A che punto è la crisi?

Se si dovesse guardare la crisi dal punto di vista della comunicazione politica, si farebbe oggi fatica a capire dove sono posizionati il nostro mondo e la nostra economia. La sensazione è che, dopo i drammi finanziari dello scorso autunno in cui i politici internazionali dovevano comunicare ottimismo a tutti i costi, ora abbiano iniziato a cambiare atteggiamento. La confusione, quella sì, continua comunque a farla inevitabilmente da padrone universale.

Ci sono titoli celebri che, nelle Borse di tutta Europa, hanno quintuplicato il proprio valore dalla primavera ad oggi. Sono spesso azioni di Istituti finanziari che, dopo aver raggiunto quotazioni poco coerenti con il loro valore “reale”, negli ultimi mesi hanno fatto la fortuna di chi ha avuto il coraggio di investire la liquidità che, appena pochi mesi prima, aveva messo sotto il materasso, spaventato dai crolli dei fondi comuni in tutto il mondo.

I politici, nel frattempo, si sono resi conto che in questi mesi la crisi ha cambiato volto, mutando da finanziaria ad economica. Se prima crollavano i titoli di chi aveva soldi da investire, oggi sono crollati i consumi di chi i soldi li usa per sopravvivere. A volte per motivi oggettivi, vedi precari rimasti a casa, altri per puro senso di sfiducia, vedi responsabili d’acqusisto spaventate/spaventati dal vedere uno stipendio e una carriera che non vanno da nessuna parte.

La comunicazione politica si sta progressivamente adeguando a questo mood, anche se risulta difficile a tutti riuscire a capire qual è il modo migliore di comunicare sicurezza a chi vive nell’incertezza. I candidati alle recenti Elezioni Europee hanno accuratamente evitato di prendere posizione in merito alla situazione economica, preferendo spostare l’attenzione verso la mondanità del Premier italiano o, al massimo, su eventi internazionali.

L’unico tormentone che sembra montare sono le tematiche energetico-ambientali che, realisticamente, costituiranno la prossima bolla dopo quella Internet-related e quella immobiliare. Ormai sono decenni che la nostra Europa (ed in generale tutto l’Occidente) va avanti a botte di flussi economici a senso unico. Speriamo che stavolta almeno il risultato finale sia davvero del bene fatto all’ambiente. Speriamo che anche stavolta serva per uscire dalla crisi.

Le Elezioni, la matita copiativa e i manifesti elettorali

Esistono decine di milioni di elettori che, in tutta Europa, oggi non potranno votare. Si tratta di quei cittadini che, in diversi Stati, si trovano lontano dalla città di residenza, ma comunque all’interno del proprio Paese. Per quanto paradossale, se fossero cittadini residenti all’Estero, il proprio Stato di origine garantirebbe loro la possibilità di voto tramite le proprie rappresentanze consolari. Al contrario, nulla viene loro garantito se non si impegnano, a spese proprie, a tornare alla città di origine appositamente per votare. In altre parole: uno studente campano che fa l’Università a Torino non voterà mai, ma suo cugino, i cui genitori sono emigrati in Canada decenni fa, sì.

Si tratta solo di una delle mille situazioni imbarazzanti che, ad ogni tornata elettorale, i cittadini italiani si trovano a scontare. Centinaia di milioni di Euro spesi ad ogni consultazione, per garantire agli elettori di esprimere le proprie preferenze secondo regole che, nella maggior parte dei casi, risalgono ancora al Testo Unico del febbraio 1948. Altre centinaia di milioni di Euro spesi in campagne elettorali estenuanti, fatte di santini elettorali, fac simile di schede, tribune elettorali in televisione e soprattutto di brutti e ingombranti cartelloni elettorali, abusivi o magari esposti per poche ore, giusto il tempo che qualche big spender copra i manifesti del concorrente, magari dello stesso partito.

