Aspettando le future generazioni di Apple Watch

La recensione dell’Apple Watch su Wired.it è simpatica come spesso accade con gli articoli di Gianluca Neri, che sa alternare temi seri e scanzonati per poi mischiarli all’uopo. Restituisce l’idea di un prodotto che sarà l’ennesimo successo Apple, pur evidenziando qualche neo di gioventù. D’altronde se si confrontasse il primo iPhone e gli ultimi partoriti, si farebbe fatica a credere si tratti dello stesso prodotto.

Apple fa crescere davvero bene le sue creature, o almeno quelle in cui crede davvero. Se si scorresse il listone dei fallimenti di Apple, sarebbe facile accorgersi che le motivazioni sono quasi tutte riconducibili a due categorie: prodotti arrivati troppo presto sul mercato (Newton è senza dubbio il caso più noto) oppure tentativi di inseguire aree già presidiate, ma con i classici prezzi “premium” della casa della mela.

Presto l’Apple Watch verrà venduto nella quasi totalità dei paesi europei e già si parla di prenotazioni eccedenti la capacità di produzione; ma sarà questa prima edizione lo stesso shock culturale e tecnologico che erano stati iPod e iPhone rispetto ai terminali che li avevano preceduti? La situazione è forse più simile al lancio dell’iPad: si va a incidere su un mercato affollato pur “alleggerendo” il concept rispetto agli altri.

Ironia della sorte, il principale killer degli orologi da polso è stato proprio l’iPhone, che insieme ai miliardi di smartphone successivi distribuiti nel mondo ci ha fatto perdere l’abitudine di guardare l’ora alzando il braccio. Ora proprio Apple dovrà ridare forza a quel gesto, arricchendolo di nuove opportunità di utilizzo: in fin dei conti non si è sempre visto in tutti i film di fantascienza qualcuno parlare col proprio polso?

Noooo, logo!

Ogni tanto spunta un articolo come quello di Mental Floss che passano in rassegna casi emblematici di loghi infelici, spesso ri-edizioni di quelli usati per anni da brand di prestigio, amati da tutti e probabilmente proprio per questo ampiamente criticati nel momento del cambiamento.

In questi casi a volte il cambio è dovuto, magari perché il logo storico è relativo a un’azienda oggetto di M&A e si vuole opportuno dare visibilità al nuovo assetto; in altri è voluto dal management per “svecchiare” l’immagine del prodotto o dell’azienda, magari nell’ambito di una nuova brand image.

Ci sono un paio di casi italiani in cui il cambiamento è stato (all’apparenza) così limitato da aver creato malumori tra gli azionisti per il budget di revisione: il passaggio da bpu><Banca, ad esempio, ma soprattutto quello di Alitalia, che passò a una versione inclinata del lettering.

In queste settimane proprio la (ex) compagnia di bandiera è alle prese con una revisione della propria immagine: ci è stato promesso un nuovo logotipo ma anche qualche intervento più radicale sul modo di comunicare dell’azienda, che per fortuna non è dovuta passare da una tragedia à la Germanwings.

Aspettiamo incuriositi, sperando che i manager internazionali che la guidano siano un po’ più illuminati dei “padri” dei drammatici cambi di logo visti negli ultimi anni. In ogni caso poi li giudicheremo a valle per la capacità di innovare radicalmente il business, che è molto più importante del resto.