La comunicazione di Eataly in tempi di crisi

La telenovela più lunga degli ultimi anni in ambito Retail è quella di Eataly Roma al Terminal Ostiense: uno spazio enorme per accogliere il consueto “mercato” di cibi di alta qualità, accompagnato stavolta da una quindicina tra ristoranti, birrificio, gelateria, friggitoria etcetera. Un notevole sforzo economico per la compagnia di maggior successo degli ultimi anni, una bella occasione di lavoro per molti romani.

Eataly non fa certo beneficenza, visti i margini importanti applicati su prodotti di tipo e qualità eterogenei, ma tendenzialmente più elevati rispetto agli standard della grande distribuzione. Eataly sicuramente fa cultura: ogni punto vendita ospita periodicamente eventi che vanno al di là del semplice corso di cucina for dummies. Eataly fa anche comunicazione a modo suo, nello stile “originale” di Oscar Farinetti.

Si consideri ad esempio il testo del manifesto intitolato «Almeno mangiamo e beviamo bene» presente attualmente nei suoi punti vendita

«In questo periodo di crisi conviene tenere alto il morale e reagire. Ormai il cibo rappresenta meno del 25% della spesa. Conviene risparmiare sul rimanente 75%. Inoltre il cibo ha subito meno rincari di altri prodotti in questi ultimi anni. Quello di alta qualità costa poco di più. Se decidi poi di mangiare e bere meno (che ti fa solo bene) spendi addirittura meno. Quindi vieni da Eataly, mangi e fai la spesa. Impari pure qualcosa e stai in buona compagnia.»

oppure un altro testo tratto da un altro manifesto visto più volte nei pressi degli ingressi Eataly

«Esiste un modo di magiare e bere di meno. I cibi di alta qualità di assaporano di più, si masticano più lentamente per trattenere i sapori. La sensazione di sazietà arriva prima e alla fine si mangia di meno. Lo stesso vale per il vino, la birra e le bibite di qualità. Conviene nutrirsi di alimenti buoni e conoscere ciò che mangi. Conviene venire da Eataly. Alla fine si risparmia, si gode e si è più in forma. Stupido non farlo… vero?»

il cui stile di comunicazione è inequivocabilmente quello del fondatore o quantomeno del suo staff, che sembra averlo introiettato fino in fondo fino a proporlo in ogni iniziativa di Farinetti come ad esempio il manifesto 7 mosse x l’Italia: sferzante, diretto, ottimistico. Forse la differenza tra manifesti come quelli citati sopra e altri sparsi negli anni nei punti vendita è proprio sui contenuti, particolarmente provocatori.

È decisamente forte, in tempi di crisi profonda, sostenere che da Eataly «si risparmia», che il cibo «di alta qualità costa poco di più». Eataly è sicuramente il tempio della spesa dei gourmet, ma difficilmente può essere spinto come supermercato di prossimità in cui fare la spesa quotidiana. Sicuramente l’alta qualità merita un’adeguata retribuzione; però è un po’ un peccato che rimanga terreno di una nicchia di fortunati.

Quattro salti nella vita quotidiana

Spot televisivi, annunci radio e affissioni ovunque: Findus ha iniziato l’autunno facendo la voce grossa soprattutto con il rilancio della linea 4 Salti (in padella, anche se queste 2 paroline stanno progressivamente scomparendo). Un tentativo vistoso di cambiare target, di passare dai single incapaci di cucinare alle madri di famiglia uscite direttamente dagli anni Sessanta.

“Madri di famiglia”? Le immagini e gli slogan rimandano a una realtà che oggi non ha riscontro sulla realtà quotidiana del nostro Paese. L’effetto straniamento è probabilmente voluto, ma guardare le scenette retrò non mette tutti di buon umore come avrebbero voluto i creativi della McCann Worldgroup. Soprattutto se a guardare gli spot sono proprio i clienti attuali dei prodotti.

