Wireless, ma non troppo

In questi giorni di eccitazione collettiva per l’iPad, gli Apple-maniaci si precipitano ad esaltare la capacità del nuovo terminale di abilitare nuovi modelli di comunicazione interpersonale in mobilità, spaziando dalle attività più ludiche al lavoro intenso dei professional, che finalmente hanno uno strumento di dimensioni sensate su cui lavorare rispetto agli schermi ed alle tastiere degli Smartphone che pur negli scorsi anni avevano contribuito a definire un nuovo paradigma di collaborazione a distanza.

Nulla di particolarmente diverso dagli UmPC già disponibili sul mercato negli scorsi anni, a dire il vero: l’iPad è costoso per un uso amatoriale, ma rispetto ai modelli meglio disegnati degli ultimi anni (un nome su tutti: HTC Shift) ha un prezzo relativamente più accessibile e soprattutto una migliore integrazione con le tecnologie dominanti del futuro, cloud computing in particolare. Il design fortemente wireless-centrico tipico della produzione Apple degli ultimi anni trova infatti nell’iPad il suo trionfo definitivo.

Come la maggior parte degli UmPC, Tablet PC e Smartphone evoluti visti sul mercato negli ultimi anni, tuttavia, l’iPad si scontra con un brutto crollo della batteria dopo poche ore di utilizzo intensivo: proprio le connessioni dati, quella UMTS in particolare, sono artefici di un consumo esasperato di energia; gli schermi, sempre più larghi e luminosi, fanno il resto. Si fa fatica a fidarsi di terminali potenti, ma troppo in balìa del litio per essere strumenti di lavoro affidabili su base continuativa.

Sono un po’ di anni che si discute della cosiddetta “wire-free power”, l’alimentazione a distanza, senza troppi risultati: i prodotti oggi disponibili sul mercato al massimo consentono di risparmiare qualche filo mettendo cellulari e altri gadget tecnologici su piastre caricatrici. Si tratta dello scoglio più grande che questi terminali (e poi a salire quelli energeticamente più impegnativi, quali i notebook) dovranno affrontare nei prossimi anni, per realizzare finalmente il sogno di un lavoro veramente wireless.

La crisi letale dell’editoria tradizionale

Chi si occupa di Investor Relations sa che c’è sempre una via d’uscita nel comunicare in maniera positiva la maggior parte delle situazioni: quando l’utile lordo non brilla si può citare l’Ebit, se l’Ebitda è in calo rispetto all’anno precedente si può esaltare la posizione finanziaria netta; se il fatturato è inferiore alle aspettative degli analisti, si può sottolineare che la propria performance negativa è comunque leggermente migliore a quella del proprio settore industriale di riferimento. Quando però anche il settore è in crisi profonda, c’è poco da sorridere.

Il rapporto La Stampa in Italia (2007-2009) della Federazione Italiana Editori Giornali cerca di dimostrare in maniera lucida in cosa consista la crisi dell’editoria in Italia ed in effetti il sorriso lo fa passare davvero. Tutti gli indicatori, anno su anno, in valore assoluto e spesso con percentuali a due cifre, sono in calo. Il Margine operativo lordo delle imprese editrici di giornali, ad esempio, in un solo anno (2009 vs. 2008) è crollato dell’89,7%; i loro ricavi pubblicitari sono diminuiti del 16,6%; le vendite medie giornaliere ormai sono sotto i 5 milioni.

Ci sono dei valori in crescita, a dire il vero, ma solo lato costi: basti dire che il costo del lavoro per addetto è decollato fino a oltre 107mila Euro, un valore incredibile se paragonato alla media delle altre società (51mila quelle industriali, 45mila quelle del terziario). Il tutto assume un carattere tragico, in considerazione del fatto che tutti noi, purtroppo, siamo a conoscenza di giornalisti, pubblicisti, operatori della comunicazione di seniority e percorsi diversi che negli ultimi anni hanno perso il lavoro o sono oggi costretti ad accettare contratti ridicoli.

L’associazione chiede aiuto al Governo, con incentivi fiscali e crediti d’imposta, scagliandosi violentemente da un lato col “saccheggio” operato da motori di ricerca e rassegne stampa radiotelevisive (!), ma anche col sistema postale che viene presentato come costoso ed inefficiente e con l’affollamento pubblicitario in televisione rispetto agli investitori in fuga dalle testate cartacee. La situazione è veramente drammatica, ma non ci sono grandi vie d’uscita e 9 cents che tengano: sembra di osservare il telegrafo soffrire per il sopravvento del telefono.