Meraviglia che, nel furore rivoluzionario che ha contraddistinto questi mesi da Ministro, Brunetta non abbia pensato ad intervenire in qualche modo su questo argomento, se non altro attraverso un’adeguata moral suasion nei confronti del Ministro dell’Interno, che è il sacerdote quasi unico di queste messe che, ormai annualmente, vengono celebrate in Italia al debutto dell’estate. Messe antiquate, tenute in edifici pubblici fatiscenti presidiati da forze dell’ordine che sbadigliano e presidenti di seggio intenti a consegnare agli elettori le matite copiative. Nemmeno la consolazione della penna biro come in Francia e in Germania: figurarsi chi vuole pensare al voto elettronico.

Eppure, sarebbe ora. Si risparmierebbero fondi, si aumenterebbe la partecipazione degli elettori ma anche la sicurezza e la velocità delle operazioni. Si potrebbe permettere di votare via Internet, lasciando un piccolo numero di seggi sul territorio in cui ospitare totem dedicati a coloro che amano crogiolarsi nel digital divide. E invece no: per decenni, ancora, continueremo a tenere in ballo un carrozzone in cui comunicazione pubblica e comunicazione politica danno il loro peggio. In attesa del prossimo referendum, in cui qualche migliaio di cittadini coscienziosi vorrà a tutti i costi esprimere il proprio voto, sapendo a priori che il quorum, come al solito, non verrà nemmeno lontanamente raggiunto.

Franceschini stupiscici!

Dopo l’inverno particolarmente freddo, questo marzo inizia con gli auspici di meteorologi e politologi per una primavera dalle tinte più tenui. Le Elezioni Europee si avvicinano ed il clima che si è instaurato in effetti non aiuta a vivere sereni. A destra, i soliti dissidi tra la politica rigida leghista e il moderatismo dei leader; a sinistra (?), una carneficina continua tra partiti e tra correnti del partito maggiore.

L’elezione di qualche giorno fa di Dario Franceschini a segretario del Partito Democratico è un evento difficile da posizionare in termini di potenziali impatti sulle dinamiche della comunicazione politica nazionale e (giù a scendere verso la base) locale. Ciò che gli viene richiesto da più parti è uno sforzo per aumentare la coesione e migliorare la dialettica interna al Partito. Ma non basta.

Agli elettori, delle diatribe interne, interessa fino ad un certo punto. Anzi, più si esacerba il protagonismo dei soliti noti, meno si riesce a rendere interessanti sé stessi presso l’elettorato. E per questo Dario Franceschini deve sì diventare un leader forte e credibile, ma soprattutto deve riuscire ad elaborare uno stile comunicativo riconoscibile e convincente. Deve, soprattutto, riuscire a stupirci.

Non si tratta delle “invenzioni stupefacenti” tanto care al Premier. Si tratta di una necessità auto-evidente di raccogliere dal resto del Partito le idee innovative e riproporle, con tono adeguato, al fine di far percepire il proprio valore distintivo. Si tratta di riuscire a far passare idee out of the box, al contrario di quanto fatto da Walter Veltroni. Ci riuscirà? O tra 6 mesi ci sarà un nuovo segretario?

Quando tutto diventa “storico”

Quanti momenti “storici” ci sono nelle noste vite terrene? Quanti ne viviamo in prima persona, quanti ne vediamo tracciati sui vari media, quanti ci sono raccontati da conoscenti, parenti, amici, colleghi? Quanti meritano davvero l’epiteto di “storico”, quanti in effetti lasceranno un  solco nella coscienza comune e quanti nella storia personale?

A leggere i giornali, viviamo ogni giorno nuovi, emozionantissimi, momenti storici. Tutto merita questo aggettivo: la decisione di un consigliere provinciale, il record olimpico di un atleta, gli aerei sul World Trade Center, la cresima del figlio di un attore, lo share di un programma televisivo. Tutto insieme giù nel calderone, tutto indelebilmente (?) “storico”.

