dopo essere stati per anni sotto il controllo pubblico, tramite l’holding alimentare SME.

Il logo di Coral Cola tratto dal film Shark TaleIl polso della Rete sembra invece restituire meno interesse per le catene di abbigliamento: dopo l’indigestione delle grandi catene italiane negli scorsi decenni, la recente invasione di spagnoli e nord-europei ha smorzato gli entusiasmi dei consumatori casual. Eppure, è proprio da quel settore che vengono i veri protagonisti della brand-mania: figli degli anni Ottanta, hanno ancora in mente le strategie per impietosire i negozianti al fine di ottenere vistosi gadget Levi’s o gli orripilanti adesivi del Camel Trophy appiccicati sulle auto dei fratelli maggiori. In fin dei conti, ad essere sinceri, siamo tutti un po’ brand-maniaci: difficile nasconderlo, quando ognuno di noi vede i marchi ritoccati in Shark Tale o Shrek 2 e ridacchia sentendoli come una foto goliardica di un amico di famiglia.

15 pensieri su “Starbucks in Italia ed altri sogni dei brand-maniaci

  1. Ma Burghy non era di Cremonini, quello della ciccia?
    Habitat me la ricordo, aveva aperto qualche pdv, non so se in franchising o altro, ma è durata poco.
    In effetti, anche io uno Starbucks dopo aver comprato all’Ikea me lo farei volentieri 🙂
    Ciao,
    gluca

  2. Riguardo a Burghy, ho cercato conferme sul sito Cremonini

    «Nel 1985, Cremonini si propone come protagonista dell’affermazione dei fast food in Italia con l’acquisizione dalla SME di una rete di 6 punti vendita, che nel giro di pochi anni arriverà ad essere costituita da 96 locali di ristorazione veloce con marchio Burghy.»

    I punti di Habitat li ricordo vagamente anch’io. Sull’argomento riprendo l’articolo della Piccinini citato in apertura…

    «C’è chi ricorda la fine di Habitat, la catena di mobili di Sir Terence Conran la cui apertura italiana fallì. Su Internet viaggia ancora il testamento di cessione del ramo d’azienda a Ikea Italia, che poi travasò nella società Ikano, sempre dello svedese Ingvar Kamprad. Due anni fa a un Salone del Mobile di Milano girò la leggenda urbana che Habitat stesse per riaprire: l’ufficio stampa Ikea e quello Ikano commentano ridendo e dicono che è come la leggenda dello sbarco di Harrods a Milano.»

  3. Guarda Giuseppe che Kentucky Fried Chicken c’era a Milano, io me lo ricordo, era nei mitici anni 70 e troooopppo avanti come idea tanto è vero sono stati costretti a chiudere. Erano dalle parti di via Sabotino, se non ricordo male.

    Per il resto mi associo a quanto detto da Valeria, ma ne sentiamo tanto la mancanza di queste catene?
    Non trovi che avremo piuttosto bisogno dei Tesco per rendere la GDO più moderna, o di più banche inglesi per rendere il servizio bancario più competitivo o di più catene come Decathlon per altre merceologie per abbassare i prezzi? Su Starbucks invece un pensierino lo faccio spesso 😉

  4. Riguardo alla presenza di KFC in Italia, in Rete ho trovato solo qualche traccia di una presenza fulminea a Roma: grazie per aver aggiunto l'”avvistamento” a Milano. 🙂

    Sul resto, visti i commenti mi rendo conto di non aver spiegato troppo bene la mia posizione: forse sono sembrato troppo positivo sul valore affettivo dei marchi, sottintendendo involontariamente un possibile giudizio sulle strategie commerciali delle relative reti commerciali.

    Al contrario di quanto forse è apparso ai più leggendo il post, sono abbastanza d’accordo con voi su “cosa è bene” e “cosa è male” per il mondo Retail italiano: interessante anche il fatto che tu abbia tirato in mezzo il mondo bancario, effettivamente sempre un po’ chiuso su sé stesso.

  5. Parlo da consumatore: se però vado a vedere le catene di negozi che stanno al top delle preferenze credo che andrei su Boots e Manufactum. Boots per indicare quel genere di negozio che non e’ una profumeria, non e’ un supermercato ma ha di tutto e di piu’ nel settore della profumeria/medicinali da banco e cura casa 🙂 un qualcosa che in Italia non esiste come non esiste, secondo me, una reale offerta nel settore cosmetico a livello grande distribuzione. Per fare un esempio mi viene in mente il make-up della Nivea. Allo stesso modo mi piacerebbe moltissimo aprisse qui Manufactum con i suoi prodotti artigianal-snob, l’aceto di birra ed i prodotti piu’ introvabili 😉

    Ciò non toglie che un bel frapuccino dopo tutto questo shopping non ci starebbe male 😀

  6. Il bello è che il fondatore di Starbucks dichiara di aver avuto l’idea di aprire una catene di caffetterie camminando in Corso Vittorio Emanuele a Milano.
    L’altra cosa interessante è che Autogrill ha in concessione il marchio Starbucks, che usa sulla rete autostradale americana…
    http://www.autogrill.com/attivita/marchi/marchilicenza/starbucks.aspx

    Impazzisco per il Caramel Frappuccino, ahimè devo attendere ancora tre settimane!

  7. Caro Giuseppe,
    Come noto Strabucks e molti altri molto probabilmente non entreranno mai in Italia a meno di pagare [a caro prezzo] punti vendita già avviati da riconvertire. Leclerc insegna.
    Un abbraccio.

  8. Ci sono posti in cui d’inverno sarebbe bello potersi prendere un caffè o un cappuccino o una cioccolata in confezione tipo Starbucks: tipo nelle stazioni, e poi poterselo portare sul treno…

  9. Pingback: Pingback dall'articolo » Saluti da Nizza

  10. Pingback: Pingback dall’articolo » Una nuova occhiata al .commEurope Zeitgeist

  11. Invece di aprire Starbucks che a me non piace xche non sa di niente, in Italia si potrebbe aprire un qualcosa di simile come ambiente, ma con nome e prodotti diversi e sicuramente più gustosi dei noiosi ed insipidi Starbucks di Londra… Lo stesso con KFC, che so, ICC Italia chips and chicken per esempio, con stile diverso e prezzi più abbordabili…

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