Uno dei soggetti della campagna 2011 per i 4 salti FindusSi tratta di un’intera generazione di 30-40enni semi-disoccupati-permanenti, che la campagna in questione etichetta implicitamente come “bamboccioni”, figli di donne esclusivamente viste come massaie silenziose e scodinzolanti. Per di più, se è pur vero che le mamme dei 40enni capiranno i richiami grafici dei tempi d’oro, difficilmente porteranno in cucina dei piatti semipronti stile 4 salti.

La campagna riesce a far parlare di sé, soprattutto tra i professionisti, ma di fatto riesce ad alienarsi la simpatia di tutti gli acquirenti attuali e magari potenziali. Probabilmente i pubblicitari saranno soddisfatti della propria idea e della sua declinazione creativa: immagini e lettering sembrano essere usciti direttamente da Mad Men, loro serie TV di riferimento, ambientata nei Sessanta.

In tempi in cui la maggior parte delle campagne strizza l’occhio alla crisi, il tentativo di elevare a modello un’epoca glamour, ma non certo un riferimento per il ruolo della donna, è un tentativo rischioso. Probabilmente i 4 Salti sono un FMCG la cui scelta dipende solo parzialmente dalle campagne pubblicitarie, ma non renderà molto il rendersi antipatici cercando di fare i simpatici.

Il mecenatismo delle birre e le birre ignoranti

Ironizzare sulla campagna primaverile di Beck’s Next era stato facile, visti i testi un po’ bizzarri; tuttavia, le immagini degli spot erano piuttosto didascaliche e vedevano sempre come protagonisti dei ragazzoni che nelle varie scene tracannavano la birra in questione. Poi è arrivata l’estate e la nuova campagna Beck’s ha raggiunto nuovi picchi di incomprensibilità. Nei nuovi spot si intravvedono una serie di misteriosi oggetti 3D rotanti, mentre il testo ci informa che la Beck’s è stata la prima birra tedesca a passare dal vetro marrone al vetro verde e che “è solo parte della storia”. Tra gli altri soggetti della campagna, anche uno spot con un cubo verde rotante e lo stesso claim finale.

Un manifesto della campagna Beck's dell'estate 2011 fotografato nella Metropolitana di Milano

Il sito ufficiale della birra, richiamato nelle affissioni come luogo per gli approfondimenti, spiega che la storia (ecco) del mecenatismo di Beck’s dura da oltre 100 anni e che la nuova iniziativa è il

«Green Box Project, un fondo globale per ispirare, celebrare e finanziare talenti indipendenti nel campo dell’arte, del design, della musica e della moda. Tramite il Green Box Project, nell’arco dei prossimi tre anni Beck’s finanzierà ed esporrà 1000 progetti di artisti e creativi dalle visioni innovative. Le opere d’arte nate da questo progetto potranno essere viste in tutto il mondo sotto forma di realtà aumentata all’interno delle Green Box e nella galleria virtuale del nostro fondo, dove saranno esposte in modo permanente. Per lanciare il progetto, quest’anno tra luglio e settembre installeremo 30 Green Box – cubi verdi che custodiscono contenuti virtuali esclusivi opera di artisti di fama internazionale – negli Stati Uniti, in Inghilterra e in Italia.»

Un Progetto ambizioso, sicuramente meritorio, la cui complessità sfugge del tutto a chi distrattamente vede i cartelloni nella Metropolitana di Milano o scorrendo le repliche estive in TV. Ci può stare che il Progetto sia dedicato a personaggi smart a sufficienza per essere incuriositi dalla campagna e volerne sapere di più, ma che c’entra la birra? A proposito di Metropolitana: per settimane si sono visti cartelloni bianchi, senza marche esplicite, con scritte in blu a richiamare lo stile di Facebook. Dopo il periodo di teasing, gli spot di Nastro Azzurro hanno ripreso gli slogan in questione per la nuova campagna, incentrata sullo stile di vita italiano, tra sentimenti/culture/mode/arti.