La comunicazione politica, poi, si diletta a enfatizzare questa tendenza. La nascita di ogni partitino sembra essere la svolta che porterà la democrazia italiana verso un glorioso futuro, ogni risultato delle elezioni statunitensi viene letto come momento imprescindibile per il salvataggio delle sorti del mondo. Con buona pace degli “storici” risultati di Obama.

La verità è che i nostri giorni procedono con una noia terribile e senza grosse svolte significative. Potrà far parte della Storia il primo passo dell’Uomo sulla Luna, ma tra qualche centinaio di anni di tutto periodo storico rimarrà poco o nulla. Perché la comunicazione va veloce e la cronaca è diversa dalla storia. Altri momenti “storici” si succederanno.

Barack Obama tra buona fede e media mix

Che bello: Barack Obama sarà il prossimo Presidente degli Stati Uniti. Mancano due mesi e in due mesi George Bush potrà combinarne ancora di tutti i colori, ma molti di noi sono convinti che il peggio stia passando. L’economia si riprenderà, le guerre finiranno, i tassi e i cambi si stabilizzeranno e tutto il mondo andrà meglio. O forse no: l’importante però è crederlo e Mr. Obama ce lo sta facendo finalmente immaginare.

Lo fa da tempo, almeno da quel febbraio 2007 che ha visto l’annuncio della sua candidatura e l’inizio della sua guerra infinita, con Mrs. Clinton prima e con Mr. McCain dopo. L’aspetto davvero innovativo della sua campagna, però, non è stata questa capacità di far sognare, quanto il riuscirlo a comunicare in maniera efficace. Di promesse elettorali d’altronde ne sentiamo sempre e da parte di tutti: ma ormai riusciamo a filtrarle.

Da Barack Obama, invece, ci siamo fatti tutti ipnotizzare. Sia per la bontà delle sue idee, sia per il candore con cui le ha pronunciate: ha ammesso i suoi peccatucci personali a priori, poi ha invitato tutti a concentrarsi sui contenuti e sulla buona fede. Una strategia di comunicazione vincente, basata sulla limpidezza dei comportamenti e sul fascino delle idee, sui rapporti umani e sulla costruzione della fiducia collettiva.

Il vero segreto di Barack Obama, in ogni caso, è stato un saggio media mix. Curiosamente, mentre i sostenitori ne esaltavano l’uso smart della Rete e delle sue dinamiche, finalizzate alla raccolta dei fondi ed al consolidamento del consenso, i nemici lo accusavano di aver battuto ogni record di spesa in termini di spot televisivi, inducendo i suoi sfidanti a rincorrerlo in termini di investimenti e profondità di comunicazione.

La verità sta nel mezzo. Barack Obama ha saputo utilizzare i comizi come leva per entrare gratuitamente nei media di tutto il mondo, poi ha sostenuto questa presenza costante attraverso tutti i media a disposizione, affiancando pubblicità e pubbliche relazioni, passaparola e comunicazioni strutturate. Sicuramente un esempio per i nostri imbalsamati politici europei, sicuramente una speranza per i cittadini statunitensi.

La gestione dell’immagine di Mara Carfagna e la credibilità del Governo

Non passa giorno senza che un Istituto di ricerca, un quotidiano o un sito Web propongano all’attenzione dei cittadini i risultati di un qualche sondaggio riguardante la popolarità dei componenti del Governo Berlusconi o l’opinione sui provvedimenti adottati (pochi), sui disegni annuncianti (molti), sulle polemiche tra Gruppi parlamentari su argomenti futili (troppe). In fin dei conti si tratta della naturale estensione nell’agorà politica quotidiana delle dinamiche dell’agone elettorale (pressoché) annuale. I sondaggi condizionano il voto anche in Italia come all’Estero succede ormai da tempo: non poteva mancare il completamento dell’abitudine con l’adozione della popolarità personale dei politici come driver per orientare l’azione di Governo.

