La strana comunicazione del Ministero per i Beni e le Attività Culturali

Una delle immagini della campagna del Ministerto per i Beni e le Attività Culturali

A metà dicembre, la Direzione Generale per la valorizzazione del patrimonio culturale del Ministero per i Beni e le Attività Culturali festeggia i primi 100 giorni di attività con una presentazione alla stampa. Vengono presentate attività interessanti come l’accordo con Google per visualizzare in Street View gli scavi di Pompei oppure il lancio delle attività su Facebook, Twitter e soprattutto Youtube.

Vengono annunciati eventi straordinari di ampio respiro culturale, di cui molti legati al sostegno del recupero del prezioso patrimonio culturale ed artistico abruzzese. Il Ministero pubblica anche un comunicato stampa sul proprio sito, ma il tutto passa sostanzialmente inosservato, finché un mese dopo Roberto Venturini pubblica sul proprio blog, molto seguito dai markettari italiani, un commento alle foto che accompagnano il comunicato stampa.

Si tratta della campagna di comunicazione che, proprio nel suddetto incontro, è stata presentata con fare trionfale dal Ministro Sandro Bondi e che nel frattempo ha iniziato a viaggiare su più canali anche in formato mini-spot, sollevando diverse perplessità in Rete. Roberto la definisce ironicamente “unconventional” analizzandola tecnicamente, altri sono molto più aggressivi e criticano aspramente l’idea creativa e la sua implementazione.

Oltre al Colosseo smontato rappresentato qui sopra, anche il David di Michelangelo ed il Cenacolo di Leonardo Da Vinci vengono maltrattati e accompagnati dallo slogan perentorio “Se non lo visiti, lo portiamo via.” scritto a grandi caratteri. Al di là delle valutazioni politiche rispetto alle competenze del Ministro ed al suo operato, le perplessità dei navigatori sono giustificate: qual è il senso profondo di questa campagna, perché è stata ideata ed approvata così?

Europeana, simbolo delle grandi sfide culturali contemporanee

Sala gremita, auditorium universitario di una grande città: il docente che sta esponendo le sue slide ad un certo punto cita Europeana. Con la coda dell’occhio nota il viso perplesso di uno studente e gli sorge un dubbio. Si interrompe e chiede a tutta la platea, formata da docenti e studenti, quanti conoscano Europeana. Qualche docente bofonchia, solo uno studente annuisce.

Ci sarebbe da scommettere che lo studente conoscerà Europeana più per le difficoltà incontrate al tempo del rilascio lo scorso novembre che per un effettivo utilizzo in prima persona della piattaforma a fini di ricerca e approfondimento. Eppure, Europeana sembrerebbe fatta apposta per accompagnare studenti e docenti nella conoscenza della cultura europea.

Il progetto è infatti ambizioso: Europeana vuole censire e condividere fino a 10 milioni di opere culturali e artistiche prodotte nel corso dei secoli nei vari Stati dell’Unione Europea. Una volta risolti i problemi tecnici legati all’eccessiva curiosità dei cittadini ai tempi dell’annuncio, dovrebbero già essere consultabili oltre 2 milioni di opere, a titolo completamente gratuito.

Europeana è diversa da Google Book Search e da Wikipedia: si tratta di un progetto internazionale senza scopo di lucro (ciò la differenzia dall’iniziativa di Google e dai vecchi tentativi di Microsoft) ed è seguito da un gruppo di professionisti (ed in questo diverge dalla seconda). Una sfida enorme, che ben rappresenta opportunità e difficoltà di questo tipo di progetti.

L’Unione Europea sembra aver deciso di accettarla, insieme ad altri investimenti culturali finalizzati alla condivisione dell’enorme patrimonio proprio di questo Continente. La preoccupazione è che, spaventati dai risultati di pubblico prevedibilmente marginali, i gestori della piattaforma possano desistere dal portarla avanti. Costa solo 2 milioni di Euro annui, vale la pena.

La mostra complessa sul decennio lungo del secolo breve

Merita una visita annisettanta – Il decennio lungo del secolo breve, la mostra inaugurata a fine ottobre alla Triennale di Milano. Fino a fine marzo, infatti, si ha la possibilità di immergersi nel clima, nei tempi e negli stili di quel decennio così rilevante per la nostra storia recente: presentando questa mostra, il Presidente del Consiglio di Amministrazione della Triennale, Davide Rampello, ha definito gli «Anni Settanta il decennio più importante del secondo dopoguerra» e in effetti tutto l’allestimento restituisce ai visitatori il senso del “peso” che quella decade ha avuto sul nostro immaginario, sui nostri costumi, sulla nostra visione del mondo contemporaneo. Un “decennio” che la mostra fa iniziare nel 1969 e terminare nel 1980, un ponte che va dalle ferite del Vietnam ai primordi dell’edonismo reaganiano.

La peculiarità di questa mostra è soprattutto nella tipologia di opere esposte: non si tratta di un evento-reliquiario come molti possono immaginare sulla carta, visto che gli oggetti d’epoca sono veramente pochi, tendenti al nulla; non si tratta nemmeno di una mostra d’arte contemporanea in senso stretto, sebbene intere aree siano dedicate ad opere d’arte prodotte negli stili più variegati e negli anni più svariati (si parte dagli anni Settanta, ma si arriva anche ad opere prodotte nel XXI secolo, non senza qualche forzatura). Sicuramente la mostra si può definire “evento multimediale”, vista l’ampia disponibilità di materiali audiovisivi; molto meno attendibile l’etichetta di “evento memorabile”, visto che, tutto sommato, la stessa Triennale ha nel tempo prodotto mostre che lasceranno tracce più forti nella nostra mente.

Ciò che i visitatori della mostra non potranno dimenticare, tra l’altro, è il senso di acuto pessimismo che l’intera mostra proietta sul visitatore: dimenticatevi figli dei fiori e zampe d’elefante, visto che il tema dominante della mostra sembra essere il terrorismo ed in particolare il sequestro Moro. Statisticamente, almeno la metà delle installazioni hanno un qualche riferimento alla faccenda: alcune (vedi “3,24 mq”, che è la riproduzione 1:1 della “cella” di Aldo Moro) ne parlano in maniera esclusiva, in altre frammenti di questo dramma collettivo esplodono e deflagrano come incubo dominante di quel decennio e (correttamente?) dell’intera mostra. Molto meno presenti, invece, gli sprizzi di positività dell’epoca: l’immaginario glamour tanto tornato di moda negli ultimi anni emerge praticamente solo nell’installazione dedicata a Fiorucci.

Nel complesso, dunque, annisettanta è una mostra che deve essere vissuta, spremuta e interiorizzata con attenzione: è facile rimanere turbati dalle copertine di Cannibale, ma si può anche sorridere scorrendo quelle dei tanti periodici nati in quel periodo; si può rimanere rattristiti dal velo di pesantezza calato sui Carosello selezionati da Gianni Canova per dimostrare la scoperta del “cibo industriale” degli italiani nei Settanta, ma poi ci si potrà divertire a scorrere gli albi delle figurine Panini. Si tratta di un decennio complicato e la mostra, ampliandone i confini, lo rende ancora più complesso: sia onore ai creatori di annisettanta per il coraggio dimostrato nel metterci di fronte alle assurdità del nostro passato recente. In attesa che, non è difficile intuirlo, dopo gli anni Sessanta e gli anni Settanta, la Triennale possa dedicare un evento ai tanto bistrattati anni Ottanta.