Uomini e cura del corpo

Dopo decenni di campagne pubblicitarie su cosmetici, cure di bellezze, trattamenti estetici di tutti i tipi per donne di tutte le età, negli ultimi anni si è iniziato a guardare con curiosità e interesse al mercato maschile. Se per le prime il margine di innovazione è sempre più limitato in termini di ricerca scientifica ed ancor più di marketing, sui secondi c’è tutto un sistema di prodotti, servizi ed immaginario in via di costruzione. E no, non si sta parlando dei ragazzini emo che ormai si truccano abitualmente tanto e quanto le coetanee.

Il mercato della cosmesi maschile, da anni stabilmente stimato in centinaia di milioni di Euro in ogni Paese europeo, è in realtà al palo ovunque: continua ad essere soprattutto legato a prodotti tradizionali e per di più sempre meno difficili da differenziare. La parte del leone la fa la rasatura del viso (ed i relativi danni all’epidermide dei più sensibili), la stella in ascesa è la sfida alla pancetta, le nicchie sono tante ma tutto sommato legate più ad eventi sporadici che ad una reale abitudine diffusa alla cura quotidiana del corpo.

Gli studi interpretano la crescente frequenza degli uomini negli studi dei chirurghi plastici come segno di un progressivo shift culturale verso una maggiore attenzione degli uomini al proprio corpo; i più pessimisti, ipotizzano che essere metrosexual ormai è addirittura demodé, visto che questa etichetta sopravvive da tre lustri ed identifica comunque sempre e solo un numero marginale di soggetti, sebbene sicuramente di profilo sociale (e soprattutto economico) particolarmente interessante per le aziende del settore.

Difficile negare che ci possa essere un reale interesse a curare, come amano dire gli spot, “i segni dell’invecchiamento e dello stress”; ma molti di noi hanno avuto esperienze a dir poco traumatiche in profumerie in cui commesse e commessi si limitano ad intendere gli uomini come polli da spennare suggerendo e impacchettando fragranze femminili da regalare. Nel frattempo, un numero crescente di prodotti cosmetici maschili si ammonticchiano nell’angolo in fondo a sinistra. Ma chi sa che esistono e a cosa servono?

Totti bifronte

Dopo i primi tempi con i ragazzi che lanciarono il motto Life is Now e un lungo periodo con Gennaro Gattuso e Francesco Totti, gli spot di Vodafone da oltre due anni e mezzo vedono quest’ultimo e la moglie Illary Blasi come coprotagonisti di una saga infinita: scenette divertenti, in cui prodotti e servizi del gestore telefonico vengono illustrati al grande pubblico. Obiettivo non facile, visto che alle promozioni di bundle telefonate/messaggi si sono affiancate (e sempre più sostituite) quelle relative all’offerta dati, compreso l’Internet Mobile che fino a qualche tempo fa era abitudine di pochi.

I due ci riescono, recitando gli script di 1861 United con fare leggiadro e naturale. Lei fa la figura della bella borgatara, lui quello dello sciocco buono: un mix che molti immaginano essere specchio della realtà quotidiana a casa della showgirl e del calciatore. E se l’immagine della prima è sufficientemente mantenuta fresca dalla sua partecipazione a programmi televisivi di culto come Le Iene, quella del secondo è ormai indissolubilmente legata al suo ruolo di Goodwill Ambassador dell’Unicef ed alla beneficienza, fatta con gli introiti dei suoi libri e persino coi diritti televisivi del matrimonio.

Ma oltre ad essere un uomo di spettacolo (ed un giocatore di poker, come ci ricordano gli spot PartyPoker.it in cui appare frequentemente negli ultimi mesi), Francesco Totti è anche e soprattutto un calciatore. Attaccante bravo ed efficace, fedele alla sua squadra ed ai suoi tifosi come pochissimi hanno saputo fare negli ultimi decenni. Personaggio che però, in campo, diventa anche un Mister Hyde da romanzo: si mette a sputare contro gli avversari, a gridare imprecazioni, a prendere a calci un calciatore della squadra avversaria, salvo poi pentirsi rapidamente sui giornali del giorno dopo.