Ecco che, inevitabilmente, un occhio di bue si è acceso sul panorama politico per illuminare Mara Carfagna, che dell’Esecutivo è probabilmente la rappresentante più famosa (capo del Governo escluso, ovviamente) per larga parte della popolazione. Nel suo curriculum compaiono concorsi di bellezza, vallettaggio televisivo su reti pubbliche e private, calendari scosciati: un volto noto, insomma, quindi per definizione rassicurante. Più giovane di una Gabriella Carlucci, più spigliata di una Stefania Prestigiacomo, dalla prosa migliore rispetto a Topo Gigio: una figura perfetta, pertanto, per svolgere il ruolo di Ministro delle Pari Opportunità, con ampie deleghe su temi di attualità.

La foto ufficiale della Deputata Mara Carfagna nella XV LegislaturaMara Carfagna, nel 2006, suscitava tenerezza: sin dalla foto ufficiale da Deputata con gli occhi da cerbiatto sperduto nel bosco, ha sempre cercato di dissuadere il pubblico (ops: l’elettorato) che lei era lì perché brava, laureata in Giurisprudenza e stimata dal futuro Premier. E nonostante questo, finiva sempre in prima pagina più per vicende di cronaca rosa (chi non ricorda l’affaire Berlusconi – Lario – Carfagna) che per effettivi contributi al dibattito politico. Cosa pensassero di lei le deputate parte della Maggioranza è cosa nota: rimarrà sempre il dubbio di cosa di cosa rappresentasse la sua sovra-esposizione mediatica per le silenti parlamentari del Centrodestra all’opposizione.

La foto ufficiale della Deputata Mara Carfagna nella XVI LegislaturaMara Carfagna, nel 2008, è una donna che comunica sicurezza (?) e sobrietà: addio capelli da soubrette, ecco un taglio più istituzionale; arrivederci tailleur da discussione di laurea, ecco la camicetta da manager scafata. Altro che il passato imbarazzante di Michela Vittoria Brambilla: Mara ha appena qualche foto un po’ osé da farsi perdonare ed un Ministero fatto apposta per esercitare una vigorosa azione ispirata al benpensantismo. La comunicazione politica ricorda canoni troppo televisivo-dipendenti? Lei ci ricorda i valori della famiglia. I blogger la sfottono per il suo blog-comunicato-stampa-dipendente? Lei ci ricorda i valori della famiglia. Gay, lesbo e trans la provocano chiedendo reali pari opportunità? Lei ci ricorda i valori della famiglia. Il che, a noi, ricorda tanto Michele Guardì.

Retequattro, ormai è tardi

Qualsiasi cittadino mediamente informato dovrebbe ormai conoscere a menadito l’evoluzione storica del Lodo Retequattro, vale a dire l’inquietante ammasso di leggi, decreti e sentenze che nel tempo si è stratificato e trasformato in un unico fenomeno: la garanzia eterna della sopravvivenza di Retequattro sulle onde analogiche della televisione tradizionale. Un obbrobrio normativo partito ormai 20 anni fa, ma che non ha mai creato grossi scossoni alla rete “povera” del Gruppo Mediaset, specializzata in film e telenovele.

L’unico vero momento di preoccupazione per le reti televisive controllate da Fininvest è stato in realtà ormai quasi 25 anni fa, proprio pochi mesi dopo l’entrata di Retequattro nel gruppo del Biscione: era la metà degli anni Ottanta e l’acquisizione della rete precedentemente controllata da Mondadori aveva fatto scattare l’attenzione di alcuni magistrati sulla liceità delle trasmissioni televisive private su scala nazionale. Risultato: trasmissioni Fininvest sospese in Piemonte, Abruzzo e Lazio e lo spettro del fallimento.

Un bell’articolo di Paolo Dimalio su PeaceLink racconta come andò a finire quella vicenda: l’insieme dei “Decreti Berlsuconi” risollevò le sorti dell’allora unico gruppo televisivo privato nazionale, grazie ad un intricato quadro di accordi non scritti decisamente poco eleganti tra il Presidente del Consiglio Craxi, l’allora responsabile per l’informazione del PCI, Walter Veltroni, e il plenipotenziario DC De Mita. Spartizioni di potere che oggi farebbero accapponare la pelle, ma che hanno segnato la storia della TV in Italia.