Un manifesto della campagna Nastro Azzurro dell'estate 2011 fotografato nella Metropolitana di Milano

Non è la prima volta che la birra di casa Peroni punta su questo tipo di approccio: negli scorsi anni aveva sponsorizzato il Festival del Cinema di Venezia e diffuso diverse campagne celebrative del design italiano. Anche qui come per Beck’s, un posizionamento molto chiaro, che punta su un target “cool e metropolitano”, quasi elegante; altro che i finti Blues Brothers e le ragazzine scosciate in spiaggia che negli scorsi anni dedicavano un mini-musical alla birra Dreher; altro che il Baffo Moretti e il suo appoggio incondizionato al plebeo mondo del calcio (con tanto di Trofeo); altro che gli spot Heineken con il ballo in maschera e la canzoncina che da mesi continua a batterci in testa.

Rimane un po’ la curiosità se il target “cool e metropolitano” di cui si diceva comprerebbe mai davvero birre da supermercato come la Beck’s o ancor peggio la Nastro Azzurro, o piuttosto non si dedichi alla moda del momento (la birra artigianale) o alle sempre ottime birre belghe di importazione. Per la massa, quella che gli spot di Beck’s non li capisce proprio e trova stucchevoli quelli di Nastro Azzurro, sembrano avere più successo le “birre ignoranti” discusse su Facebook. Purtroppo è evidente che una reale cultura della birra sia poco diffusa e questo è sicuramente un peccato; cercare di farla crescere passando dalla Cultura con la C maiuscola è però un po’ pretenzioso.

Gastrofanatici? No, però…

Ultimamente su Pollicinor fioccano i post food-related. Di queste tendenze ci si rende conto quando ci si trova nel mezzo: difficile prevederle, visto che un tumblelog segue necessariamente gli umori di chi lo scrive, ma anche il flusso informativo che lo circonda. E stavolta i segnali food-related, pur se inizialmente debolucci, si intravvedono oggi su numerosi blog e tumblelog.

Non si sta parlando dei siti delle cuoche/degli appassionati di cucina che descrivono le proprie ricette o semplicemente fotografano, spesso suscitando l’acquolina, le creazioni più riuscite; né delle piattaforme dedicate, tra cui brilla per completezza e qualità il network Dissapore. Ci si riferisce ai contenuti di chi la buona cucina la vive come fatto quotidiano, prima che come passione.

Molti di noi quotidianamente trangugiano junk food in ufficio, in attesa di una cena succulenta, che possa ripagare dalle fatiche quotidiane. A casa o al ristorante, poco importa: la voglia di mangiare bene si può declinare in maniera diversa a seconda delle opportunità e delle necessità del momento. E in qualche modo ciò che scriviamo in Rete ne risente, spesso positivamente.

I gastrofanatici sono in costante crescita, ma il profilo è diverso: servirebbe un’etichetta diversa per descrivere questo nuovo tipo di amanti della buona tavola. Se i primi sono appassionati di ingredienti sopraffini e smaniano di frequentare i locali suggeriti da Slow Food, i secondi ricorrono a 2spaghi e cercano un equilibrio quotidiano tra gusto, qualità, tempo, denaro, curiosità.

In termini di marketing, si tratta di un target molto interessante. Molti di noi non hanno la possibilità di inseguire pedissequamente i suggerimenti chic dei foodies più agguerriti, ma hanno disponibilità sufficienti (in termini economici e non) per sperimentarli, con modi propri; allo stesso tempo, non disdegnano di seguire i programmi televisivi che parlano di cucina in maniera leggera, spontanea.

Questo gruppetto di persone sta soffrendo, in questi giorni, a schierarsi con Stefano Bonilli o con Benedetta Parodi: sentono in maniera istintiva di dover dare ragione al primo, ma non riescono a disapprovare del tutto l’approccio pragmatico della cuoca televisiva. Di solito non è bello rimanere in mezzo al guado, ma stavolta ciò che conta è la bontà del cibo più che delle idee.

Logistica bizzarra e consumatori masochisti

Basta trotterellare per gli scaffali dei supermercati italiani per notare una quantità crescente di prodotti pronti, semi-pronti o “veloci da preparare”. La qualità è eterogenea, anche se mediamente alta, vista la crescente presenza di prodotti senza conservanti e comunque molto più differenziati di un tempo. Quello che sorprende, semmai, è l’origine degli alimenti stessi: non è infrequente trovare confezioni come quella di sotto, in un supermercato a 640 km dal luogo di produzione, quando l’alternativa italiana distava 45 km.