Il Pupone, come viene affettuosamente chiamato Totti sin dagli esordi nella Roma, passa mesi a costruire un’immagine vincente in campo e affabile in televisione, poi periodicamente ne combina una delle sue e questo pregiudica molti aspetti della sua vita: saltano le convocazioni per le partite importanti, diminuisce la presenza negli spot, vengono ritirati gli inviti alle trasmissioni televisive. Dopo gli episodi degli ultimi giorni, anche questa volta Sisifo ricomincerà la sua salita: forse solo l’abbandono del campo e il passaggio definitivo allo spettacolo gli permetteranno di uscire dal circolo vizioso.

Expo 2015, che paura

Alberto Fattori ci sta raccontando, con dovizia di particolari, l’avventura dell’Esposizione Universale di Shangai 2010. Ha iniziato a farlo ormai molti anni fa ed ora è arrivato all’apoteosi dell’entusiasmo: l’evento ha avuto ufficialmente inizio ad inizio maggio sia nel mondo fisico, sia in quello virtuale. Si può infatti visitare 150 padiglioni via Internet, tramite un sito che recupera in digitale i fasti architettonici dell’Expo di Shangai. Fasti giustificati dal numero impressionante di visitatori attesi e dal record di stand presenti: 240, cioè due volte quelli presenti all’Esposizione Universale svoltasi cinque anni fa in Giappone.

I Cinesi sono perfezionisti, sopratutto quando si tratta di grandi eventi internazionali. Le Olimpiadi di Pechino 2008 passeranno alla storia ccome quelle più “fredde” di sempre, ma questo è stato dovuto anche alla volontà degli organizzatori di far girare il tutto con la massima puntualità. Con l’Expo 2010 sembrerebbe si sia cercato di calcare un po’ la mano sugli aspetti emozionali dei tanti padiglioni, ma non è difficile immaginare un’attenzione altrettanto esasperata per cura dei dettagli ed ospitalità nei confronti di turisti e partecipanti internazionali. Una macchina ben oliata, che vuole stupire a tutti i costi.

In questo tripudio di efficienza, un pensiero marginale prende corpo e si traduce in una vera e propria paura tra tutti gli Italiani che gravitano intorno a Milano: cosa succederà all’Expo 2015? Considerando le lungaggini burocratiche, le lotte di potere, i cantieri non ancora avviati, gli interessi economici in gioco, lo scarso appeal del tema portante, un brivido scende lungo la schiena di chi si prepara a cinque anni di forsennati lavori per recuperare il tempo perso rispetto all’assegnazione dell’evento a Milano, oltre due anni fa. Ci piace correre, sperando che questo voglia comunque dire preparare il tutto per bene.

Forse solo buttarla in caciara potrà salvare l’esposizione di Milano. Come al solito, passeremo per il popolo del volemose bene, che magari non prepara gli eventi nel dettaglio come fanno i Cinesi, ma ci mette tanto cuore. Il che è un bel problema, visto che le colate immense di cemento resteranno nel corso dei decenni e dovranno essere ben progettate per non divenire inutili come è successo alle infrastrutture di Torino 2006 o cadenti come quelle di Italia ’90. Forse solo l’esperienza dell’Esposizione Internazionale di Genova, col Porto Antico rinnovato ed il nuovo Acquario, lasciano qualche speranza.

Tuttavia, dalle Colombiadi del 1992 saranno passati oltre 20 anni ed il mondo sarà cambiato: ai tempi, andare ad un’esposizione internazionale voleva dire confrontarsi con mondi e popoli lontanissimi; ora bastano un paio di ore in Rete per saperne di più e meglio. Nessuno ha mai capito quanti visitatori ci furono: al di là degli 1,7 milioni ufficiali, emersero biglietti venduti per meno della metà, con tanto di dimissioni del Sindaco ed un buco di decine di miliardi di Lire. Ora sono in ballo miliardi di Euro e si parla di decine di decine di milioni di visitatori attesi, su una durata di appena sei mesi, a cavallo dell’estate.

Avevamo bisogno di questo evento, è vero. Come è avvenuto per Torino, anche Milano ha cercato in un evento di portata internazionale la motivazione per chiedere a voce alta nuovi fondi contro il declino industriale della città. Non è un caso che ora si parli di Roma e Venezia come candidate alle Olimpiadi del 2020, ancora una volta con l’obiettivo di rilanciare l’economia locale e nazionale. Non possiamo però illuderci che bastino questi picchi per rilanciare territori e immagine del Paese: anche perché, una volta che le opportunità ci vengono regalate, poi siamo bravissimi a giocarcele come dilettanti.