Superato il più grosso degli scogli, quello della possibile chiusura, il gruppo televisivo guidato da Berlusconi non ha mai temuto davvero gli urletti di Francescantonio Di Stefano e della sua Europa7. Da un lato le spalle coperte dalla politica, dall’altro l’ormai consolidata abitudine dei telespettatori a trovare Fede sul quarto tasto del telecomando, hanno sempre garantito a Mediaset di continuare a trasmettere in analogico in barba a qualsiasi tentativo europeo di far cessare questa abitudine alquanto fuorilegge.

Non è bastata nemmeno la batosta da 350.000 Euro al giorno che le istituzioni Europee hanno comminato all’Italia appena pochi mesi fa. La rete “gialla” continua a trasmettere perle come Vieni avanti cretino e la sua scomparsa farebbe arrabbiare milioni di casalinghe e appassionare appena qualche migliaio di strenui difensori della legge. In queste ore si sente parlare degli ennesimi intrallazzi per salvare la rete dallo spostamento sul digitale: ormai è tardi, chi se ne importa. Tra pochi mesi, il passaggio, dovranno farlo tutte le reti…

L’uomo sognatore battuto dall’uomo dei sogni

Con un immenso sospiro di sollievo, possiamo definire conclusa la campagna elettorale 2008. Per quanto ancora alcune Amministrazioni Locali siano in balia dei ballottaggi prossimi venturi, la maggior parte dell’elettorato, quello che doveva votare per le Elezioni Politiche italiane, può dirsi fuori da quest’incubo. Una campagna iniziata in maniera sonnolenta che poi ha visto un’improvvisa impennata da parte dei due gruppi principali: da un lato, il Partito Democratico e il suo leader possibilista e sognatore, dall’altro il Popolo della Libertà guidato dall’uomo dei sogni attraverso le sue trovate quotidiane, tipo l’acquisizione “formato famiglia” di Alitalia.

Tutti gli altri 170 e passa movimenti, invece, hanno condotto una campagna elettorale decisamente sotto tono. Pensiamo all’Unione di Centro: un continuo tentativo di porsi come “forza tranquilla” à la Mitterand, mentre nel frattempo compilava liste piene di personaggi mediocri e ben poco “tranquilli”. L’esatto contrario della Sinistra Arcobaleno: candidati di alto profilo, ma tesi a comunicare un clima di allarmismo rispetto alla pur disastrata situazione economico-politica. Poco da raccontare sulle forze minori: continuamente a lamentarsi dello scarso spazio dedicato loro dalle televisioni, con programmi-fotocopia o fuori mercato.

C’è un soggetto politico, però, che ha turbato qualsiasi analisi ex post. Prima delle Elezioni Politiche, abbiamo tutti preso in giro la Lega Nord, i suoi manifesti e il suo profilo “nudo e crudo”; ora, non riusciamo a decostruirne i processi di comunicazione, che risultano incomprensibili ma soprattutto diversissimi rispetto a quelli comuni del resto dei partiti. Non ci riusciamo, forse perché appunto fuori registro: la Lega è il lato pragmatico dell’uomo dei sogni, è il necessario contrappeso a chi gonfia la mongolfiera con le critiche del popolo del Nord, ma non se la sente di fare promesse negative al suo elettorato. Silvio Berlusconi promette di abolire l’ICI? La Lega Nord porta la voce dei comuni, e così via.

Il sognatore per eccellenza, Walter Veltroni, durante la campagna elettorale è partito direttamente con l’aerostato. Ci ha fatto sorridere ed emozionare mentre lo gonfiava grazie all’entusiasmo dei suoi elettori; ci ha fatto soffrire quando un paio di sere fa lo abbiamo visto a raccogliere i frammenti del suo dirigibile bruciacchiato dal sole. Se avesse volato un po’ più basso, forse sarebbe riuscito a mantenere la rotta per i 5 anni canonici: ora ci aspetta una legislatura in mongolfiera, con alti e bassi. Con la differenza che alla guida, rispetto ai viaggi precedenti, l’uomo dei sogni è stanco e poco carico: una copia sbiadita del premier con le corna dei governi precedenti.