Due immagini da una confezione di Vellutata di carciofi di Gerusalemme Knorr

Nulla da eccepire sulla possibile qualità di questo o altri prodotti confezionati, cui va riconosciuto il merito di proporre ricette sempre più originali (chissà quante confezioni vendute ad appassionati di carciofi invece che di tuberi), per intercettare un pubblico sempre più evoluto, che a questo tipo di prodotti deve ricorrere perché magari presissimo da una vita professionalmente intensa. Il compito di molti di noi che si occupano di marketing e dintorni, peraltro, è convincer loro che si tratti della soluzione più adatta in tali occasioni.

Dove il marketing può far poco, è nei casi in cui l’unico driver di scelta del consumatore è il prezzo. Non c’è campagna di esaltazione del tubero che tenga quando allo scaffale dei costosissimi cibi semipronti del supermercato di quartiere non ci si arriva proprio e si punta dritto all’hard discount sotto casa per cercare magari un cibo più semplice e veloce da preparare, come può essere una mozzarella. Tra l’altro, in questo caso, l’occhio all’etichetta non cade, visto che in molti casi non c’è proprio, non essendo obbligatoria.

Il riferimento al formaggio del discount, ovviamente, deriva dalla storiaccia delle mozzarelle blu, che negli scorsi giorni ci ha colpito molto e spinto per l’ennesima volta a riflettere non solo sulle dinamiche un po’ bizzarre della logistica di cui sopra ma anche sulle scelte di acquisto dei consumatori come ha fatto Fiorenzo Sartore su Dissapore. Perché a tutti piace risparmiare qualche Euro, ma farlo sul cibo è da dementi: buona intossicazione a coloro che vogliono farsi del male, indipendentemente dalla provenienza dei cibi.

Un plauso a Poggio Argentiera

In queste settimane di ozio forzato, una piacevole attività a metà strada tra virtuale e reale è stata l’avvio delle degustazioni previste dal blogger panel di Poggio Argentiera. Il lato virtuale è quello puramente legato allo spirito di marketing dell’iniziativa, nata e sviluppata attraverso il blog di Gianpaolo Paglia; quello decisamente reale è la possibilità di degustare dei buoni vini comodamente a casa, coi propri tempi e modi.

Che si tratti di professionisti o di semplici appassionati, coloro che hanno aderito al panel hanno sino ad ora dimostrato una buona curiosità per una serie di vini spiccatamente legati al territorio della Maremma: non particolarmente noti, ma assolutamente stimolanti. Sono vini ben raccontati dal produttore e dai suoi lettori, che interagiscono in tutta libertà sui propri blog o negli spazi ufficiali messi a disposizione dall’Azienda.

L’iniziativa è stata ben curata sin dal lancio, quasi un anno fa. Una selezione intelligente del panel (lontana dallo stereotipo del “prendo i primi 50 della classifica xyz”), una scelta di bottiglie con significati ben precisi, ma anche una buona gestione della logistica e del packaging. Una bella operazione di marketing che non a caso è stata recentemente ripresa, seppure con uno stile un po’ diverso, dallo staff di Francesco Zonin.

Nei prossimi giorni e poi a seguire nelle settimane successive, Pollicinor ospiterà le recensioni, del tutto amatoriali, dei sei vini ricevuti da Poggio Argentiera. Qui su .commEurope rimane invece questo memo destinato a chi blatera quotidianamente di corporate blog e poi non sa cosa consigliare alle aziende che chiedono un supporto per una presenza “utile” in Rete: Poggio Argentiera rimane una case history che merita rispetto.

Galbani vorrà ancora dire fiducia?

Corrono per le strade delle nostre città i camioncini giallo-verdi di Galbani. Corrono come hanno sempre fatto, come ricordiamo sin dall’infanzia, come facevano già decenni prima. Galbani è un marchio italiano storico e proprio per questa sua natura così nazional-popolare, è sempre riuscito ad attirare le simpatie delle masse, anche con prodotti di posizionamento non eccelso come il formaggio Bel Paese e i suoi derivati.