Possibilisti di moda

Si tratta di uno dei tormentoni più in voga negli ultimi anni e ne siamo tutti afflitti, come sempre avviene per le frasi di moda in un determinato periodo storico: in questi mesi, rispondiamo abitualmente “Ci può stare” sempre più spesso, in qualsiasi contesto. Lo facciamo sul lavoro, esprimendo un parere magari meno netto di un lineare “Sì, va bene”, ma anche nella vita privata, discettando del più e del meno. Un gruppetto di parole che è diventato una polirematica, un’espressione entrata nel linguaggio che però denota un atteggiamento verso la vita che tutti abbiamo assunto, almeno un po’: comunicare il possibilismo come mediazione tra certezze sfumate e negatività che si possono risolvere. La politica, come prevedibile, difficilmente poteva lasciarsi sfuggire questo fenomeno.

L’idea di concedersi delle possibilità, di ampliare gli orizzonti rispetto a subire decisioni, sin dal 2007 è stato il tema dominante di Barack Obama, che ha stregato il mondo col suo ormai storico «Yes, We Can». Un incitamento al possibilismo declinato in gesti simbolici, immagini, video, audio: una girandola di buone intenzioni suffragate da un senso della possibilità concentrato in tre parole verso il burocratismo imperante dei candidati concorrenti. Un messaggio semplice, dalla forza comunicativa dirompente, proprio per il suo essere onnicomprensivo: se il mondo impone vincoli, Mr. Obama ha la bacchetta magica per superarli. O, almeno, convince i suoi potenziali elettori di averla e di saperla gestire nel migliore dei modi.

In Italia la fase possibilista della politica l’ha inaugurata Mario Adinolfi, quando era candidato a leader del Partito Democratico in occasione delle ultime Primarie e non un qualsiasi candidato alla Camera del PD stesso. Gli spin doctor del suo partito hanno ripreso lo slogan «Si può fare», che è diventato senza dubbio il messaggio chiave della campagna elettorale di Walter Veltroni. Non un atto immenso di originalità, bisogna dire: in Italia nessuno ricorderà lo sforzo creativo di Adinolfi che utilizzava la celebre canzone di Branduardi come inno, però tutti sono sensibili al fascino di Barack Obama e molti non perdonano a Veltroni di non essere riuscito a trovare elementi veramente innovativi nella sua comunicazione elettorale.

Nelle stesse settimane in cui Coop ha iniziato a diffondere a spron battuto il suo nuovo slogan «Tutti insieme si può, basta andare alla Coop», la base del Partito Democratico ha adottato la forza possibilista del proprio leader come fulcro della propria attività elettorale, nell’ambito di una impresa a dir poco impossibile, visto lo scarto iniziale dalla concorrenza. Anche il tanto discusso video I’m PD va in questa direzione: il testo è inascoltabile e i riferimenti gratuiti a Dini e Mastella si potevano evitare, ma lo spirito possibilista appare in tutta la sua forza. In fin dei conti, in questo senso il Partito Democratico italiano sta interpretando al meglio i sentimenti di chi passa le giornate a dire “Ci può stare” o “Si può fare”. Un po’ di originalità comunicativa in più, però, non guasterebbe.

Alitalia cerca di comunicare, ma tutti vogliono dire la propria

Sarà una festa molto triste, quella di domani, per i dipendenti del Gruppo Alitalia: al di là del loro senso di appartenenza o meno all’azienda e del loro destino individuale nelle pieghe dell’eventuale piano esuberi, l’idea di appartenere alla società più criticata dagli Italiani non deve essere una sensazione piacevole. Lavorare per un soggetto economico in grave crisi non è mai semplice: le notti dei lunghi coltelli si susseguono e gli azionisti, soprattutto quelli più piccoli, vedono i propri risparmi andare a fondo e discreditano ulteriormente la serietà della compagnia che ha emesso i titoli in discesa libera. I media poi fanno la parte del leone: se in questi casi tipicamente amplificano i malumori di tutti gli stakeholders, nel caso di Alitalia raggiungono vette sublimi (si fa per dire) di necrofilia, rimestando continuamente la moribonda. Non che il clima di sfiducia verso la compagnia di bandiera sia una novità: basti scorrere gli archivi di .commEurope per scoprire come già 3 anni fa si parlasse bene persino di Trenitalia e si criticasse aspramente Alitalia.

Chi in questo ponte pasquale vola con Alitalia, vede i volti dei dipendenti tesi e preoccupati, soprattutto quelli del Personale di terra. Chi sfoglia l’edizione di marzo di Ulisse, la rivista di bordo, capisce anche il perché: i media tradizionali non rappresentano correttamente la situazione attuale della compagnia aerea; solo Il Sole 24 Ore cartaceo di oggi sembra iniziare a fotografare i rivoli del presente Alitalia, al di là del fumoso futuro di cui tanto si parla. Le ultime pagine di Ulisse, invece, presentano come sempre la realtà aziendale (con descrizioni di flotta, destinazioni, hub, servizi), ma per la prima volta parlano esplicitamente ed esclusivamente di Roma Fiumicino come aeroporto di riferimento. La rivista parla del nuovo orario e segnala implicitamente come il suo addio a Malpensa sia già consumato nella timetable in vigore tra una settimana, ma anche come le compagnie low cost del Gruppo (VolareWeb e AirEurope) diventeranno le compagnie di riferimento dello scalo varesino, acquisendo in parte le rotte dismesse dall’Alitalia.

Nell’opinione pubblica, tuttavia, regna sovrana la confusione: l’abbandono di Malpensa a molti sembra derivare dalla scelta di Air France – KLM come partner, pare un’azione cattiva e feroce fatta per sgarbo agli antipatici politici lombardi e non una condizione industriale necessaria per iniziare a “pulire” le follie accumulate negli anni dall’Alitalia, di volta in volta costretta a soddisfare gli appetiti dei politici di turno. L’adozione di decine di rotte internazionali su Malpensa è stata una sciocchezza sin dalla creazione di questa cattedrale nel deserto e, per quante critiche si possano fare agli eterni ritardi dei voli da Fiumicino, rappresenta il punto più basso nella storia della compagnia tricolore. Chi si sbraccia nel comunicare all’opinione pubblica lo sdegno per la decisione dell’Alitalia di razionalizzare le spese, fa cattiva informazione: dispiace a tutti noi per i dipendenti SEA in cassa integrazione, ma la trasparenza della comunicazione pubblica non può essere resa opaca da una turbolenta campagna finalizzata a tutelare interessi di parte con soldi pubblici.

Era scontato che la querelle Alitalia diventasse uno dei temi caldi della comunicazione politica per le prossime Elezioni Politiche. Silvio Berlusconi ha assestato un colpo da maestro: annunciando con entusiasmo la voglia di contribuire a una cordata di imprenditori italiani interessati a risollevare le sorti della compagnia grazie a un prestito ponte del Governo, ha comunque vinto una battaglia importante in questa noiosa guerra elettorale. Se la cordata si farà davvero, la sua immagine pubblica sarà inevitabilmente quella di “salvatore della Patria”, con i candidati-imprenditori a fare da discepoli; se il progetto non andrà in porto, potrà addebitare alla parte avversa la svendita un prezioso bene pubblico e un forte danno gli interessi del “suo” Nord. Comunque vada, insomma, un colpo di comunicazione vincente in una campagna che sino ad ora aveva condotto in maniera sorprendentemente low profile. Ora si attendono le mosse degli avversari, sebbene sul piano della comunicazione (come sempre) sembrano decisamente meno scaltri del solito volpone di Arcore.