Galbani è un’azienda che ha cambiato mille volte padrone, ma ha sempre conservato la produzione in terra italica. Che fosse di proprietà Danone o sotto l’egida Lactalis, ha conservato la gamma di prodotti storica e le stesse modalità di distribuzione, con tutte le criticità collegate che lo scandalo degli scorsi giorni ha indirettamente sottolineato: l’esigenza di avere punti di distribuzione sparsi per il territorio comporta ovvie difficoltà di controllo.

Il fatto che da anni «Galbani vuol dire fiducia» forse ha avuto un impatto ancora più forte nello sviluppo della vicenda. Da diceria locale a notizia principe dei quotidiani, il sistema di contraffazioni alimentari ha fatto crollare le vendite del marchio che insieme a Locatelli e Invernizzi ha costruito l’immagine internazionale dell’industria casearia italiana: è stato un brutto trauma per molti Italiani, clienti prima o poi dell’Egidio Galbani SpA.

Interesante notare che in realtà l’avvio della spirale distruttiva sia stato dato non tanto dalla notizia delle contraffazioni, quanto da quella della decisione da parte di una delle Coop di ritirare i prodotti Galbani dai propri punti vendita. Alla base del clamore, uno scontro di credibilità: tra la “fiducia” di Galbani e la “fama” di Coop ha evidentemente vinto quest’ultima, ritenuta più severa in termini di standard qualitativi.

Può essere che dopo questa vicenda il marchio Galbani sarà compromesso per sempre, almeno sul mercato italiano. Forse converrebbe all’azienda farlo scomparire dai prodotti Santa Lucia e lasciarlo solo su quelli “tradizionali”. O forse l’azienda potrebbe anche non fare nulla: aspettare che la buriana passi e il consumatore dimentichi l’accaduto potrebbe essere una strategia vincente nel lungo periodo. Nel breve, meglio star zitti e abbozzare.

Pane al pane, vino al vino

Sembra scritta in un’altra epoca storica, l’analisi di Marketing Routes che, ad inizio aprile, analizzava con eleganza i risultati delle interviste effettuate con i responsabili di alcune aziende vinicole del Nord Est. L’articolo era decisamente scritto “al momento giusto”: stava per aprirsi il Vinitaly e l’attenzione di produttori, esperti e amanti del vino di tutta Europa stava per essere concentrata quasi totalmente verso la famosa manifestazione di Verona. Una bella occasione per ottenere nuovamente il meritato credito sui mercati internazionali da parte di un settore agroalimentare italiano che, negli ultimi mesi, ha avuto pesanti critiche a causa di mozzarelle di bufala alla diossina e dintorni.

Peccato che, poche ore dopo l’articolo di Marketing Routes, sia scoppiata l’ecatombe. Se non erano bastate le polemiche intorno a “Brunellopoli”, percepite forse come troppo settoriali da parte dei clienti finali, la pubblicazione di un eloquente dossier su “Velenitaly” da parte de L’Espresso ha avuto l’effetto di una deflagrazione nell’opinione pubblica italiane ed internazionale. L’incubo del vino al metanolo di metà anni Ottanta e delle sue vittime è balenato nella mente di tutti, compresi coloro che del vino non sono consumatori abituali. L’indagine del magazine, infatti, riguarda soprattutto i vini più modesti, quelli che purtroppo molti consumano senza troppi pensieri, in casa o nei locali pubblici meno qualificati.

Il punto è che il mercato interno del vino, negli anni, è profondamente cambiato. Oggi il vino è l’ottava categoria merceologica della GDO, che vende il 60% dei vini con un prezzo inferiore ai 3 Euro. L’accusa de L’Espresso che alcuni di questi vini (tutt’ora in vendita), siano ricchi di acido solforico, acido muriatico, concimi ed altre orripilanti sostanze, rende piuttosto diffidenti verso l’intero settore; la notizia che anche interi stock di presunto olio extravergine d’oliva, biologico e italiano, venduto da Coop e Conad siano in realtà contenenti liquami provenienti da tutto il mondo, provoca la pelle d’oca anche ai clienti più smaliziati della Grande Distribuzione, che da tutta la vicenda esce di volta in volta come vittima o carnefice, a seconda dei punti di vista.

Ci sono voci discordanti, come quella di Carlo Odello, sul fatto che giornalista ed editore de L’Espresso abbiano scelto tempi e modi corretti per raccontare delle indagini della Magistratura. Ci sono giornalisti, come Enzo Vizzari, che a causa di queste critiche sono stati zittiti. Ci sono esperti del settore, come Antonio Tombolini, che ritengono poco grave la vicenda del vino adulterato rispetto a quella di Brunellopoli. Tutti, però, dovrebbero concordare sui disastrosi risvolti sull’immagine internazionale dell’intero settore: dalle cantine agli enologi, dai distributori ai giornalisti specializzati, tutti hanno contribuito, più o meno implicitamente, a questa situazione ed ora tutti, più o meno esplicitamente, dovranno subirne le ripercussioni. Altro che le mozzarelle: stavolta lo strike colpisce tutti.

Un widget a testa e il consumatore fa festa

Si era già discusso un paio di anni fa della voglia diffusa, tra le grandi aziende, di utilizzare le informazioni nutrizionali sui propri prodotti come clava pubblica per dimostrare a consumatori abituali e potenziali la salubrità dei propri prodotti. Quella volta ci aveva provato McDonald’s, intenta a dare una ripulita alla propria immagine di produci-veleni-alimentari in favore di un curioso riposizionamento come azienda fornitrice di prodotti di qualità grazie all’introduzione preventiva del “famoso” programma Hazard Analysis And Critical Control Point, per gli amici HACCP. Nel 2007, invece, la palma di azienda produci-bimbi-ciccioni-che-vuole-rifarsi-il-look è andata a Coca Cola Italia, che tra i clamori di mezzo Web ha iniziato a distribuire un widget finalizzato a comunicare le informazioni nutrizionali sui propri prodotti.

Il sitarello informativo, ampiamente pubblicizzato sui maggiori siti italiani e poi commentato dalla blogosfera, spiega che per poter visualizzare le informazioni è necessario scaricare e installare Google Desktop, per poi scaricare «l’interfaccia GDA dei prodotti Coca Cola» (eh?), al fine di scoprire l’apporto nutrizionale delle bevande Coca Cola e poi, probabilmente, smettere di berle. Uno sforzo cognitivo non indifferente, per i distratti navigatori del Web, che però non porta loro davvero nessun beneficio tangibile: se proprio non si può fare a meno di conoscere le informazioni nutrizionali della propria bevanda gassata preferita, basta girare la bottiglia e leggerle da lì, piuttosto che portarsi sul PC l’ingombrante Google Desktop. Apprezzabile il tentativo di rifarsi il look a botte di comunicati stampa sui widget, insomma, ma realisticamente tendenti allo zero le installazioni.

Molto più scoppiettante, invece, l’altro widget “nutrizionale” lanciato in queste settimane: si tratta di un’iniziativa dell’Agenzia Le Balene Colpiscono Ancora, che qualche anno fa curava le campagne nutrizionali McDonald’s di cui sopra. Viene regalato a chi si registra al sito Mivida, la dolce vida e compila un bizzarro questionario utile ad illustrare i vantaggi di Misura Mivida nell’uso quotidiano; si riceve via e-mail in doppia versione (per Windows e MacOS) e non necessita di installazione e connessione ad Internet. Anche in questo caso, l’etichetta di “widget” è un po’ forzata; contrariamente al softwarino Coca Cola, però, la bustina Mivida virtuale che viene visualizzata sul PC dell’utente ha un’utilità quotidiana. Si può infatti scegliere tra un ampio numero di alimenti e conoscere apporto calorico e principali valori nutrizionali.

L’ultimo widget visto balenare sui nostri schermi in queste ultime settimane è Todolive di Todomondo, che finalmente non parla di calorie e grassi, ma di opportunità di andare in vacanza a prezzi scontati. L’applicazioncina è disponibile solo per Windows e si connette periodicamente ai server di questa agenzia di viaggio virtuale per proiettare, in maniera animata, le migliori offerte disponibili. Uno strumento utile per gli utenti, un mezzo potente per chi lo fornisce: è un canale sempre aperto col cliente, che può essere utilizzato in maniera versatile per veicolare le più svariate informazioni, in maniera indipendente (rispetto alla soluzione di Coca Cola basata su Google Desktop) ed interattiva (rispetto all’applicazione offline di Misura). Quanto ci metteranno le altre aziende ad imitare Todomondo? Quali widget verranno riconosciuti come indispensabili (o quantomeno utili) dai clienti?

Alixir, Darth Vader e i fantasmi di Barilla

Quando a fine settembre Barilla ha annunciato 10 milioni di investimenti pubblicitari per il lancio della linea Alixir, a molti è sembrata una presa di posizione forte su un mercato nuovo, quello dei cosiddetti alimenti funzionali, che per molti sarà la vera miniera d’oro del mercato alimentare del futuro. Una fuga in avanti con obiettivi modesti nel breve termine (appena 25 milioni di Euro in un anno, dai quali vanno scontati ulteriori 10 milioni di investimenti triennali per spese di produzione e design), ma con prospettive assolutamente ampie nel medio-lungo: la vita media si allunga e questo tipo di prodotti dovrebbero permettere all’organismo di maturare nel tempo, ma non di deperire nell’invecchiamento. Tutto affascinante, in effetti: tremate concorrenti, Barilla ancora una volta cercherà di rivoluzionare il mercato!

I prodotti della linea Barilla AlixirEppure non si direbbe che sia andata esattamente così. Con la sua tipica strategia di marketing disarticolata, anche stavolta Barilla ha sparato altissimo per raccogliere bricioline. Sul Web sono fiorite le recensioni negative appena pochi giorno dopo la comparsa negli ipermercati e nei principali supermercati italiani di inquietanti totem neri: amorevolmente definiti Darth Vader (sigh) da chi ha potuto apprezzarne contenuti e presentazione, sono durati lo spazio di un soffio, poi sono spariti pressoché ovunque. Mentre ancora i circuiti televisivi outdoor riproducevano a spron battuto lo spot Alixir, i prodotti nei negozi risultavano già introvabili: un’apparizione decisamente fugace, una scomparsa assolutamente incomprensibile. Il sito ufficiale, ricamato con cura da Healthware, non dice nulla a proposito.

Le ipotesi su ciò che è successo davvero si sprecano, ma nessuna è veramente attendibile. Alcuni addetti ai lavori hanno puntato sulla considerazione che, di fatto, molti dei prodotti Alixir cannibalizzino il resto della produzione Barilla, in particolare di quella Mulino Bianco: i prodotti della linea “Liberi per Natura”, ad esempio, risultano al confronto poco salutari, ma sicuramente più vicini alla tradizione Barilla. La maggior parte dei commenti, anche in Rete, si è però concentrata sui prezzi all’utente finale dei prodotti Alixir: il pane “brioche” a 20 Euro al kg, in effetti, è un prodotto che diventa per definizione non abbordabile dalla maggior parte dei consumatori, ma perde interesse anche per quelli più sensibili alla cura della propria salute. L’assunzione di fondo, in effetti, sembrerebbe essere che Alixir sia una serie di prodotti Premium destinata “a chi se li può permettere”, piuttosto che ai salutisti.

Posizionamento legittimo, quello di Alixir come linea di prodotti “di lusso”. Non è difficile intuire che anche la scelta del nero lucido, più che a misteriose connotazioni giapponesi, in realtà vorrebbe strizzare l’occhio ai prospect con le solite connotazioni di “eleganza”, “essenzialità” etcetera cui le riviste di moda ci hanno abituato. Ciò che non si capisce, però, è il marketing mix complessivo: un prodotto [presentato come] di alta qualità, con un prezzo Premium ed un confezionamento “esclusivo”… Venduto negli ipermercati? Nascosto in un monumentale totem nero posizionato alla meno peggio accanto alle merendine Kinder ed al pan carré San Carlo? Prodotto in collaborazione (vedi bibite) con San Benedetto, che notoriamente produce acque minerali di qualità media? Noi tutti amiamo Barilla in maniera infantile… Ma le sue strategie di marketing sono veramente imperscrutabili.